Il Fatto Quotidiano online, 21 ottobre 2016 (p.d.)
Bene. Hashi Omar Hassan, che era stato condannato per concorso nell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, è innocente. Si è fatto oltre 17 anni di prigione per nulla e finalmente, nel processo di revisione, è stato assolto e liberato. Per lui la fine di un incubo. Ci auguriamo che chieda e ottenga un lauto risarcimento dallo Stato italiano per una condanna a cui non aveva mai creduto nessuno. Nemmeno i genitori di Ilaria Alpi. I suoi 17 anni di vita non glieli restituirà nessuno, resi ancora più amari da un iter giudiziario che andrebbe definito da farsa, se non stessimo parlando di questioni troppo serie.
Ora speriamo che le motivazioni dicano chiaramente quello che va detto: che il povero Hashi è stato un capro espiatorio, premeditatamente intrappolato per tentare di dare in pasto un colpevole alla famiglia Alpi e all’opinione pubblica che chiedeva verità e giustizia. La sua assoluzione ci dice già che giustizia non è stata fatta, ma dice anche – e soprattutto – che con messa in stato d’accusa di Hashi si è voluto depistare dalla verità. Depistare, ossia spostare l’attenzione dalle piste che stavano portando alla verità sulle ragioni dell’omicidio dei due giornalisti, e occultare quindi gli indizi e gli elementi che avrebbero fatto luce sui veri esecutori e sui mandanti del duplice assassinio di Mogadiscio.
Non va dimenticato, infatti, che le vicende che hanno condotto all’arresto dell’(allora) giovane somalo sono il punto di svolta, cruciale, del caso “Alpi-Hrovatin”. Tutto accadde nel 1997, a soli tre anni dall’omicidio, quando i fatti erano recenti e i testimoni tutti ancora in attività e raggiungibili.
In quell’anno c’era stata una grande accelerazione nelle indagini: il magistrato Giuseppe Pititto, affiancato ad Andrea De Gasperis nell’inchiesta della Procura di Roma, aveva compiuto importanti passi d’indagine, aveva effettuato interrogatori rilevanti, era arrivato a identificare quattro testimoni oculari attraverso un delicato e complesso lavoro investigativo della Digos di Udine, li stava facendo arrivare in Italia per deporre. L’inchiesta era decollata. Già, a luglio 1997 pareva che il muro di gomma si stesse squarciando. E invece…
Invece l’inchiesta fu tolta a Pititto e De Gasperis da parte del Capo della Procura di Roma Salvatore Vecchione, giusto prima che potessero sentire i testimoni oculari. Mentre nelle stesse settimane veniva alla luce il cosiddetto “Diario Aloi”, un scritto di un maresciallo dei carabinieri che aveva operato in Somalia e che faceva prendere nuovo vigore alle furiose polemiche sulle presunte torture commesse dai militari italiani in Somalia. Uno scandalo, guarda caso, scoppiato in quello stesso 1997, che si stava spegnendo nel nulla se non fosse stato, appunto, per il “diario Aloi”.
È a causa di quel sospetto testo che la commissione ministeriale istituita per indagare sulle torture decide di identificare un certo numero di testimoni somali da far venire in Italia. Nel gennaio 1998 i 12 testimoni – selezionati fra oltre 140 che, in Somalia, avevano raccontato presunti episodi di violenza – sono pronti a partire. Ai 12 viene aggiunto all’ultimo minuto Hashi Omar Hassan. Viene in Italia, parla alla Commissione, e viene arrestato. La trappola è scattata. Due testimoni lo accusano di aver fatto parte del commando che uccise Ilaria e Miran: il primo è l’autista dei giornalisti, che presenta una versione contraddittoria e imprecisa dei fatti. L’altro è un somalo, Ahmed Ali Rage detto Jelle, che presenta le sue accuse agli agenti di polizia giudiziaria di Roma e sparisce ancora prima che inizi il processo. La condanna a 26 anni di Hashi Omar Hassan, di cui 17 espiati in carcere, si basa su questo, e solo su questo: un testimone contraddittorio e un altro che non si è nemmeno presentato in aula (e le cui dichiarazioni non sono state neppure registrate dalla polizia).
La sua assoluzione, oggi, Hashi la deve al fatto che Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto, l’ha rintracciato e intervistato in Inghilterra. E lui, Jelle, nell’intervista, ha ammesso di aver accusato falsamente Hashi. Non solo. Confessa di averlo fatto perché pagato dalle istituzioni italiane. Speriamo che le motivazioni della sentenza ci dicano qualcosa su quali uomini delle istituzioni hanno “comprato” un testimone falso, e sul perché l’hanno fatto; che ci dicano come mai polizia e carabinieri che si sono succeduti in questi anni non sono mai riusciti a rintracciare Jelle (che ha sempre vissuto nella vicinissima Gran Bretagna), mentre una giornalista c’è la fatta; che ci dicano quale interesse aveva il nostro Paese a orchestrare un tale gigantesco depistaggio allo scopo di occultare le ragioni dell’assassinio di due giornalisti italiani in terra somala.
Forse è chiedere troppo alle motivazioni di questa sentenza. Ma la risposta a queste domande va data. Dal punto di vista giudiziario, infatti, si torna all’anno zero, dopo 22 anni. Indegno, per un Paese civile. Un vero scandalo, per le sue istituzioni.