La SCELTA PEGGIORE
PAGHEREMO TUTTI
di Beppe Severgnini
Phileas Fogg, qui dentro, fece una scommessa da ventimila sterline: avrebbe compiuto il giro del mondo in ottanta giorni. Ai membri del Reform Club, riuniti nello stesso luogo, ieri sera ne avevo suggerita un’altra: se la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea se ne pentirà, anche prima di ottanta giorni. E la posta in gioco, stavolta, è ben più alta. È accaduto. Leave (lasciare la UE) ha ottenuto il risultato che pochi aspettavano e molti temevano. Little England batte Gran Bretagna. Gli inglesi scappano, e non succede spesso. Il Regno Unito non è più una grande potenza: è una media potenza che sa fare alcune cose molto bene (parlare inglese, vendere servizi, andar per mare, coltivare l’arte, esportare musica e calcio). I problemi del pianeta sono troppo vasti e complessi – le migrazioni e i conflitti, gli accordi commerciali e la finanza globale – perché le democrazie europee li affrontino in ordine sparso. Gli inglesi, da soli, non ce la possono fare. Avrei voluto gridarle, queste cose: ma le regole del club lo impediscono.
Sono membro del Reform da trent’anni: è la mia casa londinese (dopo averci vissuto, non ho mai dormito in un albergo in questa città). Ed è importante trovarsi a casa quando i proprietari prendono decisioni fondamentali per la loro vita. E la nostra, in questo caso.
Il referendum britannico sull’Europa era storico: per una volta, l’aggettivo non è abusato. E il Reform Club ha dimestichezza con la storia. Come gli inglesi, del resto, che la masticano con una passione sconosciuta ad altri popoli (e non usano rimuoverla, anche quando provoca imbarazzo).
Il club ha aperto le porte centottanta anni fa, nel 1836. Esattamente dov’è oggi: 104 Pall Mall, dentro un edificio modellato su Palazzo Farnese a Roma. L’architetto, Sir Charles Barry, non voleva copertura sull’atrio centrale, come nel modello originale. Poi è stato convinto che il clima di Londra non era il clima di Roma, e ha aggiunto una cupola di vetro.
Eravamo in tanti là sotto, la notte scorsa. Un salone dove sono passati Disraeli e Gladstone, Lloyd George e un giovane, iracondo Churchill. Tutti ad aspettare, con un bicchiere in mano e un po’ di preoccupazione nello sguardo.
Per la Referendum Evening — è solo la terza consultazione nella storia del Regno Unito — il club aveva piazzato grandi televisori all’ingresso, esteso l’orario della Coffee Room (il ristorante, non servono il caffè) e tenuto aperta la Smoking Room (la sala di lettura, dove non si può fumare). Noi ci siamo chiusi a scrivere nella Study Room dove c’era poco da studiare, ormai: bisognava solo aspettare i risultati finali, che sono arrivati all’alba.
Nella Study Room, verso le 20, sono entrati un australiano, una sudafricana, un inglese. Ha detto il primo: «Io spero fortemente che rimangano! Perché la permanenza del Regno Unito è fondamentale per l’Europa, l’Europa è fondamentale per la pace del mondo, e l’Australia fa parte del mondo. Lo sa anche lui, questo pom (inglese)!». Avremmo dovuto dirgli: illuso! Ma non l’abbiamo fatto.
Un socio, esperto di statistica, verso le 21 si è alzato e tutti hanno taciuto per ascoltarlo: «Otto sondaggi su dieci per Remain», afferma sicuro. Ha detto un altro, verso le 22: «Vengo da Downing Street: Remain chiuderà al 58%». Un terzo, poco dopo: «Secondo me si resta in Europa, ma con una percentuale più bassa: 52%». Un quarto, intorno a mezzanotte: «Stasera decideremo che tipo di nazione vogliamo essere».
Ora lo sappiamo: una nazione che ha scelto il passato, 52% contro 48%. Speriamo non debba pentirsene.
Il barista, ieri sera, aveva preparato due cocktail: Remain (Prosecco, Schnapp, Pesca) e Leave (Prosecco, Blue Curaçao, Arancia). Diceva di vendere più il primo, ma a un certo punto — mentre l’atrio, lentamente, si svuotava — ha chiuso bottega.
I dipinti, dentro le cornici dorate, la notte scorsa hanno assistito a uno spettacolo inconsueto: il Regno Unito ha deciso il suo destino in modo emotivo, e non l’aveva mai fatto. Chissà cos’avrebbero votato Charles Dickens, William Makepeace Thackeray e Arthur Conan Doyle — tutti, in passato, membri del Reform Club. I primi due avevano i titoli giusti per l’occasione: Grandi speranze (da una parte e dall’altra) e La fiera delle vanità (non si spiegherebbe la trasformazione di Boris Johnson da europeista convinto a leader della Brexit). In quanto a Conan Doyle, avrebbe potuto affidare a Sherlock Holmes un’indagine affascinante: cos’è venuto in mente a David Cameron di indire un referendum su un tema tanto complesso e così facile da strumentalizzare?
