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Tristan Coloma
Aspettando il porto che deve salvare il Kenya
22 Aprile 2013
Nel mondo globalizzato la priorità alle Grandi opere. Ovunque gli stessi risultati la distruzione di preesistenze anche di altissima qualità (il sito storico di Lamu e la sua laguna) in omaggio alla "crescita" e il saccheggio delle risorse locali.

Le Monde Diplomatique /il manifesto, aprile 2013

La luce cruda del sole incendia la strada di laterite fino a ridurre in cenere la savana irregolare dell’arcipelago di Lamu, nel nord-est del Kenya. Ahmet, un uomo vestito di stracci, dai tratti emaciati per le ore trascorse a sorvegliare chilometri di palizzate, vuole mettere le cose in chiaro. «Non procede velocemente, vero? Lamu si muove ancora alla velocità di un asino, comunque ... Sì, c’è la costruzione dell’edificio degli ufficiali, ma nulla che assomigli a un porto che costerebbe miliardi di dollari... Non so davvero cosa ci sia da sorvegliare. La pista non è ancora asfaltata e il porto deve essere inaugurato nel 2016. Faccio fatica a crederci ...»

Eppure, l’amministrazione keniota e i suoi partner del Sudan del Sud ed etiopi, dal canto loro, ostentano un entusiasmo sconcertante riguardo al successo del più grande cantiere della storia africana dalle indipendenze. Il loro obiettivo? Trasformare l’economia del continente grazie al commercio marittimo internazionale, all’integrazione regionale, e all’apertura dell’Est. L’ex presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha dunque voluto costruire un «Grande Corno d’Africa» in cui la Comunità dell’Africa dell’Est (Eac [1]) ingloberebbe anche la Somalia, l’Etiopia, e Gibuti nello stesso blocco economico.

NON CI SARANNO PIU' PESCI: COME FAREMO A VIVERE?

Per far ciò ha tirato fuori dal cassetto un progetto faraonico anni '70, la costruzione di un asse di trasporti multimodale transfrontaliero. Del costo totale di 18,96 milioni di euro, il Lamu Port – South Sudan-Ethiopia Transport Corridor (Lapsset Corridor) si articolerà attorno a un porto in acque profonde nella baia di Manda, a Lamu. Formerà un ponte terrestre fra il Kenya e Douala, la capitale del Camerun, per collegare l’Atlantico all’Oceano Indiano. Questo complesso è la punta di diamante di Vision 2030, il piano a medio termine lanciato nel 2008 dalle istituzioni internazionali. Dal 2008 al 2030, è possibile un salto nel futuro di questo genere? Come minimo, sarà un balzo in avanti per Lamu, tanto l’arcipelago sembra fuori dal tempo. Dietro le facciate scrostate di vecchi palazzi arabi classificati patrimonio mondiale dall’Organizzazione delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza, e la cultura (Unesco), seguendo il dedalo di vicoli popolati di asini disinvolti, si trova un Internet café assai accogliente nel quale non è raro incontrare un guerriero masai venuto a consultare la sua posta elettronica.

Il progresso non aspetta. È per questo che Nairobi vuole lanciare questo pezzettino di un mondo passato nell’Africa di domani. «Niente di meno di un salto quantico del livello di vita dei kenioti da qui al 2030», si inorgoglisce Mugo Kibati, il direttore generale dell’ufficio di Vision 2030. Si immagina Sinbad il marinaio che sbarca da un jet privato per sorseggiare un cocktail sulla terrazza del suo loft con vista panoramica sulla barriera corallina, la raffineria, e le superpetroliere? Attualmente, gli scambi commerciali dell’Africa dell’Est e dell’Africa centrale dipendono da Mombasa, il grande porto della costa est del Kenya, il che fa di quest’ultimo «l’asso nella manica più importante della regione», secondo la Banca mondiale. Questo porto è un barometro del dinamismo economico della zona, e la pressione è forte. Fra il 2007 e il 2011, ha visto il suo traffico aumentare del 23%. Nel 2011, ha movimentato circa settecentosettantamila Teu – l’equivalente a venti piedi è l’unità di misura standard che corrisponde a un container di 6,1 metri di lunghezza –, benché fosse stato concepito per accoglierne duecentocinquantamila.

