Un'opinione che parrebbe in decisa controtendenza rispetto ad altre, forse maggioritarie forse no, spinte a un'idea autoritaria di stato e governo, del territorio e non solo.
L'Unità, 9 luglio 2013 (f.b.)
La riflessione sul nesso stringente tra crisi della democrazia rappresentativa e crisi dei partiti, che ci spinge a cercare nuovi metodi di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte di governo, deve entrare nel nostro dibattito precongressuale. Il tema decisivo è come organizzare la partecipazione democratica nel nostro tempo. La mancanza di luoghi di coinvolgimento attivo e responsabile nei processi decisionali conduce alla parcellizzazione dei punti di vista o allo stallo, alle scorciatoie personalistiche o populistiche. Questo vale tanto nella vita pubblica quanto nella vita interna ai partiti. E il Pd, che è un argine a questi vizi, tuttavia non ne è immune: non basta la coda ad un gazebo a ristabilire una connessione profonda tra rappresentanti e rappresentati.
In queste settimane, alla guida di un ministero cruciale per ridefinire un modello di sviluppo ormai insostenibile, sia dal punto di vista ambientale che sociale, ho avuto modo di interrogarmi a fondo proprio su questo tema. Il mancato coinvolgimento dei cittadini nelle scelte ha alimentato, in molti casi, quella contrapposizione tra sviluppo e ambiente che non può, non deve più avere luogo. Prendiamo il caso delle opere infrastrutturali. Nel nostro Paese, più che altrove, vi è una reazione quasi automatica di profonda diffidenza se non di ostilità dei cittadini e delle comunità locali per ogni intervento che modifichi il territorio. Nascono movimenti, comitati, per impedire la realizzazione delle opere, spesso riuscendovi. Il modello (asettico e tecnocratico) delle procedure autorizzate vigenti (Conferenza di servizi, Via, Aia) peraltro da razionalizzare e semplificare assicura soltanto (e non sempre) la legittimità di un iter e di un progetto. La tradizionale concertazione con gli enti locali non basta più. E tanto meno è accettabile il vecchio scambio implicito proposto alle popolazioni locali: più salari in cambio di un peggioramento, spesso definitivo, della qualità ambientale di un territorio.
Queste crescenti resistenze delle comunità locali non si possono sempre liquidare come «ambientalismo dei no», «localismo dei no». Sono tra i sintomi più acuti della crisi della democrazia rappresentativa, dei corpi intermedi e delle organizzazioni sociali, che in Italia più acutamente si pone. Ma è solo attraverso un investimento sulla partecipazione attiva che la politica e le istituzioni a tutti i livelli specie su questioni sentite come quelle ambientali, su opere che impattano fortemente sul territorio possono ricostruire un rapporto di fiducia coi cittadini. Non è solo una questione di metodo, ma anche di merito. Perché le soluzioni progettuali migliori non possono che derivare da un confronto anche duro, serrato tra visioni e approcci diversi. Solo se coinvolgimento e partecipazione vengono garantiti fin dall’inizio, le scelte potranno essere perseguite con efficacia e tempestività, in quanto «accettate» in fase decisionale e non contestate a posteriori fino allo stallo. Con questo metodo anche i «no» a progetti sbagliati potranno essere adeguatamente motivati.
Sulla base di questo convincimento, ho deciso di sottoporre al Consiglio dei ministri, nelle prossime settimane, l’esigenza di introdurre nel nostro Paese lo strumento del débat public (tratto dall’esperienza di successo francese, ma anche da significative sperimentazioni di alcune regioni italiane), attraverso procedure vigilate da un soggetto pubblico indipendente, da svolgersi in tempi certi di consultazione delle popolazioni e dei portatori di interesse diffusi, sulla realizzazione delle opere che incidono sull’ambiente, i territori e la vita delle comunità locali.
Ora, io credo che di strumenti del genere dovrebbero farsi promotori i partiti, metodi simili dovrebbero adottare anche al loro interno, per non trovarsi più di fronte a quel drammatico scollamento tra decisioni dall’alto e «sentimenti» dei militanti e dell’elettorato, che abbiamo registrato in questo difficile avvio di legislatura. Il nostro dibattito congressuale, almeno fin qui, non sembra ne abbia piena consapevolezza. La discussione è tutta avvitata su nomi e posizionamenti, e quando si discute di regole lo si fa troppo astrattamente o strumentalmente. Intorno al tema dell’organizzazione della democrazia, per la verità, vi sono stati momenti di riflessione interessanti, penso al contributo di Fabrizio Barca. Ma vi è ora la necessità di inserirli a pieno titolo in una discussione sul profilo politico, ideale e valoriale del partito, sulla sua funzione indispensabile di mediazione tra cittadini e autorità. Non ho nascosto, nemmeno in queste settimane di impegno istituzionale, i miei orientamenti e le mie simpatie sulle candidature in campo. Ma nulla come un confronto su questo aspetto decisivo della vita democratica del partito e del suo ruolo nella società è un'urgenza che tutti devono avvertire se si vuole salvaguardare, o meglio, costituire, un patrimonio di idee e comportamenti veramente condivisi.