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Judith Butler e Paola Rudan
Berlusconi, la doppia ingiustizia
3 Maggio 2014
Articoli del 2014
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«Ridurre la misura alter­na­tiva dell’affidamento in prova a una atti­vità volon­ta­ria (sic!) «di ani­ma­zione» è a dir poco offen­sivo, oltre che per i desti­na­tari dell’animazione per la col­let­ti­vità vit­tima dell’evasione milio­na­ria, per chi crede nella lega­lità, la pra­tica e la inse­gna ai pro­pri figli o ai pro­pri stu­denti, per chi è dimen­ti­cato in car­cere in ese­cu­zione di con­danne per fatti assai più mode­sti».

Il manifesto, 3 maggio 2014

Sil­vio Ber­lu­sconi non è certo il primo uomo poli­tico del Bel­paese ad essere stato con­dan­nato per gravi reati e nep­pure il primo a scon­tare la pena nella forma dell’affidamento in prova ai ser­vizi sociali. Ricordo a memo­ria: Mario Tanassi, Pie­tro Longo, Franco Nico­lazzi, Arnaldo For­lani, Fran­ce­sco De Lorenzo, Cesare Pre­viti e via elencando.

Ci fu addi­rit­tura un periodo – a cavallo del nuovo mil­len­nio – in cui i Tri­bu­nali di sor­ve­glianza di Milano e Torino e la Corte di cas­sa­zione arri­va­rono a ridi­se­gnare i con­te­nuti e i limiti della misura dell’affidamento in prova per i «col­letti bian­chi»,riscri­vendo un isti­tuto ori­gi­na­ria­mente pen­sato per tutt’altra cate­go­ria di con­dan­nati. E, sul punto, decine furono i com­menti e le pre­ci­sa­zioni sulle rivi­ste giu­ri­di­che. Ma mai era acca­duto che l’esecuzione di una pena si tra­sfor­masse in un assistper il rilan­cio poli­tico del con­dan­nato e in una dimo­stra­zione sco­la­stica del ripri­stino di una giu­sti­zia tanto forte (e talora spie­tata) con i deboli quanto debole con i forti.

Inten­dia­moci. Non amo il car­cere per nes­suno. Di più, trovo civile che le pene medio-brevi (e i resi­dui di pena di tale entità) siano scon­tate con moda­lità diverse dal car­cere. Per tutti. E, a mag­gior ragione, per chi è segnato dagli anni. Dun­que non auspi­cavo e non auspico il car­cere nep­pure per l’ex cava­liere di Arcore. E ciò, pur non dimen­ti­cando che, nel caso spe­ci­fico, la con­danna da scon­tare riguarda non un fatto con­tin­gente e limi­tato ma una eva­sione fiscale di ben 13,9 milioni di euro (6,6 nel 2001, 4,9 nel 2002, 2,4 nel 2003) pro­gram­mata ed orga­niz­zata negli anni, effet­tuata coin­vol­gendo quasi tutti i più stretti col­la­bo­ra­tori. Poco meno di 14 milioni di euro pari al danno pro­vo­cato alle parti offese dall’insieme di quasi tutti gli attuali dete­nuti per furto nelle pri­gioni italiane.

Nono­stante que­sto non auspi­cavo il car­cere. Ma ridurre la misura alter­na­tiva dell’affidamento in prova a una atti­vità volon­ta­ria (sic!) «di ani­ma­zione» (come scritto nell’ordinanza di con­ces­sione) di quat­tro ore set­ti­ma­nali in favore degli ospiti di un isti­tuto per anziani è a dir poco offen­sivo, oltre che per i desti­na­tari dell’animazione sot­to­po­sti (essi sì) a una prova di pesan­tezza inau­dita, per la col­let­ti­vità vit­tima dell’evasione milio­na­ria, per chi crede nella lega­lità, la pra­tica e la inse­gna ai pro­pri figli o ai pro­pri stu­denti, per chi è dimen­ti­cato in car­cere in ese­cu­zione di con­danne per fatti assai più mode­sti. Ed è anche lon­tano le mille miglia da una inter­pre­ta­zione razio­nale del sistema delle pene e delle misure alter­na­tive. Non si trat­tava di chie­dere al con­dan­nato eccel­lente ammis­sioni espli­cite di respon­sa­bi­lità né dichia­ra­zioni di pen­ti­mento o pub­bli­che scuse.

Più sem­pli­ce­mente si trat­tava di tra­durre in pre­scri­zioni con­crete e coe­renti l’affermazione – riba­dita in sen­tenze del 1987, 1988 e 1998 della Corte costi­tu­zio­nale e della Corte di cas­sa­zione – che le misure alter­na­tive alla deten­zione (e, tra esse, l’affidamento in prova) «hanno la natura di vere e pro­prie san­zioni penali» e richie­dono, dun­que, pre­scri­zioni carat­te­riz­zate da un signi­fi­ca­tivo tasso di afflit­ti­vità tale da costi­tuire con­tro­spinta a ulte­riori con­dotte delit­tuose (unico inter­vento rie­du­ca­tivopos­si­bile nei con­fronti di per­sone nor­moin­se­rite nella società). Né sarebbe stato dif­fi­cile indi­vi­duarle, quelle pre­scri­zioni: basti pen­sare a pre­sta­zioni quo­ti­diane e a titolo gra­tuito dirette a con­tri­buire, con un lavoro negli uffici com­pe­tenti, al recu­pero di impo­ste evase, di spese di giu­sti­zia o quant’altro. Nulla, invece, di tutto que­sto né altre signi­fi­ca­tive pre­scri­zioni (al di fuori di quelle di rou­tine) sino al punto di con­sen­tire al con­dan­nato eccel­lente movi­menti ed ester­na­zioni ini­biti a tutti gli altri affi­dati in prova, costretti a chie­dere l’autorizzazione finan­che per recarsi a una visita medica fuori dal comune di resi­denza e talora addi­rit­tura a seguire iti­ne­rari pre­sta­bi­liti per recarsi al lavoro.

In tutta la mia (lunga) atti­vità giu­di­zia­ria non avevo mai visto una cosa del genere. È evi­dente – anche da molti altri segnali – che si sta chiu­dendo, per la giu­sti­zia, una sta­gione. E si chiude nel peg­giore dei modi, all’insegna del ripri­stino di due codici diversi: uno per i bri­ganti e uno per i galan­tuo­mini (o impro­pria­mente rite­nuti tali).

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