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Architettura e potere
12 Maggio 2008
Roma
La funzione dell'architettura fra storia passata e usi e abusi recenti nei due articoli di Ceccarelli e La Cecla su la Repubblica, 11 maggio 2008 (m.p.g.)

Sua maestà il piccone

Filippo Ceccarelli

Ah, la tentazione ricorrente del piccone! Metaforico, quando stava per crollare la Prima Repubblica, quello impugnato dall´allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Ben reale, una quindicina di anni dopo, quello evocato dal novello sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che per un paio di giorni, appena eletto, ha lasciato credere di voler rimuovere la grande teca o la scatolona di travertino, se si preferisce, entro cui l'architetto newyorchese Meier ha racchiuso l'Ara Pacis. «Intervento invasivo da rimuovere»: questa la formula.

Poi è anche vero che Alemanno ci ha ripensato, relegando il proposito nell'elenco, invero senza fine, delle «non priorità». Eppure quel riflesso distruttivo è bastato ad accendere l'immaginario. È ricomparso il fatidico strumento, manico di legno, ferro compatto, robuste braccia a vibrare i colpi, rumore sordo e tutto intorno nuvole di polvere e calcinacci. Era un po' che non accadeva.

Nel merito, la prospettiva demolitoria sarebbe da considerarsi anche a livello di ipotesi del tutto ansiogena, l'ultimo atto di una «disgraziata saga», come a suo tempo l'ha inquadrata Arbasino, «un pasticcio di patate bollenti» in cui da tempo l'architettura e il potere si confrontano con risultati pessimi per entrambi.

Si pensi che appena tre anni e mezzo impiegarono gli antichi romani a scolpire quei marmi in onore dell´imperatore Ottaviano Augusto; mentre più di dieci anni ci sono voluti, dopo due millenni, per smantellare la vecchia teca-acquario del Morpurgo, frettolosamente allestita nel 1938, e costruire l'odierna e controversa vetrinona.

Un decennio segnato da sventure e litigi, il traffico rallentatissimo sul lungotevere, lo sciopero della fame di Sgarbi, il rogo solenne di un plastico, e disfide, capricci, vendette anche trasversali fra «archistar», messa in pista di commissioni consultive e correttive, pronunciamenti plurimi, da Italia Nostra alla Corte dei Conti, avvertimenti delle sovrintendenze e comizi di An con tanto di attivisti mascherati da centurioni; senza contare le fantastiche visite al cantiere dello stesso Meier, distratto, sudato e giulivo come in un film di Fellini, «Very nice, very nice».

Ecco insomma in quale contesto si colloca l'eventuale ri-picconamento del manufatto - che Iddio lo risparmi alla capitale e alla sua già provata cittadinanza. E magari l'enigmatica collocazione della teca in una non meglio precisata periferia. Eppure, come ti sbagli, a ogni cambio di equilibri politici lo spirito devastatore e il culto del piccone e della palla d'acciaio tornano a colorare la vita pubblica. Così come è sicuro - l'una cosa tira l'altra - che il nuovo potere prima o poi cercherà anch'esso di celebrarsi a suon di monumentali celebrazioni, come del resto succede in tutto il mondo. Vedi i risoluti progetti urbanistici del neo eletto sindaco di Londra, Boris Johnson; come pure la vicenda dei grattacieli milanesi di CityLife, le tre torri sghembe e pendule di Libeskind a proposito delle quali il presidente Berlusconi, contrarissimo come Celentano, si è concesso un'ardita valutazione fallico-urbanistica, com'è ovvio a maggior gloria del suo potere, anche sessuale.

Ma a Roma tutto diventa più complicato e al tempo stesso addirittura illuminante. Così conviene notare un che d'imperioso nel modo in cui Alemanno ha posto la questione di «liberare» il centro storico della capitale da tutti gli altri «sfregi» immaginati, pianificati o già procurati dalle amministrazioni di sinistra. Con il che si andrebbe dalla rimozione dei tubi Innocenti sul Colosseo al rifiuto di procedere con il maxi-parcheggio del Pincio, dall'idea di lasciare i sanpietrini di via Nazionale al riadattamento dell'originale statua di Marco Aurelio sul Campidoglio, a parte gli interventi di più specifica e detonante ispirazione sgarbiana tipo «bombardare» gli ascensori del Vittoriano o richiedere all'Etiopia la stele di Axum. Scherzava l'altro giorno l'architetto Fuksas: «Chissà che Alemanno non decida di ripristinare anche la Spina di Borgo, sciaguratamente distrutta nel ventennio», per far posto a via della Conciliazione sgombrando la vista di piazza San Pietro.