La campagna prima del voto è stata perfida e, quel che è peggio, superficiale. I paladini del Leave hanno puntato sulla paura dell’immigrazione, senza considerare i fatti. La Gran Bretagna vive — letteralmente — sugli immigrati: dai medici agli infermieri, dai camerieri ai calciatori, dagli autisti ai dentisti. Anche i sostenitori del Remain hanno provato a spaventare i cittadini. Non hanno detto che l’Unione Europea fosse meglio; hanno ripetuto, allo sfinimento, che uscirne era peggio. Solo l’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox ha scosso le coscienze. Ma non ha cambiato il risultato.
Il Reform Club non si schiera e non rappresenta un campione statistico; ma l’impressione è che, tra i soci inglesi, sette su dieci abbiano votato per restare nell’Unione. I Brexiteers, però, si sono fatti sentire. I nomi non sono consentiti: ma uno di loro, con un incarico di partito, ha provocato un certo sconquasso quando cercato di coinvolgere il club nella sua crociata pro-Leave.
Una posizione che sembra poco congeniale allo spirito di questo posto. Il Reform Club prende infatti il nome dal Reform Act del 1832, che modificava il sistema elettorale e allargava il diritto di voto alla borghesia. E’ stato, nel corso del XIX secolo, il club liberale di Londra, «noto per lo spirito radicale e progressista». E’ rimasto tale nel XX secolo. E’ stato il primo ad ammettere le donne come soci, nel 1981; a concentrarsi sulla qualità della cucina; e a fornire stanze da letto per i soci venuti da lontano (ora ne ha 48, di cui 26 con bagno). Ancora oggi, al momento dell’adesione, i membri devono sottoscrivere un’adesione ai principi liberali. Quando firmò anche un consigliere dell’Ambasciata Sovietica, negli anni Ottanta, in molti si chiesero se fosse sincero.
Mentre la luce torna sugli Waterloo Gardens, i liberali e i progressisti insonni del Reform Club hanno qualcosa da festeggiare? Non sembra proprio. Il Regno Unito scappa, e non l’ha mai fatto. E’ uscito dal club sbattendo la porta: e non si fa.
La Repubblica
ESSERE O NON ESSERE UN'ISOLA
di Francesco Merlo
«Dai prati ai corgi della Regina, i britannici restano un’umanità speciale perché anfibia. E il voto sulla loro identità rilancia il Regno Unito come luogo della libertà»
BREXIT,
LA CATTIVA COSCIENZA DELL'EUROPA
Trasformata nel male assoluto, l’Europa acceca i suoi nemici, tanto che non riescono più a vedere gli enormi benefici che regala. Però è essa stessa accecata, non dalla stessa violenza ma dai propri limiti. Sempre più evidenti.
DA BRUXELLES A FRANCOFORTE
SCATTA IL PIANO DI EMERGENZA
di Ivo Caizzi
Bruxelles. L’Europa schiera le istituzioni comunitarie per affrontare le conseguenze della clamorosa vittoria di Brexit nel referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, che nelle proiezioni della rete tv Bbc è stata prevista a 52% contro 48% davanti al vantaggio di circa un milione di voti con 335 delle 382 aree scrutinate.
I presidenti del Consiglio dei governi, il polacco Donald Tusk (stabile) e il premier olandese Mark Rutte (di turno), insieme a quelli della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, e dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schulz, sono stati delegati a fornire da Bruxelles la prima reazione istituzionale «a caldo».
La loro riunione è programmata subito dopo l’annuncio ufficiale dell’esito del voto su Brexit, atteso stamattina. Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi resterà in contatto dalla sede a Francoforte, pronto a intervenire davanti a eccessive instabilità sui mercati finanziari con impatto sulla moneta unica e sui titoli di Stato della zona euro. L’immediato tracollo della sterlina sui mercati extraeuropei aperti nella notte fa temere manovre speculative di dimensioni imprevedibili.
Tra le capitali vengono invece discusse da giorni le possibili ricadute politiche, in vista del Consiglio dei capi di Stato e di governo di martedì e mercoledì prossimi. Questo summit Ue era in programma questa settimana. E’ stato spostato proprio per poter affrontare l’esito della consultazione nel Regno Unito. E per conoscere il risultato delle elezioni in Spagna di domenica prossima, dove una vittoria del movimento di estrema sinistra Podemos, che è molto critico sull’attuale gestione dell’Ue, può generare un devastante uno-due contro l’attuale gestione dell’apparato comunitario.
