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Ida Luigi; Dominijanni Cavallaro
Berlusconi, il «Grande Altro» e il Sessantotto
2 Marzo 2010
Scritti 2010
remesso che bisogna guardare a Berlusconi “più come sintomo che come attore” di una società distorta, questa è colpa anche del Sessantotto? Il manifesto, 2 marzo 2010

«C'era una volta la Repubblica, la Costituzione, lo Stato: era l'epoca della politica moderna. Poi venne il Cavaliere postmoderno e cominciò l'opera di smontaggio»: così ha scritto Ida Dominijanni («Il Medioevo prossimo venturo») sul manifesto del 26 febbraio scorso. C'è molto di vero, ma manca l'essenziale. Facendo carico a Berlusconi dello smontaggio dell'immaginario e del linguaggio istituzionale del moderno si rischia infatti di scambiare l'effetto con la causa: esattamente come la storiografia ispirata dal «culto della personalità» ha finito per imputare alla malvagità di un despota le convulsioni dell'Urss all'epoca della collettivizzazione e del Grande Terrore.

Qualche mese fa, commentando il film di Erik Gandini «Videocracy», perfino Enrico Franceschini si accorse che il film raccontava di un sovvertimento trentennale nella gerarchia dei valori.. «La società in cui viviamo - diceva - ha sposato totalmente i principi del libero mercato e predica competizione a tutti i costi. Ma non è una competizione in cui vince il migliore. Vince il più spregiudicato. E questo non è soltanto un disastro morale e culturale. È un danno economico», perché «viene trasmessa l'idea che studiare e sacrificarsi sia inutile. Anziché puntare su studio e lavoro, molti cercano la scorciatoia di un mondo dello spettacolo dove non vale più la regola del talento ma quella della spregiudicatezza. Oppure si affidano alle reti di protezione sindacali, familiari, politiche».

Ora, è certo difficile sottrarsi all'idea che il «grande Altro» di questo mondo si sia «soggettivato» in Silvio Berlusconi, come Franceschini avrebbe aggiunto se solo conoscesse Jacques Lacan. Ma il punto è proprio questo: esattamente come gli oppositori di Stalin, gli oppositori di Berlusconi condividono le premesse del suo discorso. Condividono, cioè, che non la politica ma il mercato debba provvedere all'allocazione delle risorse. Che l'individuo debba essere lasciato libero di «partire da sé» e da sé fabbricarsi la propria strada, in una libera competizione con gli altri. Che la costrizione delle regole possa arrecar danno alle potenzialità espressive di una soggettività che si vuole libera «per natura». Che rispetto alla crisi lo Stato non sia la soluzione ma - come disse Reagan - il problema.

Si tratta di un ordine simbolico che può essere racchiuso nella più celebre delle parole d'ordine che trionfarono nella rivoluzione mondiale del '68: «Vietato vietare!». E di cui Berlusconi mostra l'unica possibilità d'inveramento in un'economia periferica quanto alla struttura produttiva, in cui le tanto glorificate «piccole imprese» possono campare solo grazie all'evasione fiscale e contributiva. In cui i lavoratori, divisi fra precari e garantiti, cercano di spuntare salario con tutti i mezzi possibili. E in cui le rendite prosperano grazie alla speculazione edilizia e finanziaria, mentre lo Stato ha cessato ogni velleità di pianificazione o programmazione per farsi distributore di sussidi e prebende.

Esagero? Ma via, chi mai oggi all'opposizione vorrebbe proporre il ritorno dello Stato nell'economia e nella società? Siamo sinceri: a offuscare le velleità normative e pianificatrici dello Stato i movimenti degli anni '70 hanno concorso non meno di Friedman e Hayek. Berlusconi si limita a trarre le logiche conseguenze da premesse che costituiscono un patrimonio comune a tutta la generazione del baby boom e ad applicarle in una società in cui abbiamo la metà dei laureati rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna, in cui metà della popolazione non legge nemmeno un libro all'anno e perfino i lettori di un «quotidiano comunista» si adombrano se non gli parli facile facile o se un articolo è troppo lungo (come questo). E per questo gli oppositori di Berlusconi sono di fatto impotenti: esattamente come gli avversari di Stalin, essi sono presi in trappola da un «odio» che non è riuscito a spegnere l'«amore» per l'ordine del discorso del «grande Altro» che in lui s'impersonifica, ma l'ha solo respinto nell'inconscio, dove di fatto continua a vivere e ad accrescersi.

Si capisce allora che la riesumazione «del vocabolario della Morale alla testa del Bene contro il Male e dell'Amore contro l'Odio», che Dominijanni giustamente individua come un portato non secondario dello smontaggio della modernità, non è affatto casuale: quel vocabolario è anzi l'unico che possa realmente raccontare i termini dell'impasse odierna, perché attinge alle pulsioni più profonde della nostra società - quelle stricto sensu «indicibili». E si capisce come mai il «pensiero» di organizzare un'opposizione capace di scalzare il Cavaliere ha finito per tener luogo di un'azione politicamente idonea allo scopo: la verità è che nessun'altra azione è possibile sulla scorta di quelle premesse. Chi ne dubitasse, può andarsi a rileggere il comma 1198 dell'art. 1 della finanziaria Prodi del 2006, poco dopo il rogo della Thyssen: non solo previde un condono per le imprese scoperte a evadere i contributi, ma promise a quelle che aderivano che per 6 mesi non avrebbero avuto visite dagli ispettori per la sicurezza del lavoro.

