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Vezio De Lucia
Architettura. Sta vincendo Mussolini?
14 Aprile 2008
Recensioni e segnalazioni
Recensione di un saggio di Paolo Nicoloso "la passione per la monumentalità del regime, e il fascino che di nuovo esercita". Liberazione, 10 aprile 2008

“Nella prima metà del Novecento nessuno Stato ha investito politicamente nell’architettura pubblica come l’Italia fascista. Nel corso degli anni Venti, ma soprattutto durante gli anni Trenta, la produzione architettonica italiana è stata enorme, tale da superare ampiamente quella di molte altre nazioni. Centinaia e centinaia di architetture – case del fascio, scuole, palazzi del governo, uffici postali, ministeri, palazzi di giustizia, stazioni ferroviarie, case dell’Opera nazionale balilla, palazzi della provincia, piscine, sedi di enti parastatali, città nuove e sistemazioni urbanistiche di vecchi centri – vengono realizzate per imprimere ovunque nel paese il marchio del regime”. Comincia così il libro di Paolo Nicoloso su Mussolini architetto. Un bel libro, scritto bene, ben documentato e illustrato. Soprattutto, voglio dirlo subito e ci torno in conclusione, è immune da ogni tentazione revisionista. Nicoloso, a differenza di altri ricercatori, non è incantato dalle sirene di una irripetibile stagione per l’architettura italiana, con ciò legittimando l’indulgenza sul resto.

Il libro racconta in maniera convincente la storia complicata dei rapporti fra il duce, l’architettura e gli architetti del regime, avendo intuito che l’architettura può svolgere un ruolo essenziale nella costruzione dell’Italia fascista. Viaggia instancabilmente: negli anni dal 1929 al 1939, quando più forte è il consenso, visita tutte le regioni, 70 capoluoghi di provincia su 89, in totale 320 località. In ogni città e paese pone una prima pietra, inaugura un edificio, visita un cantiere, controlla la realizzazione di un’opera. Su tutto ciò che viene costruito ci sono sempre con evidenza le insegne del fascio, e con il monopolio dei mezzi d’informazione e con un’efficacissima macchina di propaganda, si alimenta il mito del grande costruttore. Tramite l’architettura, il dittatore comunica con le masse, ne fa un simbolo unificante, fatto per durare, per tramandare ai posteri il tempo del fascismo. Nicoloso si stupisce, giustamente, che Renzo De Felice, il massimo storico del duce, abbia del tutto trascurato l’importanza che l’architettura ebbe nella sua politica, tant’è che la parola architettura non viene mai citata nelle circa 4 mila pagine a lui dedicate.

I contatti con gli architetti furono frequentissimi, almeno 50 ricevuti a palazzo Venezia, centinaia incontrati in altre occasioni. Ci sono tutti, razionalisti, manieristi e reazionari, da Adalberto Libera ad Arnaldo Foschini, da Luigi Piccinato ad Alberto Samonà, da Giuseppe Terragni a Gio Ponti, da Armando Brasini a Ignazio Gardella, da Giuseppe Pagano a Luigi Moretti. Ma l’interlocutore principale resta Marcello Piacentini, che pensava di essere per Mussolini ciò che Albert Speer era per Adolf Hitler. La figura di Piacentini, Nicoloso la descrive con sobria spietatezza: “Tragica, ingloriosa e a tutti nota, è la storia di Mussolini, catturato dai partigiani mentre travestito da soldato tedesco cerca di raggiungere il confine svizzero, fucilato e appeso a testa in giù in un distributore di piazzale Loreto a Milano. Se il dittatore cade, Piacentini resta e naviga, in buona compagnia, verso altri lidi, rimanendo però identificato come l’«architetto del regime». Nel dopoguerra, continuerà a lavorare anche ad alcune opere che egli aveva iniziato sotto il fascismo e che vengono completate dallo Stato repubblicano, prime fra tutte via Conciliazione e l’E42”.

