loader
menu
© 2024 Eddyburg
Ugo Mattei
Beni a perdere
2 Dicembre 2008
Capitalismo oggi
Un programma politico impegnativo, indispensabile per evitare, in extremis, il declino. Ma in mano a chi? Il manifesto, 2 dicembre 2008

Mentre i media continuano a veicolare l'idea che si tratta di un incidente di percorso, la crisi economica sta mettendo a nudo il progressivo declino dell'egemonia occidentale nel mondo

L'Occidente è in recessione, il che significa stagnazione e arresto della crescita. Di per sé potrebbe trattarsi di un semplice arresto ciclico, ed anzi buona parte dei media «ufficiali» cercano di veicolare questa idea. Uno, due anni di «vacche magre»; qualche modifica istituzionale nella regolamentazione del capitale finanziario; una nuova «Bretton Woods», come ormai si usa dire, e il modello capitalistico, fondato sulla liberal-democrazia, tornerà ad essere il miglior sistema possibile. Secondo altri osservatori, potremmo invece trovarci di fronte ad un crollo sistemico, paragonabile a quello che ha travolto il modello sovietico. Entrambe le prospettive sono compatibili con il fatto che la leadership dell'Occidente sia perduta e che il G8 sia soltanto un brutto ricordo (non si sa se ci attenderà un G20 o un G14).

Per l'Europa, la cui egemonia era stata già persa a favore degli Stati Uniti da molto tempo, si tratta di un nuovo trauma, cui si è giunti completamente impreparati in preda a divisioni e paure. Sotto la guida di leaders privi di qualsiasi credibilità culturale prima ancora che politica, si continua a vagheggiare di «patrimonio valoriale dell'Occidente», di «radici giudaico-cristiane» e di altre simili insulse amenità, che invano cercano di dare una patina di rispettabilità al razzismo dilagante. Una cosa è però certa: tutti i leaders europei non voglio accettare il fatto che gli equilibri del mondo sono mutati a sfavore dell'Europa e degli Stati Uniti.

Declino europeo

Per gli Stati Uniti, si tratta della prima macroscopica battuta d'arresto in una storia di costante crescita di influenza planetaria fin dalla propria nascita, mai in precedenza interrottasi, neppure nel periodo della guerra fredda. Un modello di superiorità occidentale radicato in Europa e potente veicolo di esportazione dell'arroganza dell'uomo bianco, ancorché sotto le diverse spoglie, non meno brutali, di privatizzazione, messa in vendita e dollarizzazione (strutturale a partire da Bretton Woods), piuttosto che della diretta colonizzazione. A differenza però che in Europa, dove gli ipocriti e velleitari volti di Gordon Brown, Nicolas Sarkozy, Manuel Barroso (meglio, forse, la figura di Angela Merkel, ma non parliamo di nostri provincialissimi e ininfluenti leaders) sono la dimostrazione ultima di una crisi irreversibile della politica europea, gli Stati Uniti riescono a sfoderare Barack Obama. Si tratta di un leader che, se non fosse esistito, doveva essere inventato, tanto incarna la logica della postmodernità: l'ibridazione culturale al servizio del libero mercato. Ma forse è troppo tardi affinché un buon presidente Usa (ammettendone la possibilità) potrebbe essere condizione necessaria ma certo non sufficiente per la salvezza, visto che la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che «il re è nudo!», nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua.

Invero, la catastrofe economica attuale non è gestibile attraverso strumenti compatibili con il capitalismo finanziario che l'ha prodotta e quindi non può certo essere risolta dal principale prodotto politico del capitalismo finanziario medesimo, ossia il Presidente degli Stati Uniti. L'impatto della catastrofe al di fuori degli Stati Uniti, (della cui economia, dopo Bretton Woods, tutto il mondo è succube), può essere attenuato, certo non evitato, soltanto con strumenti politici, culturali ed istituzionali fortemente antagonistici rispetto al modello statunitense. La speranza è che almeno la sinistra se ne renda conto. Occorre perciò combattere innanzitutto quella insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa. Cosa che certamente l'Occidente, ipnotizzato da decenni di ciance mediatiche sulla competizione, sulla meritocrazia, sullo sviluppo, sulla crescita, sulla legalità astratta, sui diritti umani non è pronto a fare, a meno di non esservi costretto da forze e da movimenti sociali e politici capaci di produrre una vera rivoluzione copernicana che porti a rendere possibile ciò che oggi pare impossibile.

Istituzioni di lungo periodo

Bisogna cioè che l'elaborazione teorica sia pronta e sappia ripensare adesso alla socializzazione dei più importanti mezzi di produzione (con cogestione dell'impresa, qualora essa rimanga privata), alla ridistribuzione radicale delle risorse (tramite tassazione progressiva ed imposta patrimoniale), alla costruzione di un modello misto in cui l'interesse pubblico sappia davvero imporsi, con le buone o con le cattive, su quello privato e sul conflitto di interessi. Si tratta di metter mano adesso ad istituzioni democratiche «di lungo periodo», capaci di bonificare il nostro modello di sviluppo, creandone uno nuovo, imperniato sulla qualità della vita di tutti come comunità e non sulla quantità delle risorse che ciascuno, individualmente, compete per controllare e consumare.