Ma si capisce pure perché nell'immaginario berlusconiano i magistrati siano indefettibilmente «comunisti». Il comunismo novecentesco non è scindibile dallo Stato, e Stato significa «piano», «norma», «divieto», «vincolo»: cose che appunto fanno a pugni con un immaginario che ormai traduce correntemente «vietato vietare» nel francese «laissez faire». E i magistrati, custodi di una legalità che tutti ormai avvertono come inadeguata rispetto alle pretese liberalizzatici dell'economia e della società da «lacci e lacciuoli», non possono che apparire come gli alfieri di un ordine vecchio e condannato dalla Storia. Un ordine ormai ipocrita, visto che vale solo per quei pochi sfortunati che non riescono a farla franca, ma di cui ancora si percepisce viva la minaccia: non si spiega altrimenti il consenso popolare verso tutte le iniziative legislative che si propongono di ostacolare o impedire la celebrazione dei processi. Chi le chiama «leggi ad personam» non capisce che non è il popolo ad essere ottenebrato dal Principe, ma questi a rispecchiare nel profondo le più intime pulsioni della sua gente.

Questa, piaccia o meno, è la situazione. Pensare di eluderla immaginando che la società civile sia migliore della società politica non porta a nulla. Nemmeno a vendere una copia in più di questo pessimo ma amatissimo giornale.

Ida Dominijanni

Ringrazio Luigi Cavallaro della sua attenzione e gli replico volentieri, perché il suo intervento esplicita un'idea che circola, spesso in modo meno esplicito, a destra e a sinistra, e sulla quale vale la pena a mio avviso di tentare di fare chiarezza. L'idea è questa, che la concezione individual-liberista della libertà berlusconiana affondi le sue radici nella rivoluzione libertaria del Sessantotto e seguenti, e che dunque la rivoluzione libertaria del Sessantotto bebba farsi - colpevolmente - carico di questo suo nefasto esito, con - immagino - conseguente abiura. Cavallaro stabilisce questo nesso sul terreno della concezione del mercato e dello Stato, altri l'hanno fatto nei mesi scorsi sul terreno della sessualità: da opposte sponde - «Il Foglio» e «Gli Altri», tanto per non fare nomi - c'è chi ha interpretato il «libertinismo» sessuale di Berlusconi come l'inveramento - uso lo stesso termine di Cavallaro - della libertà sessuale predicata e praticata da sessantottini e femministe (i baby boomers di Cavallaro). E se è così, perché e da quale pulpito contestarlo? Chi di libertà ferisce, di libertà perisce.

A me pare un ragionamento sbagliato, sul piano concettuale e sul piano storico. Sul piano concettuale, perché si sa che la libertà è uno dei termini del lessico politico che più si piega a significati diversi e perfino opposti, e infatti, sul piano storico, la libertà e il «vietato vietare» del '68 non possono essere messi in continuità con il liberismo economico, la libera competizione e il laissez-faire berlusconiani: là c'era libertà politica, individualità in relazione con la dimensione collettiva, lotta contro la repressione, liberazione del desiderio, critica della merce e ricerca del comune; qua c'è libertà di mercato e di consumo, individualismo competitivo, affrancamento dalla legge dei forti e uso della legge contro i deboli, mercificazione del desiderio, religione della proprietà. Si tratta dunque non di inveramento, ma di rovesciamento del Sessantotto. Naturalmente, e in questo sono d'accordo con Cavallaro, su un terreno disegnato anche dal Sessantotto: il che però dovrebbe indurre non ad attribuire a quella stagione gli esiti di questa, ma viceversa a ragionare su quali possano essere i rovesciamenti reazionari cui possono andare incontro le rivoluzioni lasciate senza risposta e senza sbocco. Fra le cose lasciate senza risposta io ci metto, a differenza di Cavallaro, anche un'idea di comunismo senza stato, e forse perfino un'idea di stato (sociale) non riducibile solo a funzioni repressive, normative o di veto.

Per il resto, concordo del tutto con Cavallaro sulla necessità di non scambiare l'effetto per la causa, o, per dirlo in altri termini, di leggere Berlusconi più come sintomo che come attore di un ordine simbolico che lo travalica e che impronta largamente anche il discorso, le azioni (o non-azioni) e l'inconscio dei suoi oppositori, nonché della società che lui rispecchia e che in lui si rispecchia. Con l'avvertenza però che in questo ordine simbolico precipitano processi storici complessi, che il discorso lacaniano sul «Grande Altro» talvolta illumina, talvolta semplifica. Fra i quali, detto per inciso, il tramonto dell'autorità paterna e del patriarcato, che sulle vicende della legge e del «vietato vietare» spiega forse più del tramonto dello stato sovietico. Ci sarà certo modo di riparlarne.

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