Uno studio americano (2) dimostra che in media la durata del trasferimento di un container dalla nave fino a quando lascia il sito è di oltre quindici giorni. In più, in mancanza di strade o di ferrovie in buono stato nella regione, il prezzo del trasporto di un container per chilometro percorso figura tra i più elevati al mondo (3). Il segretario permanente ai trasporti, Cyrus Njiru, è il primo a riconoscerlo. Secondo lui, «il 91% del Prodotto interno lordo [Pil] del Kenya viene prodotto in un raggio di cento chilometri attorno alla linea ferroviaria che collega l’Uganda al Kenya. Il resto del territorio, in cui si concentra il 75% della popolazione, genera il 10% del Pil. Perché? Perché le infrastrutture non sono mai state sviluppate (4)».

Costi di trasporto sotto controllo e un’accelerazione della circolazione dei beni favorirebbero sicuramente l’espansione dell’agricoltura e dell’industria keniote. Come sottolinea Mark Bohlund, economista per Ihs Global Insight, «questi progetti d’infrastrutture sono colossali. Il loro costo equivale ai due terzi del Pil annuo del Kenya, ma potrebbero stimolare la crescita di tutta la regione. E avere conseguenze geostrategiche che sarebbero cruciali per la pace e l’integrazione di tutta l’Africa dell’Est». Aspettando la crescita e la pace per tutti, a Matondoni, come sempre, il sole infiamma le paludi dei suoi baci roventi. Attraverso le dune, a tre ore di strada faticosa dall’edonismo balneare e dalle spiagge di sabbia bianca di Shela, la miseria delle comunità autoctone dell’arcipelago di Lamu manda in frantumi l’immagine di prosperità che i tour operator associano al periodo del sultanato.

Qui, non c’è nulla, e nessuno si nutre di illusioni. Salvo forse un uomo che sembra allo stremo delle forze: Mohamed Famau, il mzee («saggio») del villaggio. «Ci promettono che Lamu sarà un paradiso dove tutti avranno lavoro e un comfort senza paragoni. La regione sarà la più sviluppata del Kenya. Si vorrebbe già avere un supermercato.» In un passato glorioso, la città swahili mandava i suoi dhow fino in India e in Cina per scambiare ambra grigia, avorio, e schiavi. Ormai, è all’ombra e fra le radici delle mangrovie che i pochi irriducibili laboriosi si affannano su delle vecchissime imbarcazioni. Dopo il dragaggio del canale e lo sradicamento della mangrovia, il futuro porto in acque profonde e la sua raffineria metteranno fine alla loro attività. I pesci scompariranno. Ne sono certi

E lavoro, sanno già che non ne avranno nel porto futuro. Un membro del governo keniota è venuto ad annunciarglielo. Senza diploma, diventare dipendente nella zona portuale sarà una cosa impossibile. «Qui, la scuola è stata aperta solo quattro anni fa», protesta Moussa Omar. E il carpentiere navale, affabile, prosegue: «Se tutti hanno la possibilità di lavorare, accettiamo questo progetto. Ma per il momento, a parte delle noie, non ci porta niente. Non ci sarà più nulla da pescare. Come faremo a vivere? Non otterremo alcun risarcimento da parte del governo, perché non abbiamo istruzione e, a suo avviso, non c’è motivo di ascoltare la nostra voce.» Il ministero competente riconosce tuttavia che la pesca rappresenta la principale fonte di reddito per il 70% dei centomila abitanti...