Una simile trasformazione non può essere guidata dagli stessi leaders e dalle stesse forze che ci hanno portato a questo disastro sociale e politico, prodotto dell'individualismo consumistico. Può essere immaginata soltanto nel quadro di un'ascesa della «fantasia al potere», che abbia il coraggio di ridiscutere gli stessi spazi e gli stessi tempi del politico, schierandosi sistematicamente dalla parte dei perdenti dei processi sociali capitalistici. Non ovviamente una fantasia astratta ma, al contrario, il coraggio di saper scegliere, senza pregiudizi, dal ricco menù culturale che la civiltà umana anche oggi propone. Si tratta di disporsi con umiltà di fronte all'immensa ricchezza di culture rese vittime dallo sviluppo capitalistico, al fine di recuperarle in via dialogica ed accompagnarne la ricollocazione al centro delle istituzioni globali prima che sia troppo tardi per tutti. Ma se salvare l'Occidente da se stesso, dai suoi miti e dalle sue paure, appare un' impresa titanica, non c'è dubbio che si tratti pure di un'urgenza, che potrebbe comunque diventare molto presto una necessità assai più che una scelta.

La prudenza dei giganti

L'Africa affamata ed assetata dal continuo saccheggio, ed un mondo islamico rispetto al quale l'atteggiamento razzista di ingliustificata superiorità non sembra mutato a partire dall'XI secolo, stanno dando ampi segnali di come i cicli demografici finiranno per prevalere anche in Europa. D'altra parte essi offrono modelli di civiltà meno atomizzati e più aggreganti.

L'America Latina, già da qualche anno principale beneficiaria dell'annunciato crollo dell'impero americano, distratto dalle sue folli avventure belliche in Medio Oriente, costituisce in questo momento il più importante laboratorio politico di alternative «umane» al capitalismo finanziario, dall'Equador alla Bolivia, Argentina, compreso il Brasile di Lula e il Venezuela di Chavez. Essa non ha comunque smesso di premere sull'incivile muro lungo il Rio Grande, e di «ibridare» la società statunitense con milioni di lavoratori sfruttati, a loro volta spinti da fame e privazioni.

Cina e India non sono in recessione, sebbene la seconda sia stata ben più americanizzata della prima, e ne soffra le conseguenze. Al di là degli effetti ancora imponderabili dei tragici fatti di Mumbay, la crescita, sostengono molti analisti, potrebbe rallentare, scendendo sotto quell'incredibile 10% annuo dell'ultimo decennio. Ma si assesterebbe sul 6-7%. Fra mille contraddizioni, e con differenze notevoli, i due giganti asiatici riescono in qualche modo a cogliere i frutti della prudenza, della propensione al risparmio e del mantenimento in vita del primato dello stato e dell'elaborazione politica.

Lo sforzo in atto soprattutto in Cina di perequare finalmente campagne e città e di sviluppare un'economia meno fondata sull'esportazione di prodotti finiti a buon mercato, potrebbe far pensare ad una volontà di Pechino di chiedere il rendiconto agli Stati Uniti, rifiutando di continuare a finanziare le abitudini della cicala. Sarebbe una novità globale dalla portata immensa. Pechino detiene 2000 miliardi di riserve in dollari e 1200 miliardi in buoni del tesoro statunitensi.

Ma nel mondo post-occidentale ci sono molti altri protagonisti capaci di fornire modelli politici e culturali che, per scelta o per necessità, dovranno essere considerati. Il Giappone, in sofferenza da oltre un decennio, che tuttavia offre un modello di settore pubblico e di burocrazia altamente professionalizzata, fortemente armata sul piano politico e culturale, e capace di dialogare alla pari con il settore privato. Se ne avrebbe gran bisogno anche in Occidente, dove per l' assenza di un ceto professionale di civil servants, perfino il bailout americano costituisce un nuovo episodio di privatizzazione di funzioni pubbliche alle grandi law firms di Wall Street. E non parliamo della nostra Italia dove, senza pudore, il «nocchiero dell'economia», pur autore di mediocri libri antimercatisti, continua a proporre oscene privatizzazioni-saccheggio (compresa, da ultimo, l'acqua), purtroppo col sostegno di «opposizione» e governi locali, intenti a far affari con i servizi e le partecipate pubbliche.

E la vecchia protagonista della Guerra Fredda, quella Russia il cui crollo imperiale ha trascinato con sè il Welfare State in occidente? Recentemente, durante un incontro, Marcello Cini ha sostenuto che forse il modello Putin è quello su cui si sta fondando il «consenso» al crepuscolo dell'economia liberale di mercato: autoritarismo, nazionalismo, militarismo, saccheggio. Una chiave interpretativa condivisibile e che aiuterebbe a comprendere meglio la situazione europea attuale

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg