RICORDO
Aldo Natoli, un comunista per amico
di Rossana Rossanda
È sulla fine degli anni cinquanta che ho conosciuto Aldo Natoli. Lui era Roma, io Milano, lui il quadro più rilevante di quella federazione, io un quadretto della federazione milanese, lui all'ultimo processo del regime nel 1936, quando io ero ancora al ginnasio, lui deputato e consigliere comunale in Campidoglio che aveva assestato, assieme agli ex azionisti romani, il primo duro colpo alla speculazione con il famoso «Capitale corrotta, nazione infetta», io che facevo il mio apprendistato a Palazzo Marino, lui da tempo, forse da sempre, nel Comitato centrale del Pci ed io appena entrata. Là ci eravamo, se si può dir così, «annusati», a qualche anno dal 1956, rientrata ogni speranza in un cambiamento dell'Urss, ma il nostro partito in crescita e in eccitazione. L'accento comune, che aveva permesso di ascoltarci e riconoscerci era: più avanti, più a sinistra - una sinistra che non aveva niente a che vedere con lo stalinismo che, una volta per sempre e senza dovercene mai pentire, avevamo capito essere di destra.
Aldo era un bellissimo uomo, agile ed elegante, di quelli che vestono sempre perfettamente e allo stesso modo sia che entrino alla Camera o in una sezione della Garbatella, era un medico ma faceva il militante comunista a tempo pieno, parlava tedesco e aveva in alcuni eminenti scienziati antifascisti tedeschi uno dei riferimenti del cuore, suo fratello era il francesista Glauco Natoli. Fui dunque lusingata quando mi invitò, un giorno del Cc, a colazione. Ricordo una giornata di sole, una caffetteria in via Veneto, l'immediato intendersi nel giudizio, in quel che ci premeva e avremmo voluto. Al momento di pagare, l'inappuntabile gentiluomo cerca inutilmente il portafoglio, l'aveva lasciato in un'altra giacca e il suo, per me assai meridionale, imbarazzo, ci mise in allegria. Eravamo diventati amici e lo siamo rimasti sempre.
Compagni e amici. Nella stupidità attuale neppure si immagina che cosa è stato il legame fra comunisti allora, un rapporto totale e riservato, un vedersi camminare assieme, inciampare e raddrizzarsi assieme, sorridersi da lontano. Non credo di aver messo piede in casa sua, né lui nelle mie due stanze a Roma, quando le ebbi. Una volta mi mostrò un disegno di Bruna, e così venni sapere che aveva anche una figlia. Senza di lui sapevo di Claudio. Oggi so che pensare della distinzione fra pubblico e privato, ma so anche che allora ci fu un modo di essere pubblico che non poteva essere più interiore e interiormente condiviso.
Una differenza c'era fra noi sul rispettivo polo di interesse: Natoli era una figura carismatica per il popolo di Roma, lo ascoltavano dovunque, conosceva tutti, sapeva parlare allo stesso modo, senza fronzoli né lunghezze, in piazza e in Parlamento, ma la sua testa non stava a Roma, scrutava nelle vicende del comunismo internazionale. Io ero stata tutta dentro Milano, nella vicenda d'una classe operaia che il partito elogiava ma non prediligeva, mi volevano abbastanza bene ma carisma zero, la testa interamente in Italia sul presente.
Aldo aveva sentito la sfuriata di Togliatti su Amendola quando questi, per la prima e ultima volta nella sua vita, aveva definito un peso il rapporto con l'Urss. Io pensavo alla Breda e ai pendolari dalle cinque alle otto verso l'entroterra milanese. Ci pareva, e tutto sommato era, lo stesso identico problema.
Nel '58, credo, Togliatti ribaltò la molto ortodossa redazione di Rinascita, sua rivista personale, immettendovi dei bizzarri come Natoli, Trentin, altri giovani e me. In quella riunione mensile, cui non mancava mai, si discorreva con libertà - per libertà intendevamo allora, ma è insolito oggi, suonare ognuno sullo stesso filo musicale, che tutti interpretavamo e nessuno avrebbe spezzato (forse come nel jazz dei tempi gloriosi). Nei momenti migliori degli anni Sessanta fu così, dopo la morte di Togliatti la sfida divenne conflitto. Io dirigevo gli intellettuali, nel senso che mettevo fine alle direttive care ai Sereni e agli Alicata, Ingrao e Reichlin aprivano un pericoloso dibattito sul centrosinistra imminente, i colpi che ci menavamo non erano leggeri.
Nel 1966 cademmo tutti, Ingrao con onore, Natoli confermato come figura nobile ma periferica, Pintor fuori da l'Unità, Castellina fuori dai giovani, Magri fuori dal lavoro di massa, io fuori del tutto da qualsiasi incarico. Gli ingraiani furono definiti dall'occhiuta direzione del Pci prima che da se stessi. Nel 1968, studenti e invasione della Cecoslovacchia ci trovano tutti dalla stessa parte. Al XII Congresso votammo tutti, nelle rispettive istanze, contro le tesi della direzione. Natoli, Pintor ed io fummo, per così dire, distillati fra coloro che restavano ancora nel Cc, pochi ma rispettati, rispettati ma pochi. E là ci infilarono come farfalle gli obiettivi dei fotografi ammessi a riprendere i tre che il Cc radiava. Per aver fatto e mantenuto fermo il manifesto rivista. A Aldo Natoli, che parlò per ultimo dopo tre lunghi dibattiti, non fu perdonato che dicesse: non occorre una tessera per essere comunisti.
