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Salvatore Settis
Beni culturali, ultimo scempio
10 Giugno 2006
Beni culturali
Dov’è la destra? Quella di Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Giovanni Malagodi, Valerio Zanone, e tanti altri galantuomini, che avevano consapevolezza dell’Italia? Questo accorato articolo-appello è da la Repubblica dell’8 marzo 2005.(Ma ricordiamo anche che “il meccanismo della DIA" è stato introdotto e generalizzato dal centrosinistra)

Si potrà evitare lo scempio annunciato dei beni culturali autorizzato dalle norme in arrivo sulla "semplificazione amministrativa"? Dopo il Consiglio dei ministri di venerdì e le confuse dichiarazioni di membri del governo, nessuno sa ancora se queste norme si applicheranno o no ai beni culturali. Già sono escluse dall’ambito di applicazione altre materie (difesa, pubblica sicurezza, giustizia, salute): aggiungere alla lista i beni culturali è una soluzione ragionevole.

TANTO CHE - dopo l’allarme dell’opinione pubblica in seguito alla denuncia di questo giornale e di associazioni come il Fai e Italia Nostra - a proporla è stato lo stesso ministero dell’Economia. Fare il contrario vorrebbe dire, lo abbiamo ampiamente argomentato in queste pagine, la licenza di uccidere città, monumenti e paesaggi: a questo esito porterebbe infatti l’indiscriminata applicazione della "dichiarazione di inizio attività" (dia) ai beni culturali, con un meccanismo di silenzio-assenso che vanifica ogni azione di tutela. Palazzi storici potrebbero essere sventrati o abbattuti impunemente, collezioni e opere d’arte vendute senza alcun controllo. L’intero sistema della tutela ne uscirebbe devastato. Le soprintendenze, che annaspano in una perpetua mancanza di personale per l’annosa mancanza di assunzioni, non potrebbero neppur sognare di star dietro alla valanga di "dia" che si apprestano a invaderle.

Il presidente del Consiglio e il ministro della Funzione pubblica hanno dichiarato che i beni culturali saranno, appunto, esclusi dal provvedimento. Ma la situazione è tutt’altro che chiara: se due ministeri importantissimi per un tema come questo (Economia e Beni Culturali) hanno chiaramente optato per questa soluzione, non altrettanto chiara è la posizione della Funzione pubblica. Mentre il ministro Baccini si associa al presidente del Consiglio nel gettare acqua sul fuoco, il capo del suo ufficio legislativo, Vincenzo Nunziata, sembra deciso a insistere: a quel che pare, almeno per lui il meccanismo della "dia" deve prevalere sulla tutela. Ma con ciò non solo il Codice dei beni culturali, ma lo stesso art. 9 della Costituzione diventerebbe carta straccia. Per giunta, il provvedimento contiene anche una "semplificazione amministrativa" che comporterebbe la fine di ogni controllo doganale sui beni culturali, con ciò generando indiscriminate e massicce esportazioni; e perfino una norma sulla "accelerazione di opere strategiche" che in nome del pubblico interesse darebbe a un commissario straordinario il potere di prendere decisioni (per esempio, costruire un’autostrada su un sito archeologico) senza nemmeno consultare le soprintendenze.

Sabino Cassese ha scritto sul Corriere della Sera del 5 marzo che, «se dovessimo prendere sul serio» una legge come questa «lo Stato avrebbe chiuso i suoi battenti». In questa generale débacle, è facile prevedere che il primo ad essere smantellato sarebbe quel glorioso pezzo di Stato che è il sistema della tutela, in cui l’Italia è stata ed è di modello al mondo intero. Ma con esso crollerebbero il nostro paesaggio e il nostro patrimonio culturale, che sono la nostra storia e la nostra identità, ma anche il vero fattore di unicità dell’Italia, l’inimitabile "marchio di fabbrica" che attrae e incanta da secoli visitatori di tutto il mondo. Roma, Firenze, Napoli diventerebbero come la Maurilia delle Città invisibili di Italo Calvino: «Il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe cartoline che la rappresentano com’era prima (...) Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia divenuta metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia esser goduta adesso solo nelle vecchie cartoline (...) Essa ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Ma in realtà «le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città, che per caso si chiamava Maurilia come questa».

Riconosceremo, fra dieci anni, le nostre città? La nostra Italia? O dovremo guardarla con nostalgia in vecchie cartoline? Dipende solo da noi. Ma se questo invito alla barbarie travestito da "semplificazione amministrativa" dovesse passare calpestando la Costituzione, allora sarà meglio cominciare a far collezione di cartoline. Travolte, col favore di un’alluvione di "dia", da un’immensa colata di cemento, fra pochi anni le città invisibili non saranno l’invenzione narrativa di uno scrittore. Saranno le stesse città in cui oggi viviamo. O meglio ne porteranno il nome; ma ci appariranno irriconoscibili ed estranee.

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