Ma è uno scherzo, questo di Fuksas, più che paradossale, nel senso che solo a Roma, forse, il piccone della destra potrebbe abbattersi proprio là dove a suo tempo si era levato quello del regime fascista. A riprova di come qui e solo qui il potere sia obbligato, condannato o forse abbia la più spontanea, vitale e inesorabile compulsione di tornare sul luogo del delitto.

E non si irriti né si dispiaccia Alemanno, ma è sempre e ancora a lui che si torna: alla Buonanima. C'è una quantità di filmati e fotografie che illustrano Mussolini, in borghese come in divisa da generale della Milizia, che con quell'utensile in mano assesta dei colpi pazzeschi. Per strada, sui terrazzi, da solo o contornato di gerarchi, comunque davanti a obiettivi e cineprese il duce buttava giù muri alle pendici del Campidoglio, tra le casupole di Borgo, attorno all'odierna via dei Fori Imperiali, di qua e di là del Tevere, inaugurando quegli sventramenti che modificarono a fondo l'assetto della capitale - e anche offrirono potenti e malinconici paesaggi alla mirabile serie di Demolizioni, appunto, eseguite praticamente dal vivo da Mario Mafai.

Si deve a Mussolini, che del giornalista di vaglia aveva tutto l'estro rapido e creativo, il successo non solo semantico della formula picconatoria. Teorizzata in Senato il 18 marzo del 1932, alla presentazione del Piano regolatore di Roma: «Un conto, o signori, sono i monumenti, un conto sono i ruderi, un conto è il pittoresco o il cosiddetto colore locale. Quest'ultimo, il pittoresco sudicio è affidato - e qui il duce assestò la zampata semantica: - a sua maestà il piccone». Tutto era destinato sotto la sua poderosa spinta a crollare, «e deve crollare - secondo il programma mussoliniano - in nome della decenza, dell´igiene e, se volete, anche della bellezza della capitale».

E si aprì l'era del «piccone risanatore». Per Mussolini attrezzo-simbolo di un attivismo frenetico che Roma e la sua architettura passata e futura - lo spiega molto bene Emilio Gentile nel suo recente Fascismo di pietra (Laterza) - finiva per considerare come arsenale di miti, deposito di destini imperiali, ma anche bersaglio di risentimenti che il duce nutriva fin dalla giovinezza nei confronti della città eterna.

Il modo in cui la polverizzazione di interi quartieri veniva allora presentata colpisce per i toni che a prescindere dalla limpida prosa e dal ritmo che vi imprime Ugo Ojetti in Cose viste, un pochino francamente ricordano l'accentuata personalizzazione di certe odierne cronache. E dunque: «È in atto la volontà di Benito Mussolini. Archeologi, architetti, soprastanti, manovali lavorano, si può dire, per lui, aspettano la visita sua, il consenso suo, quel sorriso che comincia in un lampo degli occhi, e talvolta si ferma lì. Tanto che sera per sera, ora per ora, egli è informato d'ogni ritrovamento e d'ogni nuovo problema; che anzi dalla sua finestra di Palazzo Venezia s'affaccia spesso a osservare le squadre che lavorano al Foro Traiano e se gli sembra che siano più rade e più lente, dopo un attimo un suo messo piomba lì a svegliare i dormienti».

Ora, limitando al minimo i paragoni: è possibile che il duce detestasse una certa Roma, molle e pantofolaia, assai più di quanto Alemanno e i suoi ce l'abbiano con le terrazze, le mostre, i loft, il red carpet di Veltroni o le feste di compleanno di Bettini. Ma certo colpisce come, fra tanti luoghi di questa città d'infinita storia, il nuovo sindaco sia andato ad evocare il piccone proprio là dove il fascismo s'era ben esercitato per impiantare la sua effimera mitologia.

