la Repubblica,
26 ottobre 2017 «Benvenuti al gran luna park delle mostre inutili.Un saggio di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione attacca il sistema delle esposizioni blockbuster
» (c.m.c.)
Vincenzo Trione e Tomaso Montanari, Contro le mostre, Einaudi.
Due piccoli scandali hanno agitato quest’anno il mondo delle mostre e dei musei: il primo è accaduto al Palazzo Ducale di Genova, dove la magistratura ha sequestrato alcuni quadri di Modigliani sospettati di essere dei falsi. Il secondo è il gigantesco palco costruito sui Fori romani (è ancora lì che svetta tra le rovine), per ospitare il più sciagurato dei musical, dedicato – guarda
l’originalità – a Nerone, e diventato il più colossale dei flop. Eppure bisogna ringraziare, evangelicamente, questi scandali: perché sono campanelli d’allarme dai quali dovremmo trarre, se ne fossimo capaci, qualche insegnamento. Non sono infatti semplici incidenti di percorso, ma le conseguenze di un modello, di un’ideologia che da qualche anno si è impossessata dell’art system di casa nostra.
E anche se di questi due casi non parla specificamente, il breve e polemico saggio scritto per Einaudi da Vincenzo Trione e Tomaso Montanari (un capitolo a testa, introduzione e conclusioni a quattro mani), descrive bene la malattia che attraversa il mondo dell’arte. Già il titolo è provocatorio: Contro le mostre. E lo è tanto più considerato che uno dei due autori, Trione, ha curato molte mostre in luoghi istituzionali, tra cui anche il Padiglione Italia alla Biennale di due anni fa. È un j’accuse che viene dall’interno del sistema e invita a non lasciarsi abbagliare dai grandi numeri del consumo culturale, dalla gara a chi espone di più, dall’incremento dei biglietti staccati nei musei e nei siti archeologici.
Troppe mostre sono sciatte, abborracciate, allestite in luoghi inappropriati. E soprattutto: inutili. Non aggiungono niente alla conoscenza dell’artista esposto. Puro spettacolo. La cultura si trasforma così in show business e quindi, come succede con il cinema, ha bisogno di divi: ci sono nomi in grado di attrarre grande pubblico, capaci di creare eventi blockbuster. Caravaggio, Leonardo, Van Gogh, Dalí, Picasso, sono – ad esempio – nella hit parade di questa Hollywood artistica. I poveri Correggio e Beato Angelico molto meno.
Sia chiaro che il lamento ha origini antiche. Cesare Brandi e Federico Zeri, già nel secolo scorso, scagliavano i loro strali contro l’eccessiva proliferazione di “queste bolle di sapone che lasciano dietro di sé praticamente il nulla”. Ed è un capitolo della lunga, infinita, polemica tra alto e basso, tra cultura pop e cultura d’élite, tra apocalittici e integrati. E però negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Sono cambiati numeri, soldi, profitti: l’arte è diventata sempre più un bene di consumo di massa, sono entrate in scena società private che investono e vogliono guadagnare, ad esse la mano pubblica appalta spesso tutto, anche la garanzia scientifica dell’esposizione. I risultati? Gli autori hanno gioco facile a prendersela con mostre come Tutankhamon, Caravaggio Van Gogh, la sera e i notturni dagli egizi al Novecento, che tre anni fa attirò grandi folle a Vicenza: basta il titolo per capire che era un clamoroso esempio di supermarket estetico, una specie di scaffale postmoderno dove esporre di tutto un po’. Ma ci sono anche mostre riconosciute come molto belle. Il punto però – per i nostri autori – è il metodo: se accogli esposizioni chiavi in mano, senza nessuna autorità culturale riconosciuta che pensi e guidi i progetti non puoi avere nessuna certezza sul risultato. Sei consegnato al caso. Per questo il sistema può produrre anche lo “scandalo Modigliani”. C’è una tendenza in atto, un cambio di passo, che trasforma sempre di più la produzione culturale in industria, anzi in business, con buona pace di Tremonti (quello che “con la cultura non si mangia”). Si mangia eccome, invece, ma potrebbe non essere un buon pasto. Montanari e Trione mettono la riforma Franceschini sul banco degli imputati, per aver diviso i musei in serie a e serie b, aver deciso di puntare tutto sui primi, e scommettere sulla loro “valorizzazione”. Parola che è vista come il fumo negli occhi. Perché nasconde non la tutela, ma “la messa a reddito del nostro patrimonio artistico”. “Messa a reddito” che può spiegare lo scempio del palco che si af- faccia sull’anfiteatro Flavio. La malattia riguarda anche l’arte contemporanea. Trione dedica pagine caustiche ai suoi vizi e alle mode delle varie Biennali del mondo che offrono spesso opere incomprensibili, ma capaci di muovere grandi capitali. Fanno l’operazione opposta e contraria a quelle delle mostre pop. Le prime si affidano a nomi sicuri, brand di successo e ad opere “facili”. Le seconde riescono a rendere di massa un culto esoterico le cui regole sono stabilite da pochi eletti: tanto che la Biennale di Venezia quest’anno sia stracciando tutti i primati. Viaggia alla media di oltre 25mila visitatori a settimana, superando tutti i concorrenti.
L’arte sta diventando, più che un campo di conoscenza, un totem sociale, un motore di mode e di eventi. E ha dato luogo a quella strana forma di show che potremmo chiamare arteinment: le grandi mostre digitali senza neanche un quadro ne sono la prova più evidente. D’altronde non siamo nella società dello spettacolo? Non siamo diventati, come sostiene Roberto Calasso nel suo ultimo libro, tutti, inevitabilmente, dei turisti, anche nostro malgrado? Se questa è la deriva, rimediare è difficile.
Certo, l’alternativa ai blockbuster, ai cinepanettoni dell’arte, non può essere – per restare alla metafora filmica – quella di una rete di raffinate mostre d’essai. Montanari prova a tracciare un decalogo per il buon curatore: le mostre devono servire alla ricerca, devono essere necessarie (”cioè non sostituibili con un libro o un articolo”) , devono offrire una nuova lettura delle opere e dell’artista, e via così. Sono tavole della legge assai rigide: solo un’esposizione su dieci supererebbe l’esame del nostro autore che, si sa, indulge alla severità. Chissà se – per fare un esempio – la mostra su Picasso allestita alle Scuderie del Quirinale, a Roma, otterrebbe la promozione. Offre opere magnifiche e una ricca sezione che documenta il viaggio in Italia, ma certo non dice niente di nuovo sull’artista più celebrato del secolo scorso: e d’altronde chi potrebbe ormai? Quindi forse non è scientificamente necessaria. Eppure quando vedi quei ragazzi in fila, pronti a pagare 15 euro (il doppio di un film) per passare una domenica pomeriggio con Picasso, pensi che invece sì, per loro è necessaria.