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Marcantonio Lucini
All'arte, all'arte, arriva il re di scarpe
4 Luglio 2011
Beni culturali
Cronaca acuminata dell’imbarazzante situazione del nostro patrimonio culturale, abbandonato dal Mibac all’assalto non dei privati, ma di affaristi improvvisati: altro che mecenati! Su Left, 7 luglio 2011 (m.p.g.)

Un convegno al teatro Argentina di Roma organizzato da Montezemolo, guest star l'industriale delle calzature Diego Della Valle, che traccia il futuro dei beni culturali dopo Berlusconi: privati e affaristi all'assalto del nostro patrimonio.

Il livello e la qualità del dibattito sono stati definiti con estrema precisione da una frase del critico d'arte Francesco Bonami: «Abbiamo la fortuna di fare un buco per terra e trovare magari i Bronzi di Riace». È un po' come se un sovrintendente di teatro d'opera pensasse alla tetralogia wagneriana perché gli mancano tre spettacoli con i quali chiudere il cartellone. Naturalmente non è che Bonami non sappia che le due statue sono state ritrovate in fondo al mare, ma sono i meccanismi automatici della competenza che non hanno funzionato. Senonché, nella cifra di un pressapochismo travestito da professionalità e autorevolezza s'è iscritto l'intero convegno voluto da Luca di Montezemolo che attraverso la sua fondazione Italia futura ha organizzato l'altro giorno al teatro Argentina di Roma una giornata dal titolo retorico e nazionalista: "Cultura. orgoglio italiano”. Il tema, non dichiarato ovviamente, nascosto nelle strategie più o meno confessabili di un blocco sociale degli affari e del denaro che si sta preparando al post berlusconismo, è in buona sostanza la privatizzazione della cultura, idea resa glamour e attraente dalla magnificazione dell'impegno finanziario di 25 milioni di euro da parte di Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Probabilmente a muovere il fabbricante di scarpe marchigiano non sono solo la pubblicità e il marketing.

Ci deve anche essere il desiderio di passare alla storia, come quel signore della Roma antica che nel primo secolo avanti Cristo guadagnò un sacco di soldi come organizzatore di banchetti pubblici e si fece costruire a mo' di tomba nientemeno che la Piramide Cestia. Il tempo è spietato, dell'antico imprenditore del catering oggi nessuno ricorda il nome (Caio Cestio Epulone). Proprio Della Valle, socio di Montezemolo nella società Ntv di treni privati ad alta velocità, ha aperto la giornata esibendosi in una specie di assolo con protagonismo leggermente ribassato dalla presenza di due "spalle", l'archeologo Andrea Carandini e un giornalista moderatore, Antonio Monda. Della Valle esordisce con la proposizione più luogocomunista dell'anno, «sono orgogliosissimo di essere italiano», e prosegue con una chiamata di tutti gli imprenditori nostrani a impegnarsi per questo Paese che ha «la leadership turistica e culturale: si tratta di una questione pratica perché vuol dire un'Italia che funziona, significa lavoro per i giovani».

C'era quindi una quantità di bella gente all'Argentina, esponenti del mondo dell'editoria, dell'arte, del cinema, della musica, del turismo, fra gli altri Francesca Cappelletti (docente del dipartimento di scienze storiche all'università di Ferrara), Luca De Michelis (amministratore delegato della Marsilio), il direttore del Piccolo di Milano Sergio Escobar, il direttore d'orchestra Daniele Gatti, l'archeologo e consigliere del Quirinale per la conservazione del patrimonio artistico Louis Godart, Roberto Grossi presidente di Federculture, il regista Daniele Luchetti. Soprattutto c'erano un po' di businessmen e manager: oltre a Montezemolo e Della Valle, Paolo Pininfarina, il produttore e presidente Anica Riccardo Tozzi, Stefano Ceci presidente di Gh Group (una rete di imprese per lo sviluppo del turismo), la produttrice discografica Caterina Caselli, l'ex capo della Mondadori e potente presidente del Centro per il libro Gian Arturo Ferrari, oltre alla presidente del Fondo ambiente italiano (il Fai) Ilaria Borletti Buitoni, una delle signore dell'alta borghesia industriale milanese.

Sul binomio cultura-turismo, la nuova parola d'ordine degli uomini d'affari sembra "conquista": occupazione dell'ultimo pascolo ricco e sfruttabile di un Paese economicamente e produttivamente in declino. Pressoché unanimemente rifiutata dagli oratori l'odiosa definizione di "petrolio" per i nostri beni culturali, poco politically correct in tempi di ambientalismo spinto. Quindi adesso, aggiustata la terminologia, incomincia lo sfruttamento da parte dei privati. Un quadro che Carandini implicitamente conferma con la prima frase del suo discorso, «Ringrazio Della Valle per quello che sta facendo per il Colosseo», per poi affermare: «Dobbiamo attrezzarci per ricevere le masse asiatiche». Il resto sostanzialmente è contorno, ripetizioni, considerazioni spicciole, un po' di cifre per dare corpo statistico alle affermazioni, acquiescenza temperata dai distinguo, e su tutto in sintesi la considerazione: signori fatevene una ragione, lo Stato non ha più soldi. «I denari verranno dai privati» - osserva Gian Arturo Ferrari - E lo Stato deve facilitare il loro impegno finanziario». D'altronde l'architetto Roberto Cecchi, segretario generale del ministero dei Beni culturali, anche lui fiero di essere italiano e testimone dell'orgoglio dei lavoratori del Collegio Romano, l'aveva detto poco prima che "la priorità sono gli investimenti in cultura e che ci vuole semplificazione amministrativa». Gli risponde, contenta di sentire «le parole-chiave cultura, orgoglio, Italia» (s'imparava al liceo fino a pochi anni fa che la cultura era internazionale, apolide addirittura e apparteneva a tutti gli uomini: saranno cambiate le cose), Ilaria Borletti Buitoni che chiede «di agevolare le donazioni private e non creare impacci burocratici». Ciascuno a suo modo, per buoni motivi o ambigui, chiedono allo Stato di tirarsi indietro dai Beni culturali, manco si trattasse delle privatizzazioni anni Novanta che hanno contribuito a ridurre l'Italia al rango di Paese più industrializzato del Terzo mondo.

