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Giovanni Iuffrida
Bisogna rifondare prima l'uomo o l'urbanistica? Contributi al dibattito
29 Agosto 2018
2018 Dibattito Urbanistica
29 agosto 2018. Una nuova urbanistica richiede una cultura che riconosca il primato dell'interesse collettivo nelle scelte di trasformazione del territorio. E' in grado l'attuale Università di prepare gli autori di tale urbanistica?


29 agosto 2018. Una nuova urbanistica richiede una cultura che riconosca il primato dell'interesse collettivo nelle scelte di trasformazione del territorio. E' in grado l'attuale Università di prepare gli autori di tale urbanistica? Qui i riferimenti al dibattito.

Nel bene e nel male è l'economia che determina tempi, modalità e qualità delle trasformazioni del territorio e della città: lo si ripete da sempre, come un refrain consolidato dalla storia.

È da questo dato che bisogna partire per tentare di riprendere le fila di un discorso interrotto bruscamente a partire dagli anni Ottanta, quando ha avuto una forte accelerazione – da una data simbolica, ovvero dall'entrata in vigore della legge 94/'82 – l'intreccio tra la deregulation e la spinta della corruzione che ha pervaso, soprattutto in campo urbanistico, ogni ordine e grado di amministrazione pubblica. Comprendere la forza e le ragioni dell'economia, nonché l'ingiustificabile debolezza delle amministrazioni locali nel governo del territorio e (nella migliore delle ipotesi) l'incapacità di guidare i processi, è dunque fondamentale.

Continuare – solo per scaricare le responsabilità in maniera esclusiva – a fare finta che il male vada individuato soltanto nell'economia, sarebbe comunque fuorviante e, di conseguenza, causa di gravi errori di valutazione. L'economia non è di per sé il male assoluto, ma andrebbe guidata, con la forza necessaria, verso la ricostruzione della credibilità della disciplina urbanistica e, quindi, della “inderogabile” qualità della città pubblica in cui l'iniziativa privata possa trovare una giusta collocazione ed un efficace equilibrio con gli interessi della collettività. Nella consapevolezza che non esiste un'urbanistica demiurgica per sempre, così come uno strumento “regolatore” eternamente valido. Del resto, la città, destinataria delle “applicazioni” urbanistiche, va continuamente “ricostruita”, riadattata, rimodulata, rinnovata, tenendo conto delle evoluzioni in atto (tecnologiche, culturali e, più in generale, comportamentali). Si pensi, ad esempio, ai continui e necessari adeguamenti del contesto urbano e territoriale alle mutevoli esigenze della mobilità.

Nella mia quarantennale esperienza nella Pubblica amministrazione, in Calabria, rimangono ancora vive le ferite inferte alle coscienze da quei Piani regolatori (ancora di più da Regolamenti edilizi con annessi Programmi di fabbricazione) elaborati negli anni settanta-ottanta, per amministrazioni di sinistra da tecnici rigorosamente di sinistra, tutti connotati da ingiustificabili sovradimensionamenti e con le aree standard abbarbicate a dirupi o allocate su superfici impervie se non del tutto inutilizzabili, che gridano ancora vendetta e continuano ad offendere intelligenza e sensibilità. Queste esperienze hanno contribuito negativamente a formare l'opinione del comune cittadino, quanto la cultura della deroga consolidata dagli effluvi urbanistici degli anni novanta (Pru, Prusst, ecc.), minando la credibilità della stessa urbanistica, proposta, invece, in sede teorica come disciplina in grado di coniugare bene comune, qualità funzionale ed estetica. Poi, nell'ultimo decennio del secolo scorso – periodo di maggiore spinta verso la privatizzazione della città – le aree standard di piano vengono consegnate alle scelte dei privati grazie a prassi amministrative introdotte (ancora una volta) da amministrazioni di sinistra che hanno legittimato la “naturale” propensione del centrodestra a favorire (in forma pressoché esclusiva) l'iniziativa privata.

E che dire, poi, di quei successivi Piani strutturali che, in nome di una falsata sostenibilità, indicano enormi aree destinate a parchi pubblici per migliorare gli effetti cromatici degli elaborati (che funzionano come veri e propri specchietti per le allodole) e che di fatto tendono ad amplificare i costi di gestione e a nascondere (dietro le quinte di accattivanti cromatismi, complici i sofisticati software) devastanti e diffuse speculazioni che niente hanno a che vedere con i formali enunciati di “consumo zero” del suolo? In Calabria, l'elenco dei Piani strutturali comunali adottati (e fortunatamente ancora non approvati) evidenzia di fatto la rinuncia al governo del territorio della parte pubblica in nome della demagogia della partecipazione dal basso che informa i piani attraverso le cosiddette manifestazioni di interesse (rigorosamente ed esclusivamente di natura privatistica), molto distanti da quella “cosa” indefinita che si chiama bene comune. In realtà i Piani strutturali, in molti casi, sono la pratica dimostrazione della degenerazione dell'urbanistica, assurta a panacea di tutti i mali, a strumento taumaturgico attraverso le alchimie più incredibili: un male incurabile per la formazione di una coscienza civica.

Qualche anno fa, un sindaco di sinistra, alla domanda di un giornalista, ha risposto così: “il bene comune si manifesta quando il tuo interesse coincide con il mio”; ovviamente, non con l'interesse di tutti gli altri, dell'intera comunità. Su queste basi culturali, come si può costruire il senso civico, necessario presupposto per una partecipazione attiva e utile alla ricostruzione dell'urbanistica di cui tutti dovrebbero essere attori principali e non semplici comparse?

In questo contesto, costruire la credibilità dell'urbanistica rimane un compito difficile che mi pare debba essere affidato ad un uomo “nuovo”, a un urbanista “nuovo”, che agisca – con lo spirito di chi sta per compiere una grande missione – in nome e per conto della collettività di cui deve interpretare (e guidare) le aspirazioni trasfondendole in un disegno di qualità urbana. Ma c'è da chiedersi se le nuove generazioni vengano formate dalle Università italiane in questa direzione o se, invece, siamo rimasti soltanto pochi ultrasessantenni a subire ancora oggi il fascino nostalgico di quel fare urbanistica rivolto alla costruzione della città pubblica di Giovanni Astengo, Edoardo Detti, Edoardo Salzano, Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, e pochi altri, da cui abbiamo attinto i migliori insegnamenti?

In ogni caso una certezza fondamentale c'è: questo uomo nuovo, che si dovrebbe emozionare al cospetto del territorio con l'innocenza di un bambino ma con la consapevolezza dello storico, può sviluppare la propria incisività soltanto sul terreno delle grandi e imprescindibili riforme strutturali del Paese, a partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione, cioè dalla riorganizzazione della macchina amministrativa pubblica e dalla necessaria eliminazione delle confusionarie – per usare un eufemismo – quanto inutili e costose Regioni o, almeno, dall'urgente rivisitazione delle competenze in materia urbanistica.


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