Silvester Kasuku, responsabile delle infrastrutture nel gabinetto del Primo ministro, quel giorno è in visita ufficiale al cantiere dell’isola di Manda. «Siamo fiduciosi: il porto aprirà nel 2016. Devo incontrare l’insieme delle parti interessate per informarle del progresso del cantiere e per discutere con loro. Tutti sostengono il progetto. La popolazione aspira allo sviluppo. La gente vuole strade, un porto, degli aeroporti. È impossibile ignorare ciò che desiderano.» Pochi minuti dopo il suo arrivo, sparisce assieme a quelli che lo accompagnano a bordo di fuoristrada, ancora più velocemente di quando era apparso.

REGIONI TRASCURATE DALL'INDIPENDENZA

Il suo discorso è assai lontano da ciò che provano gli abitanti dall'arcipelago, che hanno costituito un'associazione, Save Lamu, per difendere la partecipazione delle comunità alle decisioni che riguardano il Lapsset Corridor. «Complessivamente, la gente non è contraria al porto. Ma la nostra preoccupazione è la mancanza di consultazione, spiega Hussein Send Elmaawy, uno dei «saggi» di Save Lamu. Consultare, significa fare in modo che la popolazione si senta toccata dal progetto e se ne appropri. Nessuno anticipa l’impatto negativo sull’ambiente, la società, la problematica dei terreni, i posti di lavoro. Bisogna che la popolazione rientri nel protocollo di intesa con il governo. Non c’è alcuna ragione di parlare se niente viene scritto nero su bianco.»

Dato che Nairobi non prestava ascolto alle sue rivendicazioni, Save Lamu ha fatto ricorso alla giustizia per fermare la costruzione del porto. L’associazione ha depositato una denuncia per incostituzionalità. Essa accusa il governo di mancanza di consultazione e denuncia l’assenza di studio di impatto ambientale. Abubakar Mohamed El-Amudy, il suo presidente, si mostra intransigente: «Le comunità devono essere informate e consultate, come garantisce la Costituzione. La popolazione aumenterà bruscamente; con l’arrivo di altre comunità, la nostra cultura scomparirà definitivamente. Ad ogni modo, siamo sempre stati emarginati.» Parecchi abitanti della regione ritengono che il potere centrale, nelle mani dell’etnia maggioritaria kikuyu, li consideri cittadini di seconda categoria. Questa sensazione di ingiustizia si esprime in termini xenofobi (5). Non è raro sentir dire nell’arcipelago che «Lamu diventa una colonia kikuyu». Le tensioni comunitarie sono esacerbate e le velleità indipendentiste della zona costiera, incoraggiate da alcuni movimenti politici, assumono un certo rilievo.

Per la prima volta, la popolazione della costa poteva rallegrarsi dell’interesse manifestato dallo Stato centrale per lo sviluppo della regione. Hervé Maupeu, politologo e specialista del Kenya all’università di Pau e dei paesi dell’Adour, ci vede «una grande novità, dato che le tendenze di crescita ispirate da Vision 2030 si faranno nelle periferie. È contrario al Dna del Kenya indipendente». Infatti dal 1965, il governo ha scelto di concentrare le sue spese sulle zone a «forte potenziale» (6), il Kenya «utile», situato a più di millesettecento metri di altitudine. Ne è risultata l’esclusione politica e l’emarginazione economica delle comunità che vivono nelle regioni aride del Nord e nelle zone rurali.

LA META' DEL PAESE NON HA ALCUNA INFRASTRUTTURA

per françois gipouloux, ricercatore presso il Centro studi sulla Cina moderna e contemporanea, questo cambiamento era una necessità: «Le regioni costiere diventano nuovamente il perno dello spazio economico liberalizzato, sotto la forma di zone di cooperazione economica transnazionali che si basano sulla creazione di corridoi di sviluppo – in realtà commerciali – a vocazione internazionale (7).» Lo sviluppo dell’Africa dell’Est non sfugge alla dinamica della globalizzazione che tende ad aprire i mercati e facilitare il commercio attraverso la creazione di zone economiche speciali (Zes), sorta di zone franche dove i costi di investimento, di finanziamento, e di sfruttamento sono notevolmente ridotti con l’obiettivo di attirare gli investitori stranieri. In Kenya, la legge sulle Zes è entrata in vigore l’8 novembre 2012.