Com’è ovvio, al centro dell’interesse di Mussolini per l’architettura c’è Roma, ed è a proposito delle nuove opere per Roma che si sviluppano le discussioni sul linguaggio architettonico e sulla preferenza del duce inizialmente per l’architettura moderna e poi, a mano a mano, e non senza brusche sterzate, per quella classica, tradizionalista, e infine, per uno stile propriamente fascista, in grado di richiamarsi al glorioso passato della Roma imperiale, ma al tempo stesso, “espressione autentica della modernità”. L’E42 dovrebbe essere l’occasione per concretizzare l’obiettivo stilistico, e intorno a queste discussioni si consuma la rottura con Terragni, con Pagano e inizia la crisi con Giuseppe Bottai.

Prima di concludere, mi permetto solo un’osservazione. Il libro di Nicoloso si occupa di architettura, inquadra correttamente le questioni dell’architettura nelle vicende politiche e culturali del ventennio, ma trascura del tutto l’urbanistica, la legge del 1942, il paesaggio oggetto della legge del 1939. Mussolini urbanista, un testo fondamentale di Antonio Cederna (l’anno scorso ristampato da La corte del fontego), è appena citato. Il piano regolatore del 1941 è frequentemente menzionato come lo strumento con il quale si sistemavano compiutamente le idee di Mussolini per la Roma del dopoguerra (da piazza Venezia all’E42, al Lido), ma non si ricorda che per l’attuazione di quel piano era previsto l’esproprio preventivo e generalizzato di tutti i 12 mila ettari appositamente perimetrati, a cavallo della via Imperiale, dov’era prevista l’espansione di Roma verso il mare. Piero Della Seta e Roberto Della Seta in un testo fondamentale (I suoli di Roma, Editori riuniti, 1988) hanno analizzato approfonditamente la politica fondiaria del fascismo, smentendo le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica fascista e quella dei governi democristiani, arrivando a concludere che “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. L’emancipazione dagli interessi speculativi è stata evidentemente una condizione essenziale per consentire all’architettura di svolgere al meglio quella funzione rappresentativa e simbolica che Mussolini le attribuiva.

Ho cominciato citando le prime righe, concludo riportando quasi per intero l’ultima pagina del libro, dove Nicoloso amaramente registra una sorta di rivincita del fascismo, a partire proprio dall’architettura. È in sostanza la presa d’atto di una più generale crisi della cultura e della politica (a cominciare, secondo me, dalla sinistra) che non hanno saputo fornire all’opinione pubblica italiana, e ai giovani soprattutto, un’alternativa efficace alla «fascinazione» fascista. “Le ataviche e mai sopite pulsioni degli italiani a coltivare – scrive Nicoloso – sempre e su tutto, i propri interessi «particulari» e a mostrare disinteresse verso ciò che rappresenta il bene comune sono tra le ragioni profonde di uno strisciante deficit di democrazia che debilita il paese. L’architettura del passato, con la sua funzione simbolica, può funzionare da antidoto contro questo processo di disgregazione identitaria. Ma è possibile rafforzare la sensibilità comunitaria, e fare così fronte a queste spinte centrifughe, andando ad attingere la memoria da un patrimonio architettonico contaminato, tutt’altro che espressione di una civiltà superiore? È possibile, in altre parole, curare un paese in crisi di democrazia, identificando figurativamente la propria memoria storica in edifici, simboli di una dittatura che educava e praticava un profondo odio antidemocratico?”. E così conclude: “dopo un periodo di silenzio, quell’architettura monumentale ha ripreso a svolgere la sua funzione più intima, di azione demagogica sulle masse. Molti italiani tornano a subire una rinnovata fascinazione per le città e i palazzi «costruiti dal duce», che li introduce verso un giudizio tendenzialmente assolutorio nei confronti di un passato, in parte defascistizzato. Di nuovo l’«arcana potenza» di quest’arte ritorna a produrre suggestioni collettive. Alla fine, il disegno di Mussolini, di parlare ai posteri del fascismo attraverso l’architettura, appare dunque vincente”.

Il disegno di Mussolini è vincente anche nelle istituzioni repubblicane, e in anni recentissimi. Nel 2001, la via dei Fori imperiali, realizzata grazie al più inaudito sventramento degli anni Trenta (da Nicoloso ricordato solo sommariamente), è stata sottoposta a vincolo monumentale con la motivazione, tra l’altro, che quella sistemazione è “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente […] raggiunto”.

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