Durante la campagna elettorale qualcuno accenna finalmente al dimenticato tema dell’abitazione. Allora ”il problema della casa” – locuzione cara per decenni alle battaglie della sinistra – sembra esistere ancora. Vogliamo però, nella misura in cui esista, sentir dire con chiarezza che l’abitazione equa deve essere un principio basilare, come il salario adeguato, come l’assistenza sanitaria pubblica per tutti, un impegno attuativo obbligatorio per i governanti d’ogni livello territoriale, dai ministri ai sindaci. Finora, più che commuoversi dinnanzi al problema della casa i politici si sono impigliati a riassestare quella casa della politica fracassata per colpa loro. Per non parlare della Cdl, una “Casa della libertà” che con Berlusconi decantava la fortuna degli italiani diventati tutti proprietari (mentre a sinistra non mancavano i creduloni).
Così, certi avvenimenti sembrano inverosimili. Come quando, poco più di due anni fa, un imponente corteo di inquilini rilanciava nelle strade di Roma vecchi slogan operai e chiedeva provvedimenti urgenti: no agli sfratti, no alla liquidazione delle case popolari pubbliche, no al giogo del debito con le banche, sì a un mercato degli affitti controllato dall’ente pubblico e accessibile ai redditi da lavoro subalterno. O quando pochi mesi prima il candidato sindaco Letizia Moratti aveva incautamente promesso 45.000 alloggi popolari dinnanzi allo scandaloso livello dei prezzi milanesi. Una promessa falsa, una quantità impossibile: si è visto come l’impegno della signora sia approdato a festeggiare l’alluvione di milioni di metri cubi edili privati, lussuosi, cagionata dal predominio di speculatori vecchi e nuovi, compresi noti violatori di leggi e norme (e oggi, immemore, propone genericamente la costruzione di 3.000 alloggi in dispersi terreni comunali periferici da concedere a imprese private disposte all’accordo, procedendo lungo la strada del fare e disfare senza pianificare). O quando al principio di febbraio, di nuovo a Roma, un’improvvisa invasione del municipio da parte di cittadini disperati per la loro condizione abitativa, anzi non-abitativa, era silenziosamente ricacciata e ignorata dai mezzi di informazione. O quando recenti articoli sulla condizione lavorativa di immigrati africani nel Sud, messi a raccogliere patate a tre euro l’ora dagli intoccabili mercanti di bracciantato, potevamo collegarli agli articoli di un anno e mezzo prima che insieme alla condizione salariale raccontavano del loro habitat: certi gruppi vivevano in un boschetto in condizioni peggiori che nei crudeli slum sudamericani e africani.
Per la verità, ogni tanto, per ragioni contingenti dovute ad allarmismi circa la cosiddetta sicurezza scatta un gioco al rimpallo di responsabilità riguardo al bisogno di alloggio di immigrati nelle grandi città, o dei tartassati Rom, o dei senza alloggio per così dire assoluti, quegli homeless la cui morte civile in città come Milano e Roma pare non meno certa di quella dei loro compagni della Bowery newyorkese. Ma niente si attua, oppure si adotta la soluzione criminale (e “finale” secondo il messaggio nazista) del comune milanese di Opera nei confronti dei Rom baraccati, tanto nota da non doverla ricordare qui.
Situazioni di piccole minoranze si dirà, poco significative della effettiva consistenza del problema casa. Perché occuparsene?
E tra le famiglie residenti sarebbero talmente poche quelle non proprietarie dell’abitazione da non doversene interessare? Quante saranno veramente? Tutti proprietari anche i poveri? La proprietà dell’abitazione non significa sicuro benessere sociale, né conformità della misura e qualità dell’alloggio ai bisogni reali primari. Ma il peggio si concentrerà nelle affittanze. L’ultimo censimento della popolazione e delle abitazioni (2001) è troppo lontano, tuttavia da lì si deve partire per le valutazioni odierne senza eccedere in indagini campionarie. Di 27,3 milioni di abitazioni ben 5,6 non erano occupate (quasi il 21%!), 6,2 (29%) erano in affitto o assimilate. Scopriamo inoltre da un confronto semplice che un forte surplus di famiglie rispetto alle abitazioni occupate voleva dire almeno mezzo milione di famiglie coabitanti.
Oggi le abitazioni occupate in proprietà saranno circa l’80 %, un aumento notevole dal 71% relativo a sette anni fa. Le famiglie danno il sangue, si indebitano per ripararsi, mettersi al sicuro dalle vessazioni del mercato a meno che poi il mutuo non diventi un’ossessione e infine una condanna. Il 20% di alloggi in locazione o comunque non goduti in proprietà (una percentuale inferiore a quella degli alloggi vuoti, ora stimati nel 24% dal Coordinamento europeo per l’alloggio sociale), esclusa la piccola parte di famiglie che preferisce l’affitto riguarda le famiglie, cinque o sei milioni, che si arrabattano ogni giorno dentro un mercato dai prezzi spropositati, oltretutto nettamente scisso dal mercato del lavoro, motivo non secondario di penosità del vivere.
Il riformismo socialdemocratico europeo, quando attuava potenti programmi sociali per la casa, sapeva che per lo stesso capitalismo moderno la riproduzione doveva assicurare la produzione e che della prima l’abitazione era una componente necessaria. Ora la globalizzazione disloca la produzione, muove i lavoratori dappertutto, usufruisce della loro riproduzione ma potendo fregarsene di farli abitare degnamente. Non mi meraviglio che anche in Italia i modelli salariali e abitativi possano sfiorare i confini della sopravvivenza, se non valicarli come nella Manchester studiata da Engels.
Allora, vogliamo, sinistra arcobaleno, unica sinistra sopravvissuta al tradimento veltroniano, dar largo spazio anche a tutto questo nello scontro elettorale?
Milano, 4 marzo 2008