Dato che l’appello inviato agli investitori privati è in attesa, il governo ha finanziato da solo il lancio della prima fase dei lavori del porto per un importo di 234,6 milioni di euro. Il Kenya, l’Etiopia, e il Sudan del Sud hanno firmato nel 2012 un protocollo d’intesa: il Sudan del Sud finanzierà une parte dell’oleodotto, e l’Etiopia si è impegnata a partecipare alla costruzione della ferrovia. «Yes, we can! – se ne esce Kasuku, sperando che il famoso credo di Barack Obama imporrà il rispetto e metterà a tacere tutte le critiche. Perché aver paura di una crisi del debito (8) dovuta ai prestiti da fare per realizzare il Lapsset? La metà del paese non ha alcuna infrastruttura. Noi dobbiamo prima di tutto investire, e questo porterà soldi. In più, questi lavori non rappresentano solo debito pubblico, dato che facciamo appello al settore privato.»

Senza paura e senza biasimo, ma temendo un indebitamento pubblico troppo forte, il Tesoro ha preferito emettere obbligazioni ad alto rendimento (9) su cinque anni, di un valore globale di quasi 119 milioni di euro, per finanziare il Lapsset Corridor, secondo la Banca centrale. Il «Grande Corno d’Africa» vorrebbe diventare sinonimo d’abbondanza. I ritorni sugli investimenti vantati dalle istanze finanziarie della regione sono dei grossi incentivi per l’immaginario degli investitori dello «sviluppo» e la loro ingordigia speculativa. Malgrado ciò, nel 2011, su scala mondiale, l’Africa attirava ancora solo il 3,6% dei flussi d’investimento diretti all’estero (Ide).

Vista l’entità del progetto, il governo ha dispiegato tutto un arsenale per diversificare le fonti di finanziamento e più in particolare per attirare nuovi Ide. «Il Lapsset Corridor è la migliore occasione di tutto il continente africano, ripete ogniqualvolta ne ha l’opportunità Kasuku. Gli investitori dovranno aprire gli occhi e venire numerosi.» Per il porto e la strada, i fondi saranno pubblici; per l’oleodotto e la raffineria, privati; per il treno, pubblici e privati.

Per riparare la macchina da Ide, il Kenya utilizza un’altra leva, uscita direttamente dalla cassetta degli attrezzi del Fondo monetario internazionale (Fmi): il partenariato pubblico-privato (Ppp) (10). Lo Stato dirige, e gli attori privati si danno da fare per permettere la creazione delle infrastrutture e la fornitura delle prestazioni pubbliche (11), malgrado l’incompatibilità fra la ricerca di profitto del privato e la necessità di redistribuzione dello Stato. Tutto l’interesse per il privato sta nel fatto che i rischi imprenditoriali saranno assunti dallo Stato. «Perché il settore privato investa, occorre che lo Stato possa onorare i suoi impegni – afferma una persona vicina al dossier. Con l’esplosione del debito, lo Stato non può offrire queste garanzie. I Ppp non sono la strada giusta.»

Dopo un’ora e mezza di riunione, Kasuku sembra essere in ritardo sul programma della sua giornata. Il suo assistente gli depone un timbro «Confidenziale» sulla pila di posta che lo aspetta. Preoccupato, il segretario permanente dell’ufficio del Primo ministro si scusa per il contrattempo e confessa di essere stato costretto a essere presente alla discussione, in quanto «il Primo ministro riceveva la visita dell’ambasciatore cinese a Nairobi per discutere del Lapsset Corridor». L’imbarazzo lo interrompe prima che si corregga : «Era una visita diplomatica di cortesia...»

