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Giorgio Todde
Alluvioni e antropizzazioni
12 Febbraio 2009
Sardegna
Nei necrologi si usa, dalle nostre parti...

Nei necrologi si usa, dalle nostre parti, la fotografia del defunto. E alle volte si aggiunge, per un formalismo che può tornare utile anche nell’aldilà, la professione svolta in vita. Così con meraviglia leggemmo, alcuni anni fa, sotto il nome e la foto di un trapassato di Capoterra, nientemeno che la professione del Lottizzatore, anzi, quella di Pioniere delle Lottizzazioni.

Le lottizzazioni di Capoterra. Nomi paradisiaci, Frutti d’Oro, oppure contemplativi, Poggio dei Pini o megalomani, Residenza del Sole, anticipatori, Su Spantu. Insomma, siti dove non si dovrebbe, stando al nome, morire mai, e dove non esiste il dolore. Ma quei nomi sono una pubblicità ingannevole. Il dolore è arrivato anche là e quelle lottizzazioni hanno fatto di Capoterra l’opposto di un buon modello urbano.

Abitato e abitanti dovrebbero – rudimenti di urbanistica – essere riuniti, raccolti in un territorio omogeneo. Il territorio non si butta via costruendo ovunque. Esiste un unico uso saggio del suolo: in un punto finisce il paese o la città e in quel punto inizia la campagna.

Capoterra, invece, è un paese sbracato, insediamenti sparsi che qualche urbanista chiama senza arrossire “trama abitativa fine”. Luoghi pericolosi. E gli abitanti sparpagliati delle lottizzazioni hanno come perduto la cittadinanza. Un cattivo esempio, tra i peggiori.

Chi, oltrepassata la bellezza dello stagno di Santa Gilla, percorre dal bivio di Capoterra l’orrida strada che porta verso Pula vedrà quale brodaglia edilizia è sorta lungo il cammino e le pendici dei monti di Capoterra. Un’edilizia che offende ogni retina educata. Altro che “trama fine”.

Il viaggiatore atterrito vedrà in quel paesaggio l’espressione compiuta dell’inconfondibile “senso sardo del brutto”. Il “senso sardo del brutto” che devasta città e campagne, e rende desolatamente unitaria la nostra isola. Divisi, ma uniti dal senso del brutto. Si è perfino costituito un peculiare “brutto capoterrese”. Un brutto che ha poco a che vedere con la povertà e il bisogno perché non c’è povertà da quelle parti.

Un tempo, anzi, la necessità di fare economie aveva creato, molto prima dell’avvento dei lottizzatori, un paesaggio armonico e città e paesi erano proporzionati e “logici” nel loro contesto.

Noi possediamo nell’Isola ancora in grande quantità il Bello Naturale, senza averne merito e con nessuna coscienza. Il Bello Naturale, considerato addirittura un “niente”, un vuoto da riempire, è un fastidio sociale, un ostacolo allo sviluppo che di questi tempi si identifica tragicamente con il costruire e costruire.

Spesso, però, un paesaggio brutto è anche un paesaggio dannoso e il “brutto capoterrese” coincide con il pericolo. Così, inevitabilmente, la notte tra il 21 e il 22 ottobre di quest’anno, il paesaggio, sfinito, reso deforme dai lottizzatori, ha causato cinque vittime.

Capoterra era un bel paesetto su un pendio, ha subìto piogge per secoli, senza disastri e non appariva nelle cronache delle tragedie, sino ad anni recenti.

Tornare indietro nel tempo aiuta a comprendere e riassumiamo la cronaca di due secoli di alluvioni.

Pirri, 1795, 1796, 1797, cicliche alluvioni autunnali: 6 vittime.

Il paese è l’epicentro di inondazioni da secoli, sempre negli stessi due mesi, ottobre e novembre.

I disastri si susseguono periodicamente.

Selargius, Pirri, Elmas, Quartucciu, Uta, Assemini, Decimo, Sestu sono colpiti con costanza da nubifragi violenti a ottobre e novembre.

