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Vezio De Lucia
Brevi note a proposito del paesaggio toscano
1 Marzo 2008
Toscana
Tra amore e rabbia, tra timore per il presente e speranza per un futuro diverso. Ragionando sulla Toscana senza dimenticare il resto del paese.

Dal volume in corso di stampa: Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, a cura di Rossano Pazzagli, Pisa, ETS (Collana “Le aree naturali protette”, diretta da Renzo Moschini)

Ho avuto occasione, negli ultimi mesi, di partecipare, e più di una volta, a iniziative critiche sulla gestione del paesaggio e dell’urbanistica in Toscana. Ho sottoscritto l’appello di Alberto Asor Rosa dell’ottobre 2007, quello titolato Salviamo l’Italia,che attribuisce la responsabilità della distruzione del territorio e del paesaggio soprattutto agli “orientamenti espressi dal ceto politico, anche quello di centro sinistra, il quale – in misura crescente anche nelle zone del paese considerate un tempo santuari dell’arte e della cultura, come la Toscana – ha imboccato a quanto pare senza sentire ragioni, la strada dell’investimento immobiliare speculativo e delle grandi opere a ogni costo”. Collaboro stabilmente al sito di Edoardo Salzanoeddyburg.it, che assume posizioni molto spesso di esplicito dissenso con la politica urbanistica toscana. Un esempio sono le critiche mosse al Pit - piano d’indirizzo territoriale. Che cosa si contesta al Pit? Soprattutto di aver messo in discussione la prevalenza delle scelte di tutela su quelle di trasformazione, prevalenza che è netta nella legge urbanistica regionale del 2005. Invece, secondo il Pit, ciò che la legge regionale definisce come lo statuto del territorio viene definito e adottato un’agenda. In sostanza, con un’astuzia semantica, vengono definiti, con la medesima portata di elementi statutari, sia beni non negoziabili, fondanti l’identità del territorio toscano, inteso come patrimonio ambientale, paesaggistico, e culturale, sia elementi di carattere funzionale (infrastrutture, servizi ed impianti di utilità pubblica).In altre parole, porti, aeroporti, grandi impianti tecnologici per il trattamento dei rifiuti, per la produzione o distribuzione di energia finiscono nello statuto allo stesso livello del paesaggio.

Qui m’interessa subito chiarire che mi permetto di essere critico con la Toscana, perché ammiro, apprezzo, amo la Toscana, la sua storia, il suo paesaggio. Continuo a citare la magnifica introduzione di Antonio Paolucci alla guida della Toscana del Touring, laddove ha scritto che il rispetto del territorio, in Toscana più avvertito che altrove, si “deve forse a quella cultura mezzadrile sagace e parsimoniosa che […] filtrata nel comune sentire di sindaci e di assessori, è diventata politica urbanistica”. Esistono ancora amministratori che rispondono alla descrizione di Paolucci, e ne ho avuto conoscenza diretta. E accanto a essi è obbligatorio ricordare quell’altra risorsa fondamentale del potere pubblico in Toscana che sono i responsabili tecnici dell’urbanistica di comuni e province, eccellenti e spesso coraggiosi interlocutori nell’attività di pianificazione che ho avuto la buona sorte di condurre in Toscana.

Spero che non si colga una contraddizione se da una parte ammiro la Toscana, mentre al tempo stesso sottoscrivo critiche e contestazioni. Non mi sembra che ci sia incoerenza perché purtroppo tendono a diffondersi errori, arbitrarie previsioni di crescita, ingiustificata attrazione per infrastrutture sovrabbondanti. Come si fa a non preoccuparsi e a non assumere toni talvolta anche non amichevoli? Penso che sia del tutto logico prendersela in primo luogo con chi si sente più vicino e che ci piacerebbe fosse sempre come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto.

