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Alberto Burgio
Apprendisti stregoni della governabilità
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Paralisi dei parlamenti per rafforzare il potere esecutivo. Nel baragrafo "Un nuovo americanismo" descritto uno dei capisaldi del neoliberismo. Il manifesto del 1 giugno 2007

Il primo atto ha visto la collisione tra il presidente del Consiglio Romano Prodi e il presidente della Camera Fausto Bertinotti, un botta e risposta di inusitata asprezza. «Il parlamento è improduttivo». « È un giudizio che rivela scarsa dimestichezza con le aule parlamentari». Il secondo atto ha avuto luogo sulle pagine del Corriere della sera, con una pesante, pesantissima intervista al vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D'Alema. Tema: la «crisi di credibilità della politica» che rischia di «travolgere il Paese» come già accadde all'inizio degli anni Novanta. Svolgimento: critiche sferzanti al sindacato e invocazione di drastici mutamenti istituzionali e costituzionali, a cominciare da una riforma elettorale che riduca il «potere di ricatto delle forze minori» e accresca il potere dell'esecutivo imprimendo al sistema una decisa svolta presidenzialistica.

Così nelle scorse settimane è andata in scena la formale messa all'ordine del giorno della questione delle questioni. Ormai è ufficiale: la «politica» è in crisi, il paese reale non si riconosce più nel paese legale. Sebbene nessuno lo dica a chiare lettere, molti sembrano paventarlo: sullo sfondo torna ad agitarsi lo spettro della repubblica di Weimar.

Non è cosa da poco, comunque la si pensi. Quello della crisi istituzionale è un argomento pericoloso, soprattutto quando approda alle pagine dei grandi quotidiani. Allora, indipendentemente dalla fondatezza degli allarmi e delle interpretazioni, diviene un problema serio, specie in un paese nel quale le istituzioni democratiche non vantano una storia secolare e non godono di indiscusso prestigio. Ma l'allarme di per sé non basta. Se non si accompagna a un'analisi corretta delle cause, può persino portare al peggio. Risposte sbagliate potrebbero generare effetti controproducenti e aggravare il male che si vorrebbe guarire.

Razza padrona

La «politica» è sotto un attacco concentrico nel quale si mescolano due differenti imputazioni. Le si rinfacciano privilegi e costi spropositati. E le si imputa di non sapere risolvere i problemi della società.

Sui costi e i privilegi c'è poco da dire, se non che è un problema vero, come hanno ben documentato Cesare Salvi e Massimo Villone. La loro denuncia è stata accantonata con fastidio dagli addetti ai lavori, che ora probabilmente se ne dolgono, spaventati dalla collera popolare. Non è decisivo se sia collera spontanea o il frutto di campagne orchestrate. Conta che, agli occhi di quanti incontrano ogni sorta di ostacoli nel far valere i propri diritti, l'ansia, le difficoltà, le frustrazioni hanno una causa molto semplice: l'incapacità della «politica». Dietro la quale si intravede subito dell'altro: il privilegio, tanto più odioso; la corruzione; l'indifferenza di chi dovrebbe rispondere a una società dolente e sembra invece badare soltanto a rendite e poteri.

Com'è stato scritto, se non vuole essere travolta la classe politica deve fare un bagno di umiltà. Recuperare la dimensione del servizio e, se questo non riesce proprio a tutti, quantomeno rinunciare a vantaggi e comportamenti da «razza padrona». Per ragioni etiche o anche solo per egoismo razionale. Si guardi dunque al parlamento. E si guardi con pari severità - per limitarci al pubblico - al governo e al sottogoverno; alla miriade di organi rappresentativi privi di effettive funzioni; agli enti locali e alle pubbliche amministrazioni; alle authorities e alla pletora degli enti inutili; all'esercito dei consulenti e agli strapagati vertici delle aziende pubbliche e partecipate. Si colpiscano sinecure, si riducano costi esorbitanti, si eliminino sprechi e privilegi.

È un tema per la sinistra, poiché il discredito delle istituzioni democratiche è una manna per la reazione populista o tecnocratica. Occorre agire subito, con mano decisa e senza indulgenza. Ma è necessario anche aver presente il contesto nel quale ci si muove e il risultato che si intende conseguire. Questo ci porta dritti all'altra questione - l'inadeguatezza e inoperosità della politica - che rivela altri e ben più gravi presupposti..

