Se n’è andato alle 8,50 del mattino, l’ora in cui, dopo la colazione («Per l’onorevole - era scritto su un cartello nella cucina della casa di riposo - caffè, biscotti, uova, marmellata») si avvicinava al tavolo per la prima partita della giornata. Giocava a beccaccino, una specie di briscola. Anche i suoi compagni di carte lo chiamavano onorevole, non più Bulow. Arrigo Boldrini, comandante partigiano, padre costituente, ha finito la sua vita ieri, all’ospedale di Ravenna. Il 6 settembre aveva compiuto 92 anni. «Nostro compito - ha scritto nel suo ultimo messaggio come presidente dell’Anpi - è raccontare la nostra esperienza partigiana, con le sue luci e le sue ombre. Perché possa essere di esempio e monito per fare comprendere il valore della libertà, il rischio di perderla, il sacrificio che occorre per riconquistarla».
Accompagnati da figli e nipoti, alla camera mortuaria della città arrivano gli ultimi suoi compagni di lotta, che combatterono nelle valli della Romagna. Arriva il sindaco Fabrizio Matteucci e dice che Ravenna «è orgogliosa di averlo avuto fra i suoi figli migliori». «Abbiamo perso un grande italiano. Quando ero ragazzo, i racconti dei partigiani si respiravano nell’aria: la Resistenza è stata la chiave che ci ha spinto all’impegno politico».
Domani alle 15 ci saranno i funerali in piazza del Popolo. In questa stessa piazza il 4 febbraio 1944 il generale Richard Mc Creery, comandante dell’VIII Armata inglese, gli consegnò la medaglia d’oro al valor militare per avere liberato la città di Ravenna quando il nord Italia ancora era occupato dai nazisti. Sempre in piazza del Popolo, nel novembre 1989, Arrigo Boldrini tenne l’orazione funebre per Benigno Zaccagnini. Avevano stretto un patto, lo studente di agraria diventato partigiano comunista e il pediatra che sarebbe diventato segretario nazionale della Dc. «Quando uno di noi se ne andrà - giurarono quando ancora erano in armi e si chiamavano Bulow e Tommaso Moro - l’altro parlerà al suo funerale».
Stamane verrà aperta una camera ardente in municipio. «In questo triste momento - ha scritto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - vorrei ricordare anzitutto l’amico sincero, dal tratto umano sensibile e aperto, con cui ho condiviso importanti momenti di comune impegno democratico. E rappresentare la gratitudine dell’intero Paese per il prezioso patrimonio di dedizione alla causa della libertà e dell’indipendenza nazionale».
Non era bravo a parlare, il comandante Bulow. «Me lo dissero - ha scritto nel libro "Corsari in jeep" Vladimir Peniakoff, comandante del reparto inglese che partecipò alla liberazione di Ravenna e salvò la basilica di Sant’Apollinare in Classe - i suoi stessi compagni. "Ha le qualità del capo, sa organizzare la guerriglia ma non sa parlare". In verità non era un oratore. Era un giovane piccolo di statura, vivacissimo. Era stato scelto da Luigi Longo, uno dei capi della Resistenza, perché aveva un’esperienza militare come ufficiale dell’esercito. Lo incontrai durante la liberazione della città. Noi entravamo da est, lui da nord. Bulow era ferito a un braccio, lo feci medicare e lo condussi nel mio alloggio. Era il giorno della vittoria ed egli era l’eroe ferito nella liberazione della sua città. Sarebbe rimasto a godersi il trionfo? Attivo e irrequieto come al solito, non ebbe pace finché non ripartì per le paludi, dove aveva vissuto tanto a lungo la vita di un ranocchio. Egli e i suoi vivevano in capanne di canne fangose, pochi centimetri sopra il livello dell’acqua. Ogni notte facevano una sortita contro i tedeschi, durante il giorno giacevano sul fango».
Finisce la guerra, Arrigo Boldrini resta per tutti Bulow. Non è facile scrollarsi di dosso i soprannomi in una terra romagnola dove i padri hanno il coraggio di chiamare i figli Rivo, Luzio e Nario, oppure Sole, Dello, Avvenire. «E’ stato un altro partigiano - raccontò Boldrini - a darmi questo soprannome. Si chiamava Michele Pascoli, era un barbiere comunista che sarebbe stato fucilato dai nazisti. Io spiego agli altri, in una riunione, che la guerra ai nazifascisti si può fare anche dove non ci sono montagne. Mi metto a parlare di "pianurizzazione". Il compagno Pascoli mi guarda e dice: "mo’ chi sit, Bulow?". Ma chi credi di essere, quel Bulow che ha sconfitto Napoleone?. Così quel nome mi è rimasto attaccato».
Subito dopo la guerra, il capo partigiano viene accusato dell’eccidio di Codevigo, in Veneto. Decine di militari e civili della Repubblica sociale furono uccisi. Arrigo Boldrini viene processato e assolto. Entra in Parlamento, diventa un padre della Costituzione. Diventa presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani. Scrive tutti i suoi discorsi, non parla mai a braccio, anche quando deve andare a celebrare il 25 Aprile nelle più piccole frazioni del ravennate. «Noi abbiamo combattuto - racconta - per quelli che c’erano, per quelli che non c’erano e anche per chi era contro…».
Arrivano gli anni del tramonto. Nell’aprile 2005 Bulow viene accompagnato dal figlio Carlo nella casa di riposo di un prete, don Ugo Salvatori, a Marina di Ravenna. Si guarda intorno stupito, assieme al sacerdote vede anche quattro suore. La sua mente non è più quella di un tempo ma qualche ricordo ritorna. «Ma lo sa - dice a don Ugo - che da piccolo, nella chiesa di Santa Maria del Porto, facevo il chierichetto? Il nostro capo chierico era Benigno Zaccagnini». Verso sera, nella nebbia ravennate, un’agenzia annuncia che «Bulow si era avvicinato alla fede». Lo avrebbe annunciato don Ugo, raccontando che «prima di Natale aveva partecipato alla Messa». Il sacerdote si affretta a smentire. «Io non ho mai parlato di conversione. Ho solo detto che prima di Natale l’onorevole era stato accompagnato alla Messa da suo figlio e che era gentile con me. Tutto qui». Anche nel 2005, nei primi giorni nella casa del prete, il vecchio comandante era andato a Messa. «Stavo giocando a carte e vedo che tutti vanno via. Dove andate? A Messa, mi dicono. Io non sono andato, perché nessuno mi aveva invitato. Ma a Pasqua il prete mi ha invitato, e allora anch’io sono entrato nella cappella». Una mente lucida per i conti della partita a beccaccino e per qualche ricordo lontano. Gli occhi alle carte e alla pineta, oltre la quale ci sono le valli con la palude e i canneti. Era qui che Bulow faceva «la vita del ranocchio», per la libertà dell’Italia.