«Si tratta di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali».
la Repubblica, 30 agosto 2017 (c.m.c)
Con il completamento dell’ultimo passaggio, anche l’Italia avrà finalmente un embrione di reddito minimo per i poveri a livello nazionale. Per chi si batte da decenni — fin dalla prima Commissione povertà presieduta da Gorrieri nel 1986 — perché questo avvenisse, è sicuramente una buona notizia. L’esistenza di una rete di protezione di ultima istanza è un pezzo importante del sistema di welfare, che ne qualifica il carattere solidaristico e non solo di assicurazione contro i rischi. È anche importante che accanto al sostegno al reddito siano previste attività diversificate di integrazione sociale, che vedano coinvolti più attori locali: dalla formazione all’accompagnamento al lavoro, ai servizi di riabilitazione, al sostegno alla partecipazione sociale.
Anzi, sarà opportuno che non ci si limiti a coinvolgere solo le associazioni di volontariato e di terzo settore, come si tende a fare quando si tratta di poveri, ma anche le agenzie del lavoro e le associazioni datoriali. Si tratta tuttavia di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali. Il primo limite, da cui derivano in larga misura gli altri, è il sotto-finanziamento.
Anche se raggiungesse i due miliardi per il prossimo anno, come sembrerebbe da alcune fonti (ma altre danno una cifra inferiore), non servirebbe a coprire tutti i quattro milioni e 598 mila poveri assoluti stimati in Italia, e neppure tutto il milione e 131 mila minori al loro interno, nonostante le famiglie con minori siano nel gruppo identificato come il target prioritario della misura. Proprio per questo, almeno per ora, la soglia Isee che dà accesso al Reddito di inclusione è stata fissata a un livello più basso (6000 euro) di quello che individua la povertà assoluta e l’importo massimo erogabile per famiglie molto numerose non supera quello della pensione sociale, nonostante questo sia stato pensato per rispondere ai bisogni di un anziano solo, non di una famiglia numerosa. È per lo meno curioso che venga fissato questo criterio proprio mentre, su altri tavoli, ancora una volta ci si preoccupa di integrare le pensioni sociali ed anche quelle minime.
La combinazione di soglie di Isee e importi del sussidio molto bassi rende altamente probabile che vengano selezionati i casi non solo di povertà più estrema, ma che hanno più difficoltà ad uscire dalla povertà tramite l’accesso a occupazioni adeguatamente remunerate. Questo rischio è rafforzato dai criteri aggiuntivi introdotti per accedere prioritariamente al sostegno, ovvero le caratteristiche della famiglia: presenza di minori, di donne incinte, di ultracinquantacinquenni disoccupati di lungo periodo e non beneficiari di Naspi, disabile. Chi è giovane o comunque ha meno di cinquantacinque anni, non ha figli minori, non è incinta, non è disabile e non vive con nessuna di queste categorie di persone, difficilmente avrà accesso al sostegno a parità di condizioni economiche, o anche se sta peggio. Escluse sono anche, a parità di Isee, le famiglie in cui anche un solo componente fruisca del Naspi o abbia una occupazione, in contraddizione con l’obiettivo di incentivare i beneficiari a trovare una occupazione.
Alla luce di questa individuazione restrittiva dei beneficiari, che rende il Rei poco universalistico e tendenzialmente categoriale, tanto più assurda appare la norma che fissa in 18 mesi il periodo massimo di godimento del sussidio. Innanzitutto perché logica vorrebbe che, così come avviene nella maggior parte dei paesi, il sostegno si dà finché il bisogno persiste. Si possono, anzi devono, fare controlli periodici sulla partecipazione dei beneficiari alle attività proposte e sulla loro effettiva disponibilità ad impegnarsi. Ma se, nonostante tutto l’impegno e la disponibilità, non si è trovata una via di uscita, perdere il sostegno significa ritornare al punto di partenza.
Difficile che nei sei mesi di attesa obbligatoria prima di poter fare di nuovo domanda di sostegno la situazione migliori. Anzi il rischio è che si interrompano percorsi potenzialmente virtuosi. In secondo luogo, è ampiamente noto che sono le persone con meno difficoltà personali e famigliari ad uscire più velocemente dall’assistenza. Chi ha più difficoltà richiede più tempo.
Perché questo embrione di sostegno ai poveri diventi davvero un pilastro del welfare, dove si combinano protezione e abilitazione, riconoscimento di diritti e di responsabilità, occorrerà correggere al più presto questi ed altri limiti che ne vincolano pesantemente la portata. Lo strumento per farlo è il piano nazionale contro la povertà, che prevede uno strumento di pianificazione triennale. Secondo gli estensori del provvedimento, questo dovrà gradualmente ampliare la platea dei beneficiari, l’importo del Reddito di inclusione, il massimale del beneficio e il limite mensile di prelievo in contanti, oggi limitato solo al 50 per cento dell’importo, mentre il resto è vincolato all’acquisto di determinati beni. Sarà importante che questa pianificazione avvenga ascoltando chi lavora sul territorio e chi conosce le esperienze consolidate di altri paesi. Ed anche che si coordini con gli altri tavoli in cui si discute di distribuzione di risorse scarse.