Inadeguatezza e inoperosità: a ben guardare, questi addebiti non coinvolgono la sfera politica nel suo insieme, ma il parlamento. È la sua presunta inerzia ad apparire - ad essere indicata come - impedimento alle decisioni del governo. Avallando una rappresentazione classica, Prodi ha contrapposto la rigogliosa produttività dell'esecutivo alla sterilità delle Camere. Da un lato - ha dichiarato - la bellezza di 124 disegni di legge; dall'altro, appena dieci provvedimenti varati. È forte qui l'eco delle recriminazioni che nel primo dopoguerra accompagnarono l'inabissarsi dello Stato liberale. Una classe politica attardata in discussioni esasperanti mentre l'incalzare degli eventi avrebbe richiesto decisioni rapide: l'insistita riproposizione di questo quadro propiziò allora l'avvento dell'«Uomo della Provvidenza». È un quadro che si attaglia all'oggi?

Teologia politica

Cominciamo col rilevare un'omissione. Nella legislatura in corso le Camere sono in sofferenza perché il governo non ha una maggioranza stabile al Senato. La consapevolezza di questo fatto influisce gravemente sui lavori della Camera bassa, condizionando calendari, ritmi di lavoro, e ovviamente la produttività del parlamento. Ma solo nel senso che essa ne viene frustrata e impedita.

E come risponde il fecondo governo a questa impasse che con mirabile equanimità il presidente del Consiglio rinfaccia al parlamento? Molto semplicemente, cercando di sostituirglisi nell'esercizio della funzione legislativa. O formalmente, sfornando e reiterando decreti-legge (al punto di costringere il capo dello Stato a richiamare i principi costituzionali di «necessità e urgenza») e pretendendo deleghe (perdipiù general-generiche, con buona pace dei vincoli temporali e materiali stabiliti in Costituzione). O informalmente, arrogandosi la potestà decisionale in materie di competenza parlamentare (come la ratifica dei trattati internazionali) o ponendo la fiducia sui propri disegni di legge, e così blindandoli.

Di questo stato di cose bisognerebbe parlare, piuttosto che strizzare l'occhio all'onda limacciosa dell'antipolitica che si finge di voler contrastare. Su questa profonda mutazione dell'architettura istituzionale e sui suoi presupposti occorrerebbe interrogarsi, invece di mimare rituali omaggi al simulacro della «centralità del parlamento». Senonché, ove lo si riconoscesse, come si potrebbe ricominciare con la litania della «governabilità»? E come sarebbe possibile ritornare alla carica - derubricando il referendum costituzionale dello scorso giugno a irrilevante equivoco - con la richiesta di nuove riforme e nuove Costituenti che cancellino i partiti minori e conferiscano al governo più ampi poteri?

E siamo così al dunque. Un bilancio onesto di questo stato di cose imporrebbe di sfidare i dogmi cardinali della teologia politica che ci affligge da vent'anni a questa parte: da quando una stirpe di politologi provinciali e saccenti ha dato impulso a una stagione di riforme che - colpendo a morte i partiti con basi di massa e imbragando il sistema della rappresentanza in un bipolarismo che fa violenza alla reale composizione politica del Paese - hanno devastato la macchina istituzionale e decretato la sostanziale messa in mora della Costituzione repubblicana.

«Riforme» per un'oligarchia

Il disastro di un parlamento spaccato in due e della contrapposizione tra fazioni quantitativamente equivalenti e quindi capaci di interdirsi a vicenda discende dalle sciagurate riforme dei primi anni Novanta. Che oggi forzature sino a ieri ritenute a ragione illegittime - dallo sbarramento al premio di maggioranza, all'elezione diretta di un premier munito di maggiori poteri - appaiano farmaci miracolosi è solo il segno di una regressione che tuttavia trova ancora rarissimi e troppo timidi oppositori.

Leggendo la recente intervista del Corriere a Massimo D'Alema si rimane allibiti. Gli anni Novanta vi figurano solo come inquietante precedente della crisi odierna. Ma quegli anni furono anche il tempo di riforme che lo stesso D'Alema propugnò e in gran parte promosse, e il cui senso nemmeno una folgorante amnesia potrebbe cancellare.

L'introduzione del maggioritario e del presidenzialismo negli enti locali ha accentuato la frammentazione della rappresentanza e scatenato la crisi delle assemblee elettive. Di qui, a cascata, si è prodotta la stravolgimento dell'ordine costituzionale (la supplenza legislativa del governo e la negazione di fatto dell'autonomia del parlamento; la proliferazione di poteri tecnocratici «indipendenti»; il cortocircuito tra governi tecnici e leaderismo plebiscitario che ha regalato al Paese le avventure del '94 e del 2001) con la quale siamo ancora costretti a fare i conti.