Chi scrive queste righe è napoletano e non è difficile immaginare la sofferenza che prova in questa stagione. Dall’inizio del 2008, le montagne di rifiuti accumulate per strada a Napoli e in Campania hanno campeggiato per settimane sulle prime pagine dei giornali e sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo. E devo subito dire che non è un’emergenza, come si continua a ripetere: uno scandalo che continua da tre lustri non è un’emergenza. È un paradosso, un tragico paradosso, consistente nel fatto che, mentre le pubbliche istituzioni non riescono a smaltire la spazzatura prodotta dalle famiglie, non si è mai interrotto lo sversamento criminale – sopra e sotto i suoli di quella che fu la Campania felix – di immani quantità di materiali pericolosi e tossici provenienti in particolare dalle industrie del nord. In Gomorra, Roberto Saviano ha scritto che “nessun altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico maggiore di rifiuti, tossici e non tossici, sversati illegalmente. Grazie a questo business, il fatturato piovuto nelle tasche dei clan e dei loro mediatori ha raggiunto in quattro anni quarantaquattro miliardi di euro. Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29.8 per cento, paragonabile solo all’espansione del mercato della cocaina. Dalla fine degli anni ’90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti”. Negli osservatori più attenti si colgono tratti di degradazione antropologica. La città, la provincia, la regione continuano ad arretrare rispetto ad altre realtà nazionali e internazionali in qualunque indagine relativa a criminalità, evasione scolastica, evasione fiscale, disoccupazione, abusivismo edilizio, inquinamento, condizione femminile, immigrazione, eccetera. La corruzione è diffusa ovunque: il bar già simbolo del rinascimento napoletano non rilascia ricevuta fiscale. Tutto ciò è la conseguenza di una gravissima crisi morale, politica e istituzionale, sociale e ambientale. Che però è vissuta, e non solo a Napoli, come una fatalità ineluttabile. Il resto d’Italia guarda a Napoli con disincanto. Come altre volte negli ultimi anni, il commissario straordinario nominato dal governo ha sollecitato le altre regioni a farsi carico di una parte dei rifiuti della Campania, ma la risposta è stata deludente, Liguria, Veneto e Friuli hanno rifiutato. In Sardegna ci sono stati disordini contro il presidente Renato Soru. Il Veneto, per non perdere i turisti tedeschi, ha proposto una campagna pubblicitaria con la parola d’ordine: “Non siamo Napoli”. Sembra passato un secolo da Napoli siamo noi, il libro di Giorgio Bocca del 2006.

L’abisso che separa la Toscana dalla Campania non dovrebbe indurre a stemperare le critiche, a essere indulgenti, condiscendenti con la Toscana? In tanti, nelle ultime settimane mi hanno fatto riflettere sul punto. Che senso ha la richiesta di più rigore in Toscana, mentre a sud del Chiarone, e non solo in Campania, il territorio è a soqquadro, l’abusivismo continua imperterrito, la campagna non è più il mondo della natura e della produzione agricola ma il recipiente adatto a raccogliere di tutto? Ma penso che sarebbe sbagliato se facessimo così. Non otterremo certo, additando la Toscana a esempio virtuoso, un miglioramento della situazione meridionale, obiettivo di tempo lungo, irraggiungibile senza un profondo rinnovamento della politica e dei dispositivi di formazione delle classi dirigenti. Otterremo piuttosto il risultato contrario, e cioè un rallentamento della tensione che invece, secondo me, deve continuare a esercitarsi a favore della qualità ambientale e paesaggistica della Toscana.

Soprattutto a me sembra che possa e debba essere importante l’assunzione diretta da parte della Toscana di una responsabilità nazionale riguardo alle questioni di cui stiamo trattando. Che intendo per responsabilità nazionale della Toscana? Mi riferisco, per esempio, al dibattito in corso sull’ultima stesura del Codice del paesaggio, quella curata dalla commissione ministeriale coordinata da Salvatore Settis. Rispetto ai testi precedenti, molto convincente è, tra l’altro, la nuova definizione di paesaggio[1], dove si assume come indiscutibile ed esclusivo il ruolo dello Stato. Merita di essere sottolineata la differenza con l’impostazione della cosiddetta Convenzione europea del paesaggio, secondo la quale il paesaggio è, invece, “una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio “costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” e “può contribuire alla creazione di posti di lavoro”.