Nairobi mette infatti in atto una diplomazia economica incentrata sulla ricerca di nuovi potatori di interessi come i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, e Sudafrica), ma anche la Corea del Sud, il Qatar, Singapore, etc. La Cina, l’India, il Giappone, il Sudafrica, e la Corea del Sud sono stati le cinque fonti principali di Ide in Kenya nel corso degli ultimi cinque anni, superando così il Regno unito, la Francia, la Germania, e i Paesi bassi (12). La crisi economica ha segnato la fine di un mondo. E la nascita di un altro è confermata dall’emergere dell’Asia, meno colpita dalle recenti turbolenze. In più, le economie sviluppate pongono condizioni ai loro finanziamenti, esigendo riforme istituzionali. Questa volontà gioca a loro sfavore di fronte ai cinesi che non cercano necessariamente di rispondere ai bandi di gara, ma piuttosto di imporre le loro imprese attraverso contratti commerciali. «In Kenya, fra le élite c’è attualmente un rigetto dei tentativi d’influenza dell’Occidente, e ancor di più della Banca mondiale e dell'Fmi – constata Maupeu. Vogliono prendersi la loro autonomia, in particolare attraverso il loro rapporto con un’Asia che sta inventando nuovi valori, nuove visioni, nuovi modi di lavorare insieme.»

Con cognizione di causa, il presidente Kibaki ha lanciato nel 2005 la sua Look East Policy («Rotta verso est»). Nel corso dei primi sei mesi del 2012, secondo l’Autorità degli investimenti del Kenya, la Cina, il Sudafrica, l’India, e la Corea del Sud hanno investito nel paese un totale di 31,26 milioni di euro, con un contributo di 23 milioni solo per la Cina. Un comunicato della presidenza è arrivato a chiarire la nuova prospettiva delle relazioni diplomatiche che Nairobi voleva creare: «La politica estera del Kenya è guidata dalla volontà di fare evolvere le dinamiche geopolitiche. Questo implica una convergenza tra Est e Ovest sulle questioni mondiali in un ambiente in costante evoluzione.» Ma, alla fine, i contratti più importanti prendono tutti la via dell’Oriente.

«Il Kenya non guarda particolarmente verso est, modera Kasuku. Non è nostra intenzione. Ma quando si lancia un appello a tutto il mondo è sempre l'Asia a reagire più velocemente».

Mentre gli altri si stanno lamentando, loro arrivano e sono felici.» La partita sembra tuttavia assai impari. La Cina ha creato una forma di dipendenza dei paesi africani verso i suoi prestiti a costo ridotto per finanziare i progetti di infrastrutture. Problema: la crescita economica cinese, come quella dell’India, tende a rallentare. Nel suo ultimo rapporto sulle prospettive economiche mondiali, il Fmi mette in guardia il Kenya contro questa deriva che potrebbe essere pregiudizievole per le casse del paese. «Un rallentamento brusco della crescita cinese potrebbe avere effetti negativi a causa dei forti legami commerciali stabiliti con la Cina in questi ultimi anni, ma anche a causa del contributo della Cina al finanziamento tramite gli Ide (13).»

INVENZIONE DI UN PANAFRICANISMO LIBERALE

L'ex presidente del Kenya ha dunque tentato di incitare gli stati africani a ridurre il ricorso a prestiti esteri per ricostruire le loro oro infrastrutture. Ha elogiato l’integrazione regionale e affermato che i mercati del continente potrebbero offrire altre fonti di finanziamento. Ma questo volontarismo non dissipa la vaghezza del progetto di Lamu. Gli investitori, dal canto loro, attendono i risultati definitivi delle elezioni presidenziali del 4 marzo scorso.