Del manifesto abbiamo parlato altre volte. A guardar bene, si era coagulato in tutti gli anni Sessanta. Il mensile che decidemmo di fare, andando ogni giorno in piazza del Grillo, fu un bel lavoro. Il suo successo fu strepitoso. Aldo, che era tornato dal Vietnam e vi aveva molti compagni, scrisse soprattutto sul comunismo internazionale e avrebbe fatto, assieme a Lisa Foa, tre pezzi sulla Cina di Mao che, a mia conoscenza, sono rimasti senza uguali in Italia. Non fu entusiasta quando si passò al quotidiano, opera soprattutto di Pintor, ma vi lavorò come sempre, assieme a Lisa Foa, Luca Trevisani e me e con successo. Su due questioni puntò i piedi, sull'andare con la nostra lista alle elezioni nel 1972 e sul diventare presto un partito. Ero dello stesso avviso, ma più accomodante di lui. Lui era più anziano, più provato, più scettico sui tempi e forse sul fine. Fece la campagna elettorale ma non andò oltre. Oggi, con gli occhi del femminismo che allora non conoscevo, penso che i tre uomini, Magri, Pintor e Natoli avevano idee più simili di quanto permettessero i loro caratteri. Sono le donne che fanno precedere al carattere le idee. Nessuno fece clamore, quando prese le sue decisioni, non ci fu un giorno in cui si consumarono adesioni e rotture. Aldo restò un amico ma sempre più appartato, con un suo giudizio ben fermo, che noi più giovani non volevamo ammettere: il comunismo avrebbe richiesto tempi più lunghi. Non so se immaginasse con quanta disinvoltura i cugini di Amendola e i figli di Berlinguer avrebbero fatto a pezzi il partito dei comunisti.
Studiava e scriveva. All'Istituto Gramsci scoprì il carteggio, intonso, fra Antonio Gramsci e Tatiana Schucht, la compagna russa cui alcuni, forse l'esecutivo dell'Ic, affidò la cura del prigioniero ormai nel carcere di Turi. Tatiana era sorella di Julia, sposata da Gramsci a Mosca, e dunque aveva diritto di visita a nome della famiglia. Gli sarebbe rimasta accanto per oltre dieci anni, andando a Turi appena ne aveva il permesso, portandogli libri e le povere cose di cui aveva bisogno, fino alla semilibertà in una clinica di Formia e poi, sempre più ammalato, nella clinica Quisiana di Roma, dove si sarebbe spento nel 1937.
Di Tatiana, che chiama Antigone in uno dei suoi libri, Aldo quasi si innamorò, tanto era lei stessa innamorata di Antonio, senza dirglielo né dirselo, ricevendo tutte le sue angosce e qualche volta le sue ire, devota alla sorella e alla sua curiosa famiglia, e insieme più fiduciosa nel Pcus che nel Pc d'Italia. Non scrisse che cosa pensava dei sospetti di Antonio su una lettera, che gli parve incongrua, di Grieco né dell'isolamento in cui lo lasciarono i compagni di galera quando criticò la linea del «muro contro muro» dell'Ic. Gramsci non capiva perché Togliatti non facesse il massimo per ottenere la sua liberazione. Con uno scambio? Per mezzo del Vaticano? Stava sempre peggio, della sua sofferenza e amarezza Tatiana fu indolenzita testimone, alla fine convinta di una sorta di persecuzione degli italiani di Mosca, infuriata perfino con Piero Sraffa, accorso per parlare con Gramsci prima della fine. Che cosa si dissero non sappiamo. Certo Antonio dovette scoprire molte verità. Non era davvero libero, era stato condannato non solo dai fascisti, come aveva già scritto, non sarebbe andato né a Mosca né nei pressi di Ghilarza. Pochi giorni dopo morì. Tatiana raccolse le sue cose, mise in salvo i quaderni, lo fece incenerire e seppellire in un funerale senza seguito, tornò nell'Urss e vi morì durante la guerra.
Di questo carico di dolore nessuno ha scritto come Aldo Natoli - anni prima, forse, e anche lui non amato dal Pci, Peppino Fiori. Neanche i gramsciani, mi sembra, hanno adorato questo outsider, precisissimo ma non nella cerchia degli addetti ai lavori, che nel destino di Gramsci scrutava le pieghe terribili del comunismo degli anni Trenta, all'epoca di Stalin su cui avrebbe scritto un altro bel libro. Su Togliatti, Aldo non ebbe mai uno sguardo men che severo.
