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Sebastiano Messina
Cambiare le regole al voto dei sospetti
13 Gennaio 2015
Articoli del 2015
«Non giriamoci intorno: se vogliamo le primarie all’americana, dobbiamo adottare anche quelle scomode regole che lì le fanno funzionare. È finito il tempo delle primarie alle vongole». No che non è finito.

La Repubblica, 13 gennaio 2015

C’è chi ha contato i turchi di Imperia e chi ha fotografato i cinesi di La Spezia, chi ha ascoltato i marocchini ad Albenga e chi ha avvistato gli alfaniani a Genova, e vai a sapere quanto hanno pesato queste incursioni sospette sulla vittoria della renziana Raffaella Paita.

Ma sulle primarie del Pd per la presidenza della Regione Liguria pesa l’inaccettabile sospetto che siano state decise da quegli stranieri che nel loro italiano pasticciato chiedevano la scheda per scegliere il successore di Burlando e poi, all’uscita, domandavano ingenuamente dove dovevano andare per ritirare il premio promesso.

È vero: non si raccolgono 29mila voti — quattromila in più di Sergio Cofferati, uno che non ha mai avuto bisogno di stampare volantini per farsi riconoscere dai suoi elettori — portando ai seggi i cinesi con il pulmino. E infatti persino ad Albenga, dove i marocchini reclamavano la ricompensa, non basterebbe annullare il voto di tutti i 147 extracomunitari che hanno votato lì per riequilibrare un risultato davvero senza storia: 1320 voti per la Paita, 246 per Cofferati. Eppure c’è qualcosa che non va, in quelle comitive di cinesi che si so- no presentati al seggio di La Spezia o in quella processione di settanta turchi che andavano a votare a Porto Maurizio.

Così come c’è qualcosa che non va in quel sindaco ex An di Albisola Superiore che ha radunato gli amministratori della Riviera per sostenere la Paita, o in quel capogruppo dell’Ncd che candidamente annuncia che manderà i suoi elettori a votare per la candidata renziana, dando nomi e volti ai sospetti di un inquinamento politico di una consultazione promossa, organizzata e riconosciuta dal Partito democratico.

Cosa c’è che non va? C’è che le primarie, quella festa della democrazia e della partecipazione che abbiamo importato — insieme a tante altre cose — dalla politica americana, rischiano di essere macchiate, snaturate e delegittimate dalle incursioni e dalle scorribande di chi non c’entra nulla né col Pd né con le elezioni italiane, e si presenta al seggio solo per dare un voto venduto davanti alla porta oppure per scegliersi l’avversario preferito. Non è, quella di Genova, una storia nuova. Le primarie per il sindaco di Napoli, quattro anni fa, furono annullate per i troppi sospetti, e poi si scoprì il tariffario del clan Lo Russo: dalla borsa di pane-latte-carne per un voto singolo ai cinquanta euro per un voto doppio, il primo alle primarie e il secondo alle amministrative. E anche adesso, in Campania, organizzare le primarie è diventato un incubo, visto che dopo aver rinviato la data per due volte stanno cercando di “superarle” con un candidato scelto a Roma.

L’invocazione delle primarie si è tramutata nella paura delle primarie. Ma sarebbe un errore imperdonabile tornare indietro. Senza le primarie, uomini estranei alla nomenklatura di partito non sarebbero diventati sindaci di Milano, di Genova, di Roma o di Cagliari. Senza le primarie, i partiti — non tutti: quelli che le hanno adottate, perché per gli altri non è cambiato nulla — continuerebbero a scegliere i candidati senza tener conto della volontà dei loro militanti, dei loro iscritti, dei loro elettori.

Ma le primarie, per funzionare, hanno bisogno di regole efficaci. La prima regola è che le primarie funzionano quando più persone si battono per una sola candidatura, perché così lo scontro diretto per la maggioranza assoluta fa emergere pregi e difetti di ciascuno. Sono invece un disastro se vengono organizzate per compilare una lista, quando basta un consenso parziale, perché allora si torna alla guerra delle preferenze (e ci sarà un motivo se il candidato più votato d’Italia alle primarie del Pd per il Parlamento, il messinese Francantonio Genovese, è stato anche il primo a finire in galera).

La seconda regola è che devono parteciparvi solo i cittadini che siano riconosciuti come elettori di quel partito. Negli Stati Uniti chi voleva scegliere tra Barack Obama e Hillary Clinton doveva essere un “registered democrat”, un elettore democratico regolarmente registrato nelle liste ufficiali. Quanto agli immigrati, nel Paese più multietnico del pianeta, possono votare tutti — cinesi, marocchini, turchi e sudamericani — ma solo dopo essere diventati cittadini americani.
La terza regola — la regola delle regole — è che le primarie vanno organizzate non con uno statuto ma con una legge dello Stato. Non giriamoci intorno: se vogliamo le primarie all’americana, dobbiamo adottare anche quelle scomode regole che lì le fanno funzionare. È finito il tempo delle primarie alle vongole.
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