Resta da vedere se il nuovo capo di Stato, Uhuru Kenyatta (50,07% dei suffragi espressi), proseguirà lo sforzo del suo predecessore, che aveva la pretesa di lasciare il segno sul suo paese quanto sulla sua epoca. La fine dello sviluppo differenziato, frazionato, è tutta la posta in gioco del Lapsset Corridor. Kibaki voleva ravvivare una nuova forma di panafricanismo che si sarebbe appoggiato sull’insieme di opinioni liberale dei finanziatori internazionali, liberandosi al tempo stesso dal giogo dell'Fmi. Modificare la politica sviluppista della Cina mettendola in concorrenza con altri paesi emergenti. Il suo successore proseguirà su questa strada? Niente è meno sicuro.

IL LAPSSET CORRIDOR IN CIFRE

Grazie ai suoi 32 moli e al suo canale d’accesso naturalmente largo e con una profondità di 18 metri, il porto di Lamu avrà la capacità di accogliere molte navi di grande tonnellaggio, dalla superpetroliera al post-Panamax. Esso ha per vocazione di gestire 23 milioni di tonnellate di merci l’anno. Vi sono associate altre infrastrutture. L’oleodotto lungo 2.250 chilometri, proveniente dal Sudan del Sud e con destinazione Lamu, dovrebbe avere ramificazioni verso l’Etiopia, l’Uganda, e la Repubblica democratica del Congo. Sul sito portuale, una raffineria petrolifera sarà in grado di lavorare 120.000 barili al giorno. Una linea ferroviaria costruita secondo gli standard internazionali deve collegare i porti di Lamu e Douala (Camerun), e una rete viaria a scorrimento veloce di 3.500 chilometri connetterà le capitali dell’Etiopia (Addis-Abeba), del Sudan del Sud (Juba), e del Kenya (Nairobi) al complesso portuale. Parallelamente, verrà installata una fibra ottica per garantire le comunicazioni. Il progetto comporta inoltre una parte turistica, con la costruzione di aeroporti internazionali e di stazioni balneari.

(Traduzione di O. San.)

NOTE

(1) Burundi, Kenya, Uganda, Ruanda, e Tanzania.
(2) United States International Trade Commission (Usitc), investigation no332-530, publication no 4335, luglio 2012.
(3) Nel 2009, da Mombasa, bisognava contare 0,04 dollari per un trasporto in Kenya, 0,085 dollari per l’Uganda, 0,09 dollari per il Ruanda, e 0,11 dollari per il Burundi. «Transport prices and costs in Africa», Banca interna- zionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Birs), Banca mondiale, 2009.
(4) www.theafricareport.com, giugno 2012.
(5) Cfr. Claire Médard, «Quelques clés pour démêler la crise kényane: spoliation, autochtonie et privatisation fon- cière», 14 gennaio 2010, www.cetri.be
(6) «African socialism and its application to planning in Ken- ya», Sessional Paper, no 10, Nairobi, 1965.
(7) François Gipouloux, La Méditerranée asiatique. Villes portuaires et réseaux marchands en Chine, au Japon et en Asie du Sud-Est, XVIe-XXIe siècle, CNRS Editions, Parigi, 2009.
(8) Nel 2011, il debito pubblico del Kenya era stimato al 50,7% del Pil, e il debito estero in oltre 7 miliardi di euro (Fonte: CIA-The World Factbook, www.cia.gov).
(9) Chiamati anche «obbligazioni d’infrastruttura», questi prodotti finanziari sono come titoli di Stato a tasso ga- rantito, in quanto non soggetti alle fluttuazioni del mer- cato.
(10) Cfr. Faranak Miraftab, «Public-private partnerships : The Trojan horse of neoliberal development ?», Journal of Planning Education and Research, Università di Cin- cinnati, settembre 2004.
(11) Cfr. David Osborne e Ted Gaebler, Reinventing Gov- ernment: How the Entrepreneurial Spirit Is Transforming the Public Sector, Plume, New York, 1993.
(12) Fonti: Autorità degli investimenti del Kenya (Kia) e Uffi- cio nazionale di statistica del Kenya (Knbs).
(13) World Economic Outlook, Fmi, ottobre 2012.

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