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Carla Ravaioli
Bel Paese, appunti per un paesaggio con rovine
13 Gennaio 2006
Recensioni e segnalazioni
L'Italia rovinata dagli italiani», raccolta (1946-1970) di Leonardo Borgese, curata da Vittorio Emiliani, ed. Rizzoli. Il manifesto 13 gennaio 2006

«I nuovi vandali». «Gli infaticabili promotori del brutto». «La tremenda invasione della rozzezza e della brutalità». «La mania cafona dei grattacieli». Cemento e asfalto dilaganti «in nome dello sviluppo». L'automobile che s'impone e crea «una società di sedentari motorizzati». Laghi alpini prosciugati, valli riempite d'acqua, vecchi paesi sommersi, cascate che spariscono per costruire centrali elettriche. «I soliti progressisti che hanno rovinato il progresso». «Il vero è che progresso, civiltà moderna, igiene, viabilità, non sono che scuse alla mania distruttiva, al desiderio di lucro, all'ignoranza e al cattivo gusto». Non sono invettive di qualcuno inorridito dalle devastazioni ambientali e dagli scempi urbanistici, ormai pratica quotidiana nella berlusconiana Italia dei condoni: sono brani di quaranta, cinquanta anni fa, scelti a caso da L'Italia rovinata dagli italiani, una raccolta di scritti di Leonardo Borgese, dedicati all'ambiente, alla città, al paesaggio, curata da Vittorio Emiliani (Rizzoli, pp. 342, € 19), che tristemente ci dice come la disinvolta pratica italiana di rovinare l'Italia abbia antefatti lontani. Gli articoli, apparsi sul Corriere della Sera tra il `46 e il `70, coprono un periodo estremamente significativo della nostra storia, che muove da un'Italia sconfitta, povera e in macerie, e però già pervasa dalla febbrile euforia della ricostruzione, per giungere al pieno dispiegamento del miracolo economico. Un percorso che segna il passaggio dalla miseria dei più a un benessere via via più diffuso, il prevalere dell'ottimismo su sacrifici squilibri iniquità, l'imporsi del consumo come simbolo e vanto di un nuovo status raggiunto, l'affermarsi della tv come agenzia formativa prioritaria per la gran massa della popolazione, l'onnipresenza della pubblicità. Una sorta di mutazione antropologica che inevitabilmente (Pasolini ne è stato il testimone più intelligente e severo) si colora di una mentalità da «nuovi ricchi» o aspiranti tali, fatalmente sedotti dalla modernità non importa quale, dalle «grandi opere», dal trionfo tecnologico, dal possesso e dall'ostentazione. Una trasformazione che nel suo procedere incontra ben pochi limiti e correzioni da parte degli addetti alla gestione e alla difesa della cultura, in ogni suo territorio e funzione: a partire dai diretti incaricati - governi, amministrazioni locali, sovrintendenze - fino alla gran parte delle più eminenti personalità del sapere.

Leonardo Borgese è una delle poche eccezioni. Uno che (come nota Emiliani, felicemente ricostruendone l'esemplare biografia) sa mettere a pieno frutto il privilegio di essere nato e cresciuto in ambienti della migliore cultura italiana, di cui rigore morale e antifascismo erano stati puntuali contrassegni; che coerentemente, dopo la resistenza e la guerra, accetta una vita difficile, anche materialmente, per difendere con inflessibilità le proprie opinioni, e con occhio infallibile e parola indignata denunciare tutti gli interventi urbanistici o restaurativi che peggiorano anziché migliorare e salvare le bellezze del paese. A cominciare da quelli operati per fini autocelebrativi già in epoca fascista (l'abbattimento di vecchie case popolari del centro di Roma per costruire la «funebre» piazza Augusto Imperatore, lo sventramento di Borgo Pio per fare spazio a Via della Conciliazione che lui chiama la «marcia degli obelischi»), continuando con il pessimo restauro del Caffè Pedrocchi a Padova, la copertura dei Navigli a Milano, la spoliazione sistematica delle Ville vicentine, i parchi sacrificati al cemento del boom edilizio, la «Brianza che tramonta nel cemento», l'illuminazione al neon che «uccide il chiaro di luna» sul Canal Grande...

Voce scomoda e spesso isolata, non risparmia nessuno dei «colpevoli di lesa patria» in una serie di abusi, sopraelevazioni, superfetazioni, demolizioni, sfruttamento intensivo del suolo cittadino, in un crescente caos architettonico e urbanistico, dai più - spesso con l'avallo o addirittura la complicità delle sinistre - contrabbandato per sviluppo. Voce per molti versi anticipatrice e addirittura profetica: nel `59 parla dell'acqua come «bene di tutti»; già all'inizio dei `60 sollecita le amministrazioni a chiudere i centri storici al traffico motorizzato e incentivare il trasporto pubblico. Mentre con insistenza ripete: «Le buone amministrazioni non demoliscono, restaurano»; e sottolinea anche che salvare il patrimonio storico e artistico del paese può risultare proficuo anche per i nostri bilanci; perfino, con grande anticipo, vede e sostiene la necessità di un «comando unico» delle attività e degli organi addetti alla gestione e alla salvaguardia del patrimonio artistico, cosa che accadde parecchi anni dopo la sua morte, per iniziativa del governo Spadolini, con l'istituzione del ministero della cultura, ma senza conseguenze gran che apprezzabili.

Negli anni in cui scriveva Borgese il mercato non era ancora spudoratamente dato come misura di ogni agire, l'ossessione della crescita e del pil non era ancora il leitmotiv della vita, l'economicismo non dominava e inquinava nella misura di oggi, sopraffacendo ogni altro valore. E però già lui con furore dichiarava, che quanto viene chiamato cultura non è che «duro affarismo, avido, cieco, sordo, odioso e presuntuoso utilitarismo, puzzo, veleno, neon, frastuono».

Non si può negare che il panorama attuale della cultura italiana - tra anarchia urbanistica programmata a norma di legge, logiche partitiche e clientelari prevalenti insieme alla più scorante incompetenza nell'amministrazione pubblica del settore, dissesto territoriale consentito, anzi promosso, in favore delle mafie e della speculazione immobiliare - sia tremendamente peggiorato. E però, a ben guardare, le differenze sono soprattutto di scala, legate alla dilatazione produttivistica che per quantità esponenziali sempre più caratterizza oggi ogni attività, anche quelle che da ben altri criteri e finalità dovrebbero essere guidate. I vizi che ne sono la ragione profonda c'erano già tutti nell'Italia di Borgese, e lui era uno dei pochi a dirlo.

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