Il manifesto, 18 dicembre 2015
Opaco, maneggevole, smontabile come nei film di spie hollywoodiani, il fucile di precisione BushmasterX152S, è pubblicizzato in America, dov’è prodotto, come «l’arma perfetta per un killer». Nei video di propaganda più recenti è esibito anche dai guerrieri del Califfato come un gioiello crudele o il regalo di un Babbo Natale nero.
Molte altre armi nuove, luccicanti, non vecchi ferri in dotazione all’esercito iracheno, arrivano all’Isis da paesi impegnati a combatterne l’avanzata, almeno ufficialmente: missili anticarro Milan prodotti in Belgio o in Francia, mortai turchi, fucili tedeschi, batterie anti-aeree statunitensi, tank russi, pick-up d’assalto coreani. È ciò che documenta il rapporto pubblicato tre giorni fa da uno dei più importanti centri di ricerca internazionali sui traffici di armi e munizioni: «Taking stock, the arming of Is», prodotto dall’Armament Research Services con Amnesty international, che cerca di ricostruire gli approvvigionamenti di armamenti, leggeri e pesanti, in dotazione ai tagliagole del Califfato.
E girano per l’Europa denunce specifiche contro governi, come quello inglese, accusati di aver autorizzato la vendita di sofisticati fucili da cecchino, con binocolo ottico all’avanguardia, all’Arabia Saudita che — è dimostrato — sono stati usati per reprimere nel sangue manifestazioni civili durante le primavere arabe in Yemen.
Sfavillanti fucili sniper sono serviti allo stesso brutale scopo, nel Bahrein, ed erano di fabbricazione italiana, modello Beretta, anche se prodotti dalla consorziata finlandese Sako. E dopo la denuncia di Amnesty sono stati interdetti dal governo della Finlandia.
Le ong indipendenti, insomma, stanno dando battaglia sulla tradizionale oscurità che ammanta i traffici delle industrie armiere, tanto che la questione è approdata a Strasburgo, dove ieri in seduta plenaria il Parlamento europeo ha approvato un codice di regolamentazione in otto punti per migliorare la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti convenzionali e tecnologia militare dall’Ue verso paesi terzi.
Stante il pilastro che la gestione di questo tipo di commercio è — e resta, come da trattati — appannaggio degli stati nazionali, gli eurodeputati hanno convenuto che in una mutata situazione geopolitica, sempre meno stabile, soprattutto per quanto concerne i paesi confinanti e vicini, specialmente mediorientali, l’export incontrollato di armamenti potrebbe mettere a rischio la sicurezza dei cittadini europei, oltre a non corrispondere al rispetto dei diritti umani.
Pertanto la risoluzione – approvata con 249 sì, 164 no e 128 astenuti – pur non essendo vincolante e non prevedendo sanzioni per chi non vi ottempera, invita caldamente gli stati membri a rendere maggiormente trasparenti le licenze alla vendita di armi, ribadisce gli standard minimi di limitazione approvati in sede Onu, e arriva ad ipotizzare una autorità garante o quanto menouna relazione annuale sulle esportazioni di armi da parte delle autorità dell’Unione, che — piccolo particolare — si conferma il primo esportatore al mondo di prodotti per la guerra, dagli elmetti con visore termico agli stabilizzatori di mira e quant’altro.
L’Italia non è affatto in fondo alla lista come al solito.
Anzi, primeggia in questo caso (come si vede dal grafico a torta dell’ultimo rapporto dello Stockholm institute of peace research, altro importante centro di ricerca) con un 3% dell’intero volume di affari del settore nel 2014 (26 miliardi solo verso paesi terzi), percentuale quasi doppia rispetto della Germania.
E con l’industria di Stato — Finmeccanica, 64% delle autorizzazioni italiane — salda nella top ten delle corporation armiere.
Anche se nel 2014 sono i produttori emergenti a guadagnare di più in un mercato abbastanza statico: Turchia, Brasile, Corea, India. La Turchia con le nuove aziende Tai e Aselan, dice il rapporto Sipri, oltre l’autosufficienza ha una «esportazione particolarmente aggressiva».
Anche l’Onu sta cercando di vincolare maggiormente il commercio di armi e una decina di giorni fa il trattato Att, di cui l’Italia figura tra i proponenti, ottenendo oltre 50 firme, è diventato giuridicamente vincolante.
L’Att imporrebbe parametri di riferimento per valutare le autorizzazioni all’esportazione: dagli embargo, al rispetto della convenzione di Ginevra e all’esclusione dei paesi destinatari coinvolti in conflitti, al rispetto dei trattati sulle mine anti-uomo. Finora l’Att è stato approvato da 157 paesi con 26 astenuti (tra cui Iran, India, Egitto, Russia, Siria e paesi del Golfo).
Washington l’ha firmato ma non ratificato