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Lodo Meneghetti
Alla ricerca dello spazio perduto (discorsi di piazza)
7 Gennaio 2007
Lodovico (Lodo) Meneghetti
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I begli articoli di Fabrizio Bottini su metropoli megalopoli città esortano a verificare vecchi e nuovi pensieri. Fra molto d’altro ho selezionato, per ora, il tema dello spazio pubblico urbano e ho ritrovato la piazza. Ecco, l’ho sentita così:

Quando e fino a quando vige nella sua costituzione materiale e sociale uno spazio denominato “piazza”? La parola è antica. In greco platêia, sostantivale da platys,‘largo, ampio, vasto’. L’ agorà era assai ampia. Secondo Camillo Sitte (1889) nel Medioevo e nel Rinascimento le piazze urbane avevano una fervida e pratica utilizzazione per lo svolgimento della vita pubblica, e presentavano una stretta concordanza con gli edifici circostanti. Mentre oggi - scriveva - servono tutt’al più come posteggi di veicoli e perdono sovente ogni collegamento artistico coi fabbricati.

A mio parere il momento della fine dovrebbe retrocedere nel tempo. La piazza italiana vivente una straordinaria completezza d’architettura e di socialità culmina nel Medioevo e muore alla fine del Trecento o al principio del Quattrocento, salvo rari sprazzi di vitalità nei secoli successivi: nelle parti popolari della città, ma si tratterà di strada piuttosto che di piazza; non esisterà affatto il senso di platys. Oppure sarà una città eccezionale, Venezia, che esibirà i suoi campi e campielli.

Poteva essere uno slargo, come una lacerazione del tessuto di stradette e case fittissimo, un chiarore desiderato e trovato dalla comunità. Per esempio, a Gubbio, non il magnifico alto terrazzamento prospiciente il Palazzo dei Consoli, ma, appena lì sotto, la piazzetta della Chiesa di San Giovanni Battista. Oppure, come il Campo di Siena o la Piazza del Popolo a Todi, era spazio appunto vasto, conchiuso dalle cortine edilizie, in ogni caso fortemente progettato: perlomeno nel significato di un concerto della popolazione per una comune scelta, diremmo ora “urbanistica”. Uno spazio altamente organizzato e certamente identificato dalle singole persone, dai gruppi sociali, dall’insieme della cittadinanza quale luogo riassuntivo della città intera, quasi fosse esso la città intera.

Il fondamento della piazza posava su determinati contenuti sociali. E’ infatti per la mancanza di questi che oggi non la possediamo, anche laddove esiste uno spazio congruo, persino spazio antico persistito uguale. In primo luogo il recinto di case, talora interrotto solo dalla Chiesa o dal Palazzo Comunale, era intensamente abitato, vi risiedevano numerose persone che vi entravano e ne uscivano da e verso lo spazio comunitario. Le finestre “abitate” erano occhiuta costante presenza. Al livello del lastricato si aprivano miriadi di attività, magari collegate con gli alloggi superiori, artigianato, commerci, trasporti, e ancora stanze per persone... o per animali. C’era andirivieni, incrocio, incontro, conoscenza: gente di lì e gente di altri quartieri contrade sestieri. Si facevano affari, contratti chiacchiere. Non sto mitizzando, penso a cosa abbiamo perduto: la possibilità di praticare rapporti sociali in uno spazio pubblico riconosciuto, appagante e affabile perché intimamente tuo in quanto percepito da tutta la comunità come massima espressione di ricchezza funzionale e infine di bellezza.

Peraltro si dispiegavano quei rapporti non tanto perché esisteva la piazza quanto perché di essi necessitava una specifica formazione economico-sociale che nel contempo li determinava. Oggi non possiamo o non sappiamo praticare rapporti sociali umanizzati e umanizzanti perché la società è costituita in un modo che non li favorisce, anzi li rifiuta. Né costruendo oggi una bella piazza, disabitata o abitata che sia, li determineremmo. Lo spazio-piazza di allora si presentava a sua volta come necessario. La comunità l’aveva voluto perché sentiva di aumentare così le occasioni di espandere se stessa, non solo sul piano economico.

Nell’immaginabile itinerario attraverso le piazze italiane quale potrebbe rappresentare il punto di snodo, anzi di frattura? Emerge un luogo emblematico, La Piazza Pio II Piccolomini di Pienza (potremmo considerarla oppostamente alla Piazza del Mercato di Lucca, altrimenti emblematica). Uno spazio urbanistico-architettonico di grande bellezza, dimostrativo del contrario rispetto alla vera piazza, il modello medievale che ho descritto. Il popolo abitante è sparito. Mancavano quei contenuti, quel modo di esistere sociale funzionale estetico del recinto e della plateia. Palazzo Comunale, Palazzo Vescovile, Cattedrale, Palazzo Piccolomini. Bernardo Rossellino colloca oggetti architettonici nello spazio, li giustappone con raffinata sapienza, li fa dialogare senza troppa familiarità nel loro consistere di massa-volume e composizione architettonica. Istituisce un luogo insigne dei poteri che sembrano trarre forza e accentuare superiorità proprio dall’armonia numerica di rapporti calcolati sul filo d’equilibrio fra reale e irreale. (L’ispirazione dello spazio metafisico di Giorgio De Chirico retrocede nella storia fin qui?). E’ la piazza in cui non si abitava, si andava, per funzioni religiose o civili, per necessità di richieste e di suppliche ai poteri, forse preoccupati e intimiditi...

Ancor oggi si va in piazza, forse disperatamente. A Milano Piazza del Duomo è non-piazza per eccellenza. Singole persone e piccoli gruppi vi si ammassano, nei fine settimana è una folla. Provengono dalle periferie, dal circondario, dalle città prossime (non parlo dei turisti, di giapponesi o svizzeri). Nessuno abita il sito. Tutti sono estranei, tutto lo spazio e tutti gli edifici sono stranieri. Nemmeno i capannelli di immigrati riescono a portare un segno nuovo, anzi antico. Restano seduti sui gradini del Sagrato, qualche parola dentro il gruppo, forestieri, come tutti gli altri.

Di qui potrebbe cominciare un altro discorso. Dal punto di vista adottato in questo commento tutte le piazze esistenti sarebbero spazio perduto e non più ritrovato. Anche la veneziana Piazza San Marco è non-piazza per eccellenza, proprio come la milanese; anzi, l’appartenenza e la frequentazione sono ancor meno riferibili a un qualche residuo di sentimento personale e collettivo della città. “Abitata”, posseduta da cittadini comuni, non i potenti procuratori e i loro subordinati, non lo è stata mai. Mi domando: tuttavia la grande differenza di architettura urbana, o semplicemente la bellezza architettonica di Piazza San Marco e la mediocrità di Piazza del Duomo (la facciata della chiesa è muta, anzi il post-gotico ottocentesco, soprastante alla maniera cinquecentesca tebaldiana, emette suoni falsi, inoltre accompagnati dai versacci del fascistico Arengario) non distinguerebbero una possibilità? Ossia, l’architettura urbana delimitante gli spazi pubblici potrebbe trovare oggi una peculiare capacità di influenzare le occasioni di concordanza sociale, di pensamento collettivo? O è vero che ormai le persone devono rassegnarsi a praticare come piazza deprivata di antichi valori, vale a dire falsa piazza che separa invece di unire, gli spazi interni dell’ipermercato con il loro silente, indifferente ma brutto contorno?

Milano, 24 novembre 2006

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