Le cronache ci raccontano, dalla fine del ‘700 a oggi, di decine e decine di diluvi rovinosi che si ripetono con ricorrenza impressionante, ad intervalli di pochi anni. Centinaia le vittime nel Campidano di Cagliari.

Nel 1889, il 5 ottobre, piove per poche ore, ma così intensamente che Pirri, Monserrato, Selargius, Quartucciu, Quartu subiscono danni gravissimi. Decine i morti e un migliaio di senzatetto. Il Governo, per la prima volta, assume provvedimenti eccezionali e si progettano opere idrauliche.

Poi nel 1892, centosedici anni fa, una tragedia più grande delle altre.

Le analogie con l’oggi mettono paura.

La notte tra il 22 e il 23 ottobre del 1892 - gli stessi giorni e le stesse ore del dramma di Capoterra - un nubifragio colpisce il cagliaritano. L’alba non arriva mai perché il cielo è buio anche la mattina. La zona intorno a Elmas è devastata. A San Sperate si contano 69 morti e ancora oggi qualcuno ricorda quell’alluvione come “s’unda manna”. Duecento morti in tutto il territorio colpito.

Con sistematica periodicità i nostri autunni sono segnati da alluvioni e lutti. Si contano, negli ultimi due secoli, circa quaranta di eventi catastrofici, concentrati nei mesi di ottobre e novembre, spesso preceduti da siccità, alle volte da invasioni di cavallette e seguiti da epidemie di colera.

Anche in tempi recenti, nel 1946, nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, sempre nella solita zona, Elmas, Sestu, Assemini, ci furono 46 vittime dell’acqua, soprattutto anziani e bambini.

Poi iniziano gli anni della ricostruzione post bellica. Poi, ancora, arrivano gli anni del boom economico, i terribili anni sessanta.

Questo sommario smentisce gli sconsiderati sostenitori dell’imprevedibilità del clima nostrano che invece manifesta una puntualità ossessiva. Qualche sfacciato ha perfino proclamato che un evento come quello del 22 novembre si ripete, secondo un calcolo creativo, ogni 20.000 anni. E invece tutto si replica identico. Da due secoli subiamo un’alluvione memorabile ogni 5 anni.

L’imprevedibilità è la scusa degli sventati.

Le alluvioni continuano negli stessi luoghi però con qualche novità perché, nel frattempo, noi abbiamo radicalmente mutato il paesaggio con un’accelerazione ed uno sperpero dei suoli mai visti prima.

Certo, qualcosa è stata fatta dai 200 morti del 1892. E a San Sperate il rischio è stato mitigato. Pirri si allaga ancora sistematicamente, l’onda travolge le auto, ma non ci sono vittime da molti anni. Assemini vive una situazione di incertezza angosciante però le perdite di vite umane sono diminuite. La protezione civile, il sistema dei soccorsi, gli allerta, la coscienza civica. Il progresso, insomma, porta con sé anche qualche vantaggio.

Capoterra appare, insana novità, nella lista dei disastri a partire dagli anni sessanta.

Perché?

Beh, sino a quell’epoca il paese non aveva costruzioni intorno. L’acqua che proveniva dal monte defluiva a valle senza ostacoli.

Ma negli anni ‘60 il Comune affida il piano regolatore a un ingegnere, un caposcuola, lo stesso che ha concorso, carte e bolli in regola, a deturpare per sempre Chia. L’ingegnere si commosse per le campagne bellissime intorno a Capoterra. Le vide. Subito le immaginò costruite e abitate da famiglie lottizzate e felici. Fu l’inizio di una gara. Da allora ingegneri, architetti, geometri e impresari si sono moltiplicati come batteri. E come gli indiani non avevano previsto l’uomo bianco nella loro terra noi non avevamo previsto i lottizzatori nella nostra.

