La più incisiva delle azioni antimafia è la corretta e scrupolosa applicazione della legge. Senza altisonanti dichiarazioni di principio, senza passerelle, senza protagonismi.
E anche, se possibile, senza quei solitari e quotidiani eroismi per riuscire ad applicare una norma che prevede un´assegnazione o un trasferimento, che possono tragicamente segnare un destino.
Chiedere l´applicazione della legge è del resto la più classica delle battaglie antimafia, quella che a partire dai sindacalisti uccisi nel dopoguerra ha visto tanti caduti. L´azione della legge che tutela il diritto di tutti i cittadini, da contrapporre alla vischiosità delle catene clientelari: prima che il Parlamento usasse legiferare ad personam era tutto più semplice.
Le leggi non sono tutte uguali, ce ne sono alcune portatrici di un forte valore simbolico che come un surplus s´aggiunge all´aspetto normativo, e per sua natura aspira a circolare come linfa fra le pieghe del corpo sociale. La legge Rognoni-La Torre, varata in uno dei momenti più drammatici della nostra storia, sembrava naturalmente destinata a diventare il simbolo del riscatto contro la mafia. Tanto più che nel 1995 l´associazione "Libera" raccolse un milione di firme per proporre l´uso sociale dei beni confiscati, e la "nuova" Rognoni-La Torre riformata diventò legge nel 1996. Purtroppo però, senza volere sottovalutare il dato positivo dei beni assegnati e quelli che hanno visto l´insediamento di attività produttive, è mancata la volontà politica di utilizzare al meglio le potenzialità offerte dalla legge. Al punto che nel giro di pochi anni il bilancio della Rognoni-La Torre è diventato decisamente negativo e la proposta del centrodestra, che nel settembre 2004 prevedeva la possibilità di revisionare senza limiti di tempo i definitivi provvedimenti di confisca, è stata solo l´ultimo atto di una grande occasione mancata.
Le denunce sui contrattempi che nel breve volgere di qualche anno hanno invalidato lo spirito della legge sono state ripetute, anche con interventi su questo giornale. Più volte s´è scritto di come i lunghi tempi che intercorrevano fra l´azione di confisca e l´assegnazione dei beni determinasse il deterioramento di un patrimonio enorme, accumulato a spese della collettività. S´è denunciato come, nelle more, i beni confiscati continuassero ad essere utilizzati da prestanome beffando così l´azione della magistratura. O di come l´assenza di un approccio progettuale impedisse che i beni confiscati fossero considerati alla stregua di un patrimonio di risorse da utilizzare, senza contare che il notevole scarto fra i beni in carico al Demanio e quelli assegnati ai Comuni ha lasciato in un limbo burocratico dai contorni imprecisati un gran numero di patrimoni. Per arrivare al dilemma "farli perdere o vendere?" c´è voluta un´oculata cattiva gestione, essenziale per capovolgere e vanificare lo spirito della legge.
Il risultato, secondo i dati forniti dalla Corte dei conti ed elaborati dal centro Pio La Torre per un convegno tenutosi lo scorso febbraio, è che il cinquanta per cento dei beni confiscati alla mafia non viene assegnato e rischia di andare in rovina. A Trapani troviamo il record negativo, con 80 beni confiscati e nessuno assegnato. A Catania i beni assegnati sono 84 su 375. La politica ha lasciato che il tempo scorresse, senza prendere iniziative. La tradizionale organizzazione della burocrazia, stile muro di gomma, ha fatto il resto. E adesso la Corte dei conti denuncia come «gli uffici non forniscono notizie specifiche sulla cessione del bene o sulla mancata utilizzazione degli immobili. È assente un´analisi dei costi di gestione e non esiste alcun monitoraggio dell´attività degli amministratori». Possono passare anche dieci anni perché un bene confiscato sia finalmente assegnato, e a quel punto per rimediare i guasti e procedere alle necessarie ristrutturazioni servirebbero soldi. Ma le associazioni non possono dare in garanzia i beni assegnati, che vengono inventariati nel patrimonio indisponibile, e i Comuni soldi non ne hanno. Ed è come l´ultimo atto di una beffa, quando non è difficile che ville, aziende e palazzine vengano abbandonate. Solo a Bagheria – spiega l´ex assessore alla Legalità Pippo Cipriani - beni confiscati per centinaia di milioni di euro vanno alla deriva per mancanza di fondi. A Palermo poi, l´azienda con il più ingente patrimonio è una società che non esiste e che potremmo chiamare "Beni sequestrati spa": potenzialmente un´enorme risorsa sociale ed economica da utilizzare per la collettività, ad esempio per la risoluzione dell´emergenza casa. Quando si lascia che un simile patrimonio vada in rovina, quale messaggio arriva ai cittadini e come si potrà poi parlare di antimafia? La più rigorosa delle iniziative antimafia è semplice e comincia da qui, dall´applicazione attenta di una legge-simbolo.