Potere e magia delle coincidenze. Dietro l'Ara Pacis, tra cipressi polverosi, circondato da ingombranti e marmorei palazzoni di stile razionalista, insieme a una nutrita colonia di gatti riposa il Mausoleo di Augusto, già Auditorium dell'Urbe. Mussolini era assai superstizioso, e quindi non si diceva, ma il progetto era di fare di quel monumento circolare l'ultima sua dimora, la tomba più grandiosa e anche megalomane che si potesse immaginare.

Poi si sa com'è andata a finire - anche se a Roma non finisce nulla. Alle spalle della teca di Meier continua ad aggirarsi il fantasma quasi gemello di Cola di Rienzo, il cui cadavere venne bruciato proprio da quelle parti.

Sono le glorie e le magagne, le suggestioni, le tigne e i ribaltamenti della città eterna. Pare superfluo ricordare, a questo punto, che non c'è piccone che possa resisterle.

La lunga marcia dell'archistar dal committente-re al consenso

Franco La Cecla

Cosa distingue una buona architettura da una cattiva, un contributo prezioso allo spazio pubblico di una città da un intruso con pretese monumentali? È difficile dirlo in generale. Si cita il caso della Tour Eiffel, aborrita alla sua costruzione dai parigini, ma poi divenuta simbolo collettivo, un po' quello che è successo con il Centre Pompidou molti anni dopo. Chi cita questi casi lo fa per difendere l'arbitrarietà dell'architettura, l´essere in fin dei conti solo una questione di conflitto tra il genio dell´artista e la poca lungimiranza delle masse. I due casi però raccontano il contrario, e cioè che soltanto quelle opere che i cittadini riescono ad assimilare nel proprio mondo conscio e inconscio, a cui riescono ad attribuire un forte significato condiviso, hanno fortuna. L'idea che il genio architettonico debba sempre essere in conflitto con il sentire comune è una idea recente e piuttosto balzana.

Risente della crisi generale dell'arte e dell'architettura che a più riprese ha segnato gli ultimi cento e più anni. Prima di allora gli artisti e gli architetti sapevano bene di avere un controllo ben preciso da parte dei committenti, fossero essi regnanti, dittatori, principi o ricchi capitalisti americani. Nel periodo tra le due guerre gli architetti e gli artisti si sono sentiti impegnati come avanguardie della società, al servizio del cambiamento e della modernizzazione. Come tali spesso erano più al servizio di ideologie che al servizio dei cittadini. Quando le ideologie sono finite, negli ultimi decenni del Novecento, gli architetti hanno seguito gli artisti nel distacco dalla realtà sociale, nell'idea di essere non più avanguardia, ma semplicemente genio sregolato, e allo stesso tempo trend-seekers, cioè non professionisti al servizio della società, ma élite mediatica, produttori di quella cosa di cui oggi è fatto il grande mercato della moda e delle tendenze.

Il problema è che le opere degli architetti non rimangono chiuse nelle gallerie e nei musei, ma diventano luoghi, parte del contesto che crea il paesaggio quotidiano dei cittadini. E i cittadini giudicano, condannano o (a volte) accettano le architetture che vengono loro imposte da solerti amministratori in cerca di glamour mediatico. Le archistar, per quanto continuino a fare finta di essere artisti ingiudicabili (mai dire loro che al massimo sono stilisti di moda, ma questi sono più umili, più attenti allo streetstyle), devono accettare che è il pubblico che usa, fa e consuma una città ad essere il primo giudice.

Gli amministratori, i politici spesso sono complici di questo atteggiamento. Allora, se un sindaco vuole smontare una architettura lo faccia, ma stia attento che a Roma ci sono molti altri monumenti che la gente ancora non sopporta. Vorrà egli smontare anche la macchina da scrivere nazionale, alias l'Altare della Patria? E è davvero affar suo o non sarebbe il caso che almeno lui che è un eletto dal popolo, ascolti i suoi cittadini?

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