Un nuovo americanismo

È l'ora di dire con chiarezza che gli anni Novanta in Italia sono stati il tempo di una gigantesca rivoluzione passiva che ha prodotto un drastico restringimento degli spazi di partecipazione democratica, la riduzione del ventaglio degli interessi sociali rappresentati (quella che Angelo Panebianco chiama graziosamente «costituzionalizzazione delle estreme») e la traduzione decisionistica della politica in gestione amministrativa. Questa è stata ed è la ratio oligarchica di una «normalità» che gran parte della classe dirigente italiana ha pervicacemente perseguito nell'ultimo quindicennio.

Ma il problema non è esclusivamente italiano e non riguarda soltanto gli ultimi quindici anni. Come mostrano la repubblica monarchica di Bush jr. e l'intera vicenda dell'Unione europea, la deriva oligarchico-tecnocratica è una malattia di tutto l'Occidente, radicata in processi strutturali. Per capire di che cosa stiamo parlando, dovremmo riconsiderare la risposta del capitale al protagonismo di massa - le lotte operaie, i movimenti contro la guerra, il femminismo, le rivolte studentesche - che nel lontano 1975 la Trilateral bollò come «crisi della democrazia», inaugurando la stagione della «governabilità» e delle «compatibilità». Fu questa risposta l'anima della «rivoluzione conservatrice» reaganiano-thatcheriana che si abbatté sull'Europa a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.

Siamo ancora dentro fino al collo in quella storia, che chiamiamo «neoliberismo» spesso dimenticandoci che essa non ha inciso solo sulla produzione e sulla vita delle persone delocalizzando, precarizzando, privatizzando e finanziarizzando. Ha investito pesantemente anche la sfera pubblica e il politico, determinando una possente regressione a forme premoderne. Come suggeriscono diverse analisi (Giorgio Agamben, Luciano Canfora, Danilo Zolo), la privatizzazione delle istituzioni e della sovranità è il nocciolo duro dell'americanizzazione delle nostre società.

Quando diciamo che i mercati votano, dovremmo sapere che non impieghiamo una metafora. Descriviamo fedelmente un processo in atto, che configura lo spossessamento delle prerogative democratiche delle collettività travolgendo vite, identità, sistemi istituzionali. E alimentando una insostenibile carica di violenza. Prevedere dove tutto ciò condurrà è impossibile, ma certo non si può escludere che generi contraccolpi formidabili, simili a quella «grande trasformazione» che si verificò tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: allorché la devastazione sociale prodotta dal liberismo provocò il ritorno del politico in forme autoritarie e contribuì alla nascita di regimi reazionari sostenuti da un vasto consenso popolare.

La biscia e il ciarlatano

Questo scenario ribolle sotto la superficie della discussione sulla crisi della «politica». È questa la vera partita quando si parla della transizione italiana deprecandone l'incompiutezza. Non coglierlo - cavalcando il connotato antipolitico della crisi - sarebbe l'ultimo e il più devastante degli errori.

Pretendere interventi di bonifica è indispensabile ma è tutt'altra cosa dal delegittimare. E invece proprio questo sembra il senso di un attacco sferrato contro tutto ciò che è pubblico e in particolare contro le istituzioni della rappresentanza e della partecipazione. A questo proposito è in atto una divisione del lavoro che non può non colpire. Da un lato, poteri imprenditoriali diretti da una indiscutibile razionalità allo scopo. Dall'altro, settori del mondo politico mossi da malintese smanie «modernizzatrici» e da una inesausta ansia di legittimazione.

Tutti, certo, cooperano nella stessa impresa. Ma i primi - come ha ben chiarito Montezemolo all'Assemblea della Confindustria - sanno bene quel che vogliono: una società disciplinata, incardinata in salde gerarchie, comandata da pochi e forti centri di potere «indipendenti». I secondi si illudono di saperlo. Lavorano in realtà per conto terzi. Promuovono trasformazioni che negheranno ogni loro residua autonomia. E rischiano, a danno di noi tutti, di fare la fine di quel ciarlatano di cui Gramsci dice nei Quaderni, raccontando di come venne morso dalla biscia che aveva incautamente stuzzicato.

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