Una riunione straordinaria della Commissione europea è stata convocata per lunedì prossimo. Nel week end la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese Francois Hollande, il premier Matteo Renzi e gli altri leader europei dovrebbero intensificare le consultazioni per favorire il raggiungimento al summit di una posizione comune su come procedere in Europa, che si avvia a fronteggiare un trauma a rischio di estensione in altri Paesi membri. Giovedì scorso il premier belga Charles Michel aveva già chiesto un ulteriore vertice dei capi di governo, indipendentemente dall’esito del referendum su Brexit, per affrontare l’evidente sfiducia verso l’Unione europea dimostrata da ampie fasce di cittadini europei. Michel ha evocato il crescente euroscetticismo, che potrebbe con solidarsi, dopo i voti nel Regno Unito e in Spagna, se non verranno attuate azioni di riavvicinamento ai cittadini. «La leadership europea deve farsi carico dell’inclusione sociale e battersi contro le disuguaglianze», ha suggerito il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Nei Palazzi comunitari circolano indiscrezioni su possibili ricambi al vertice come segnale di rinnovamento. Il controverso Juncker, simbolo della «vecchia Europa» sotto accusa, si è affrettato a far smentire le voci su un suo dimissionamento.
Lavoce.info
REGNO DISUNITO
di Gianni De Fraja
Il voto pro Brexit ci consegna un Regno Unito molto diviso. È probabile che la Scozia torni a chiedere l’indipendenza. Anche le linee di reddito segnano una divisione: le aree ricche hanno scelto “remain”, quelle meno benestanti hanno optato per il “leave”. E si apre una questione generazionale.
Il giorno dopo
Difficile esprimere una reazione così vicino all’annuncio del risultato che vede l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, avvenuto verso le 8 italiane a Manchester. L’esito del voto, in realtà, era chiaro dalla sera del 23 giugno. Lo preannunciavano, verso l’1 italiana, i risultati ufficiali di due città del Nord-Est, Sunderland e Newcastle, che, pur votando entrambe secondo le previsioni, la prima per Brexit, la seconda per “remain”, lo hanno fatto con margini completamente al di là delle aspettative: Newcastle con il minimo scarto mentre a Sunderland a ogni voto per restare ne corrispondevano due pro-Brexit. Se lì va così, vuol dire che Brexit ha vinto. Entrambe le città sono tradizionalmente laburiste, quindi molti elettori che di solito votano fedelmente per il Labour hanno rifiutato di seguire le indicazioni unanimi della dirigenza del partito, e hanno votato Brexit. La tendenza è stata poi confermata a livello nazionale Quali conclusioni trarre dal voto? Sicuramente andranno fatte analisi più dettagliate e rigorose, ma queste le mie prime impressioni.
Voto diviso per nazioni
La Scozia è completamente diversa dall’Inghilterra e dal Galles, a loro volta diverse dall’Irlanda del Nord. In Scozia “remain” ha vinto in tutte le circoscrizioni, ottenendo complessivamente il 62 per cento dei voti. Per l’Irlanda del Nord, che ha votato in maggioranza “remain”, c’è una divisione geo-politica: nelle zone all’est, più protestanti-unioniste ha vinto Brexit, mentre vicino al confine con l’Eire, in aree più cattoliche e culturalmente vicine alla repubblica, gli elettori hanno scelto “remain”. Questa diversità porterà quasi sicuramente a un nuovo referendum per l’indipendenza in Scozia. Già se ne è accennato in fase di campagna elettorale, ma viste le cifre della differenza tra le due nazioni, sarà per Londra politicamente impossibile resistere a una nuova richiesta di voto.
Una questione di reddito
In Inghilterra e Galles, ed è un punto che non ho ancora sentito sottolineare, la mia impressione è che la divisione sia soprattutto lungo linee di reddito: aree ricche hanno scelto “remain”, invece quelle meno benestanti hanno optato per Brexit. Jeremy Corbyn, leader laburista, ha probabilmente ragione quando dice che molti elettori hanno voluto punire il governo per le loro difficoltà economiche e hanno semplicemente votato contro “la politica”. Alcune delle aree più ricche, dove alle elezioni politiche i Tory ottengono maggioranze schiaccianti, a nord e sud, a est e a ovest, a Londra e in zone davvero rurali, “remain” vince dove il reddito è alto: Tunbridge Wells, e Guilford, la “stockbroker belt”; la chic Kensington e Chelsea, che contiene Sloane Square; South Hams, nel profondo sud-ovest sulla Manica; Harrogate, nello Yorkshire, uno dei vertici del triangolo più ricco del paese, fino alle zone del Costwold, la zona dei ricchi villaggi pittoreschi da cartolina.
La divisione generazionale
Un’altra impressione, che dovrà però essere confermata da ulteriori sondaggi perché i dati elettorali disponibili oggi sono solo a livello di circoscrizione, è di una netta divisione generazionale: i giovani pro-Europa, i vecchi pro-Brexit. Questo ovviamente non depone bene per il futuro: non è chiaro se un giovane brillante e ambizioso vorrà restare permanentemente in Inghilterra, dove sembra prevalere una visione isolazionistica e nostalgica del mondo. Anche se politicamente inevitabili, le dimissioni di David Cameron, che passerà alla storia come uno dei peggiori premier di sempre, lasceranno la nazione con una spaventosa assenza di carisma a livello internazionale, guidata come sarà da figure quali Boris Johnson e Nigel Farage con all’opposizione Jeremy Corbyn: nessuno di loro può onestamente dire di rappresentare gli elementi più dinamici e innovativi della società e dell’economia inglese.