Altrettanto importante è la nuova norma del Codice[2], che ripristina l’impegno diretto delle strutture centrali del ministero nella predisposizione di indirizzi per la formazione dei piani paesaggistici.

Sul testo cosiddetto Settis l’opposizione della Regione Toscana è stata netta, irriducibile. Il presidente Claudio Martini ha dichiarato che si sta facendo “un micidiale passo indietro che ci condanna all’arretratezza”. L’assessore Riccardo Conti ha lanciato un durissimo messaggio nei confronti dei propri referenti politici nazionali affinché intervengano contro la visione “centralistica” propugnata dal Codice, a meno che non vogliano rischiare un “impoverimento politico e culturale” che una regione “dotata di autonomia” come la Toscana potrebbe essere tentata di attivare. Per me è difficile intendere le ragioni di tanta ostinazione. Qual è l’autonomia regionale che la Toscana sente minacciata? Quale danno potrebbe derivare dalla individuazione statale di “quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale”? Niente cambierebbe, nella sostanza, per la Toscana e le altre regioni che da anni operano nell’attività di conoscenza, di tutela e di valorizzazione delle proprie risorse paesaggistiche. Un grave danno sarebbe, al contrario, se dal Codice fossero depennate le norme ricordate sopra. Continuerebbe la latitanza delle regioni, chiamiamole apatiche (quelle meridionali soprattutto), che solo i binari fissati dallo Stato potrebbero indurre a un impegno attivo nella tutela. È qui, secondo me, che dovrebbe rivelarsi la responsabilità nazionale della Toscana alla quale prima ho fatto cenno e che invece è negata da un esasperato, irragionevole egoismo regionalista.

Concludo queste brevi, sommarie e disordinate riflessioni sul paesaggio toscano riportando in sintesi due osservazioni di Paolo Baldeschi che condivido del tutto e che spero aiutino a intendere anche il mio punto di vista. In primo luogo, secondo Baldeschi, ciò che nel Pit sembra più apprezzabile sono “le scorie di una vecchia cultura urbanistica che ancora galleggiano come relitti nel corso di un nuovo indirizzo”. La seconda osservazione che mi pare meritevole di essere ripresa riguarda il peso dei tanti comitati che in Toscana si aggregano in difesa di interessi comuni. Può darsi – osserva Baldeschi – che vi sia una componente elitaria nelle associazioni ambientaliste di livello nazionale. Ma certamente i comitati non sono fatti da signori in villa (come sostiene una polemica volgare), ma da gente normalissima, da impiegati, operai, persone che sacrificano il loro tempo libero non per difendere un interesse particolare o il cortile di casa, ma un territorio che amano e rispetto al quale provano un senso di appartenenza. Se i nostri politici avessero occhi per vedere e orecchi per sentire riconoscerebbero una riattualizzazione della vecchia base del partito comunista, quella base che, finito il lavoro, si ritrovava nelle sezioni convinta di lavorare per il bene comune.

Questa gente, queste popolazioni dentro o fuori i comitati, sono sostanzialmente impotenti. Di fronte hanno un blocco sociale e politico (spesso capeggiato dalla Regione) che si presenta come una corazzata di fronte a fragili barchette. La loro unica risorsa, oltre alla conoscenza del territorio è il rispetto della legalità. Mai come in questo caso la legalità è il potere dei senza potere.

[1] Qui di seguito i primi tre commi dell’art. 131 del Codice: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali. 3. Le norme di tutela del paesaggio, la cui definizione spetta in via esclusiva allo Stato, costituiscono un limite all’esercizio delle funzioni regionali in materia di governo e fruizione del territorio”.

[2] Qui di seguito il 3° comma dell’art. 145 del Codice: “3. Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette.

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