È concreto e attuale il pericolo, assai più di quel che finora sia stato avvertito e denunciato, di un grave abbassamento - anche dal punto di vista delle garanzie contenute nelle disposizioni legislative - del livello di tutela del patrimonio storico e culturale del nostro paese. È un pericolo che discende non da intenzioni o propositi soltanto ventilati: ma dalle radicali modifiche previste dalla Commissione che ha predisposto lo schema del nuovo codice dei beni culturali, schema che il governo sarebbe ora intenzionato a varare, nella forma di un decreto delegato, già entro la fine del corrente mese di luglio. La modifica fondamentale proposta riguarda proprio la nozione del patrimonio culturale che deve essere sottoposto a tutela. Sia nella ben nota legge del 1939 (la 1089, che si basava su una tradizione che in molti casi risaliva ai vecchi Stati preunitari), sia nel Testo Unico del 29 ottobre 1999 che ha recepito quella legislazione, il patrimonio da tutelare veniva infatti identificato - era questa la norma di base - con l’insieme delle «cose immobili o mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico» (oppure demoetnoantropologico nella formulazione più aggiornata del Testo Unico); seguiva poi l’indicazione di altre categorie «speciali» di beni di interesse culturale. Lo schema del nuovo codice riprende la definizione di partenza della 1089 e del Testo Unico: ma introduce una drastica limitazione precisando che deve trattarsi di cose che presentino un interesse artistico, storico, archeologico o demoetnoantropologico «di particolare importanza». Il vincolo dell’interesse «particolarmente importante», che nella legislazione finora vigente è richiesto solo per determinate categorie di beni (le cose immobili o mobili di proprietà dei privati da sottoporre a vincolo; i monumenti che in sé non hanno uno specifico valore artistico, ma sono legati a eventi storici o culturali di grande rilievo; i libri, le stampe, gli spartiti musicali, le fotografie considerate di rarità e pregio) diventerebbe così un requisito necessario per individuare, in ogni caso, un bene culturale.
Non c’è bisogno di particolare competenza in campo legislativo per capire che in questo modo verrebbe stravolto (e radicalmente ridimensionato) l’attuale sistema di tutela. Fino a oggi per patrimonio culturale da tutelare si è sempre inteso, nella legislazione e nella concreta esperienza applicativa, quel complesso tessuto storico, artistico, ambientale che è ramificato e stratificato nel territorio e che costituisce, nella sua varietà e articolazione, la straordinaria ricchezza di cui l’Italia dispone. Se invece la condizione dell’interesse «particolarmente importante » diventasse, come la Commissione ha proposto, la chiave di volta del nuovo codice, tutto questo si stima cadrebbe; e i beni da tutelare diventerebbero, in sostanza, solo quelli dichiarati di valore storico e artistico particolarmente importante, lasciando senza tutela quelli considerati minori e soprattutto separando le opere importanti dal loro contesto. Sarebbe, in sostanza, una modifica che andrebbe esattamente in senso contrario rispetto alla richiesta - sostenuta da decenni dal mondo scientifico e ambientalista - di dare una maggiore efficacia alla tutela attraverso una più ampia considerazione dei rapporti ambientali sia urbanistici che paesistici e tutelando non solo la singola opera ma la realtà in cui è inserita. Non occorre sottolineare il carattere devastante di questa rottura del sistema della tutela. L’esperienza che ha consentito al nostro paese, nonostante guasti e trascuratezze, di conservare una parte rilevante del patrimonio trasmessoci dalla storia passata, sarebbe irrimediabilemnte compromessa. Ed è facile immaginare quali sarebbero le conseguenze in tutti i campi, compreso quello delle alienazioni.
È evidente, infatti, che se passasse una riforma così configurata, per vendere o dare in concessione a privati beni di interesse culturale non ci sarebbe neppure bisogno di ricorrere a leggi speciali come quelle sul Patrimonio Spa o a strumenti come le famose Scip ossia le società di cartolarizzazione degli immobili pubblici. Molto più semplicemente tutti i beni che fossero considerati di interesse non particolarmente importante sarebbero disponibili per essere posti in vendita dalle Amministrazioni che ne hanno la proprietà, nelle forme che esse vorranno. Tutto questo va contro - pare a me evidente - un interesse fondamentale del nostro paese, non a caso sancito in uno dei princìpi preliminari della Costituzione. Ci auguriamo, perciò, che lanciare l’allarme serva a produrre una reazione che sia pari all’importanza della posta in gioco. Una posta che riguarda le radici stesse della nostra identità nazionale e che rappresenta una fonte ineguagliabile di ricchezza culturale e materiale. Auspichiamo perciò che dal mondo della scienza e della ricerca, dalle Associazioni impegnate nella difesa della cultura e dell’ambiente, da tutti coloro che giustamente sono orgogliosi del nostro patrimonio storico e artistico e consapevoli della sua importanza, venga una protesta che costringa maggioranza e governo a rinunciare a un progetto così rovinoso e ripristinare - se non altro - una tradizione di tutela che nel corso dei decenni si era venuta consolidando e pareva, ormai, del tutto fuori discussione.
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Si veda anche:
Giuseppe Chiarante, “Patrimonio s.p.a.”
Erbani, Francesco “Beni culturali un grande affare privato”