Quindi voilà Stefano Ceci, il presidente di Gh, che ha già scritto per il sito della fondazione di Montezemolo, spiegare al pubblico: «La cultura non è un'industria ma è la più potente infrastruttura italiana». Che vuol dire? Vuol dire, secondo Ceci, che la nuova economia italiana «non può che essere tessile. Un filato, una nuova tessitura capace di produrre valore. Un'economia che mette in rete luoghi, territori, imprese. Una nuova economia che fruisce dell'infrastruttura culturale». Ergo una postmoderna industria "tessile" in cui la cultura fungerebbe da telaio ed evidentemente gli artisti, la gente di teatro e di cinema, i restauratori, i cantanti, gli orchestrali sarebbero gli operai del ventunesimo secolo necessari alla produzione di merci - l'arte, il bello, lo spettacolo, la musica, la conservazione dei beni culturali - da vendere attraverso una catena commerciale chiamata turismo. A Paolo Pininfarina piace «la cultura del fare» (slogan che negli ultimi anni non sembra aver portato tanta fortuna alla Nazione) e approfitta dell'occasione per incensare l'amico Luca: «Montezemolo è un grande creativo e un grande presidente». Presidente di che? Ovviamente Pininfarina non specifica.

Gli interventi erano divisi in blocchi tematici - La cultura in Italia, Cinema ed editoria, arte e design - e siccome tutta questa bella gente parlava da uno dei più importanti palcoscenici di prosa italiani, l'ultimo tema era, the last and the least, Teatro e musica, tanto per ricordare a chi dava ospitalità quanto conta. Fin dall'inizio della passerella si era capito che aria tira presso coloro che si preparano a governare il post berlusconismo: sul palco diciotto poltrone bianche minacciosamente simili a quelle di "Porta a Porta", in platea metà dei posti riservati al potere (attuale, futuro, possibile, sperato, rivendicato), comunicazione autoritaria di tipo unidirezionale da chi parla a chi ascolta senza nessuna possibilità di interazione e di dialogo, concione quasi finale del monarca locale (Montezemolo): «Improcrastinabile una maggiore integrazione tra flussi turistici e valorizzazione dei beni culturali»; «l'obiettivo deve essere trasformare le imprese in protagonisti dell'innovazione dell'offerta turistico culturale»; «le responsabilità del pubblico e quelle dei privati devono trovare un modo per lavorare insieme meglio».

Chiusura con ospitata di Giancarlo Galan che si esibisce nell'uso di un vecchio arnese della retorica: dice tutto quello che un ministro dovrebbe fare, facendo finta di non essere lui il ministro. Applausi.

A nessuno viene in mente un'altra soluzione: studiare un modo di dare dei soldi a quanti si occupano d'arte e lasciarli lavorare in pace. A proposito del Mibac, ne ha chiesto sabato scorso la soppressione sic et simpliciter la presidente di Confcultura Patrizia Asproni, che parlava all'Auditorium di Roma nel quadro di un convegno intitolato "Vivere di cultura'', organizzato da Baier, consorzio costituito da cinque istituti culturali italiani (la Treccani, l'Istituto Luigi Sturzo, la Fondazione Lelio e Lisli Basso, la Società Geografica Italiana e la Fondazione Gramsci). «Sono stanca del Mibac - ha tuonato la signora - non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nell'area di competenza del ministero dello sviluppo economico».

Tuttavia, più interessanti delle idee delle Asproni, sono le informazioni che fornisce. Dice la presidentessa di Confculture che fino a un po' di tempo fa la sua confederazione era considerata nella Confindustria di cui fa parte poco più di uno scherzo. Ora invece da un po' di tempo in qua gli imprenditori stanno facendo la fila per capire come si può trarre denaro dai beni culturali. La Asproni è di chiacchiera schietta: «Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping». Verissimo, infatti da quando lo sport è finito in mano al denaro è degenerato. Da quando la grande industria si è impossessata della moda, soppiantando progressivamente gli artigiani, anche questo ambiente s'è inabissato nella cocaina e nella corruzione. Quanto più certi imprenditori si sono occupati di politica, tanto più il Parlamento è diventato una prateria per le scorribande dei comitati d'affari. Adesso sembra proprio arrivato il momento dei beni culturali: ecco la nuova pista del denaro, del saccheggio, del riciclaggio e della coca? Visto l'andazzo, forse tornerà in auge un vecchio e famoso aforisma di Goebbels: «Quando sento la parola cultura, la mia mano va alla Luger».

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