Il rubinetto delle emissioni di anidride carbonica non si chiude, anzi la pressione crescente dei paesi di nuova industrializzazione spinge la volata dei gas che squassano la macchina del clima. Basterebbe questo ad alimentare l´incubo di una desertificazione che avanza e di milioni di profughi ambientali che stanno per mettersi in moto. Ma l´ultimo rapporto del Worldwatch Institute, Oceani in pericolo, elaborato da un gruppo di scienziati di Greenpeace, apre un´altra finestra di allarme. Uno dei grandi equilibratori climatici, la spugna che finora ha assorbito una parte importante delle emissioni serra, sta per cedere: la capacità dei mari di catturare una quota significativa di anidride carbonica diminuisce. E così mentre il flusso dei gas che devastano l´atmosfera cresce, i riflessi di Gaia, il pianeta vivente, si appannano.
I dati di base sono incontrovertibili. Per convincersene basta paragonare due periodi chiave: i primi due secoli di rivoluzione industriale e gli ultimi decenni. Tra il 1750 e il 1994 sono stati emessi 1.039 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e gli oceani ne hanno assorbiti 433 miliardi: il 42 per cento. Tra il 1980 e il 2005 sono stati emessi 525 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e gli oceani ne hanno assorbiti 194: il 37 per cento. Dunque, rimanendo alla stima media degli ultimi 25 anni, per ogni punto percentuale di riduzione della capacità di assorbimento degli oceani si registra un ulteriore accumulo in atmosfera di 200 milioni di tonnellate di anidride carbonica: quanta ne emette il sistema industriale italiano regolamentato dal protocollo di Kyoto.
Non è finita. «Non si può sottovalutare il fatto che l´aumento di Co2 nell´acqua di mare ne causa l´acidificazione», si legge nel rapporto pubblicato dal Worldwatch Institute. «Il pH degli oceani si è abbassato di 0,1 unità, con la possibilità che scenda di ancora 0,5 unità a fine secolo se non si riducono le emissioni. Numerosi organismi che si costruiscono uno scheletro calcareo - coralli, molluschi, crostacei e molti organismi planctonici - potrebbero avere problemi di stabilità perché il calcare si scioglie nell´acqua acida». Dunque la capacità degli oceani di catturare carbonio formando la vita potrebbe indebolirsi ancora di più.
Quest´alterazione degli equilibri fisici e chimici, oltre alle ripercussioni globali, ha ovviamente un effetto micidiale su un ecosistema marino già malconcio: «La pesca riassume il dramma della crescita selvaggia di una distruttiva potenza tecnologica che ormai non risparmia i luoghi più remoti: isole lontane, montagne abissali, artico e antartico sono tutti sotto la pressione di pescherecci industrializzati che non solo pescano troppo (dagli anni ‘50 il totale della produzione ittica si è moltiplicato per 7) ma anche male, con attrezzi distruttivi, come la pesca a strascico o le reti derivanti, che catturano un numero incredibile di specie non bersaglio, danneggiando l´ecosistema e rallentando il recupero degli stock ittici che nel 76 per cento dei casi sono oggi al limite o oltre il limite dello sfruttamento».
La temperatura crescente sta minando le barriere coralline che ospitano circa 100 mila specie note (le stime reali potrebbero andare da 1 a 3 milioni): il 20 per cento è distrutto, il 24 per cento è a rischio imminente di collasso, per un altro 26 per cento la minaccia è a lungo termine. Va male anche alle mangrovie, un ecosistema fondamentale per la difesa delle coste dalla pressione del mare: metà è stata cancellata e ormai occupano solo il 25 per cento delle coste tropicali contro una quota originale del 75 per cento.
A tutto ciò si aggiungono i danni prodotti dall´inquinamento chimico e radioattivo: nel Golfo del Messico si è arrivati a 80 mila chilometri quadrati di fondali morti.