Capoterra diventa il crocevia di nuovi interessi e nel suo territorio crescono a dismisura le Lottizzazioni, del tutto estranee al paese, i cui inquilini apolidi non si considerano neppure capoterresi. I residenti di Poggio dei Pini si identificano con comicità come “poggini”.

E non solo Capoterra fa il suo cupo ingresso tra i paesi con vocazione al disastro ma i suoi abitanti tanto si appassionano alle concessioni edilizie che ravvivano il paese con la polvere pirica e dedicano bombe a chi chiede regole. Uno stato primordiale di illegalità.

Oggi.

A Frutti d’Oro, contrabbandato come il giardino delle Esperidi, spalano fango dalle case. A Su Loi, a Su Spantu, nome che annuncia sventura, soffrono ancora. A Poggio dei Pini il ponte spezzato, gli alberi divelti, i muraglioni di cemento crollati, ricordano, ai fautori dello sviluppo malformato, la forza delle acque.

Noi abbiamo costantemente criticato certi nostri sindaci, certe autonomie locali e certe imprese che hanno avvilito e abbruttito senza speranza il territorio. Ora, dopo il disastro del 22 ottobre, viene alla mente una riflessione che estende la colpa a chi ha scelto di vivere in quei luoghi.

L’azione di comprare e, soprattutto, abitare una casa dovrebbe essere una delle azioni più ponderate della nostra esistenza.

Ebbene, chissà - ce lo chiediamo mentre guardiamo una piana fangosa con le abitazioni sommerse - cosa è passato nella testa di chi ha comprato casa alla foce del rio San Girolamo. Villette costruite in un sito dove anche un ciuccio avrebbe potuto immaginare una vita a rischio o impossibile. Edificate e vendute a inquilini creduloni.

Dicono che i nulla osta di certe lottizzazioni risalgono agli anni ‘70. Miserabile giustificazione. Come se all’epoca fosse stato tutto permesso e non fossero esistite leggi. Come se il rischio idrogeologico e le leggi per evitarlo non fossero mai esistiti.

Gli speculatori, indifferenti ai cinque morti dell’alluvione, raccontano ancora la bugia che costruire è necessario perché Cagliari non ha più case mentre, cifre ufficiali, la città possiede 8000 appartamenti vuoti che corrispondono a circa 25.000 abitanti in meno. Che costruire è necessario mentre tutti sanno dell’eccesso di abitazioni rispetto agli abitanti in diminuzione. Pubblicizzano “città del futuro” fasulle e consegnano case a coppie indebitate e infelici. La pubblicità di un incubo.

Dopo il disastro e i cinque morti del 22 ottobre il Governo regionale ferma i progetti a Capoterra. Poggio dei Pini e i cosiddetti “poggini” insorgono.

Ma la cooperativa di Poggio dei Pini non è una comune cooperativa. E’ controllata nientemeno che da un consiglio d’amministrazione. Non ci sono insalubri riunioni di condominio ma, peggio ancora, c’è un’associazione di affari che vorrebbe un milione di metri cubi sul Poggio, l’equivalente di una delle torri gemelle, l’equivalente di un intero paese di qualche migliaio di abitanti. Una mostruosità.

La Regione blocca la nuova lottizzazione e il cinico consiglio d’amministrazione ricorre sfrontatamente al Tribunale amministrativo. Muoiono cinque persone per l’eccesso di costruito e i lottizzatori ricorrono ai giudici per costruire ancora. Il mondo è davvero uscito dai cardini.

Ancora ingegneri che imbandiscono piani nei quali, anziché prevedere la distruzione di orride case e villette, propongono altri metri cubi, supermercati superflui, “centri di aggregazione” che si disgregheranno con la pioggia, scuole subacquee, outlet (chissà cosa sono), strade, ponti sempre più grandi.

E creeranno, questo è certo, le premesse per disastri più grandi dei loro ponti.

Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 31 dicembre 2008

Vedi qui altri articoli su eddyburg.it a proposito di Capoterra

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