Non so se ne abbia scritto e se lo troveremo nelle sue carte. Dopo la morte di Mirella, la moglie, da alcuni anni non stava più bene. Non avrebbe cambiato la sua vita per un'altra, ma le solitudini del secolo le ha conosciute tutte. Sotto il fascismo quella del carcere, poi l'impegno della resistenza e il breve entusiamo della rinascita, presto la durezza della guerra fredda nella Roma papalina ma colorata di rosso, le asperità degli scontri nel partito, altra solitudine nel 1956, altra speranza nei Sessanta, poi l'esclusione dal partito, nuova speranza e nuove difficoltà nel manifesto e, dopo, il ritiro. Solitudini mai esibite, sempre nella sua eleganza e riserbo. Non credo che abbia mai chiesto aiuto, né gli è stato dato, né l'avrebbe tollerato. Era un comunista, stirpe di signori nel Novecento. La terra gli sarà lieve.
PARLA PIETRO INGRAO
«La militanza e l'amicizia»
di Tommaso Di Francesco
«Provo un grande dolore - Pietro Ingrao parla lieve, con una voce rotta dall'emozione che lo interromperà più volte nelle risposte - e non solo per la grande stima ma per l'affetto che io e tanti come me sentiamo per Aldo, per la sua umanità così profonda e così indirizzata alla militanza, insomma, puoi capire quanti ricordi adesso passano per la mia mente e quante immagini di fratellanza con una figura come Aldo, così fortee appassionata...è una grande perdita.»
Come vi eravate conosciuti?
«L'ho conosciuto alla fine degli anni Trenta.. Io ricordo gli incontri che abbiamo avuto al momento in cui si formò questa aggregazione politica comunista, nell'area romana e lui fu in prima linea nella costruzione di questo schieramento. Era pieno di passioni e poi contemporaneamente aveva anche un'ironia,sempre, quando parlava poi delle nostre lotte, dei nostri tentativi e anche degli approcci che facevamo, della visione in generale della lotta nel mondo».
Come maturarono le tue, le vostre scelte politiche?
«Per me sia l'incontro con lui, sia un po' il mio modo di leggere le cose maturarono tra il '36 e il '39. Direi che è lì che per me avviene lo stacco dalla passione per la letteratura e l'impegno politico a tutto campo e lì conobbi anche la sua umanità. Tieni conto che ci fu anche una presenza femminile, la mia fidanzata, Laura Lombardo Radice era molto amica di Mirella che è stata la compagna di Aldo e questo intreccio di passioni umane e di insieme impegno nella cospirazione e nello schierarsi furono parecchio fuse e fecero per me un insieme molto stretto tra la passione politica e al tempo stesso l'amicizia umana».
Quale fu l'evento che caratterizzò l'impegno comunista e che ruolo ebbe Aldo Natoli?
«Sono emozionato al ricordo, scusami. Per me il punto chiave dell'impegno ed insieme quindi la conoscenza del mondo con cui poi dopo imparai a cospirare fu l'aggressione di Franco in Spagna, lo sbarco, l'attraversata dello stretto di Gibilterra e l'inizio della guerra fascista e nazista spagnola. Lì fu un evento che mi disse che tutto cambiava nella mia vita e fondava soprattutto ed in primo luogo la capacità di militanza e come allora bisognava procedere con pienezza, direi, d'impegno nell'azione quotidiana alla pratica e alla predica della lotta comunista e per la liberazione dell'Europa. Questi prodromi che poi sfociarono nella straordinaria, grande, emozionante guerra di Spagna mi trascinarono alla cospirazione e all'impegno militante e in quegli anni l'incontro con Aldo è stato di grande importanza. Con Aldo, con Lucio che erano nel carcere di Civitavecchia e che per noi erano grandi punti di riferimento, furono loro gli esempi che ci trascinarono all'azione».
Poi, nel dopoguerra, c'è stata una lunga storia di rapporti di militanza nel Pci. Anche lì c'era Aldo, nei momenti cruciali come l'attentato a Togliatti, o come nell'impegno rigoroso contro le trasformazioni sociali e di potere della città di Roma, con la campagna memorabile, giornalistica e politica «Capitale corrotta, nazione infetta»...
«Sì, fu il suo un lavoro proprio sulla metropoli. Sul cambiamento della metropoli e questo sogno anche della nuova capitale aprì per tutti noi, nel partito ma anche fuori, uno squarcio capace di portare tutta una nuova generazione all'impegno militante, quando tutta la vita, tutta la giornata viene presa e viene spostata a lavorare per il comunismo e per la rivoluzione».
E alla fine degli anni '60 ci fu la questione del manifesto, e fu una rottura dolorosa...
«Bè, furono vicende laceranti e lì io pure sbagliai e non seppi realizzare l'invenzione dello scarto che mi portasse a capire la novità anche dell'impegno di compagni come Aldo, Rossana. Lì commisi degli errori che ho ancora duri nella mente, però poi ripresi una conoscenza e un contatto con Aldo che mi restituì tutta la forza della sua umanità. In questo ci fu anche un intervento della mia compagna, Laura, che veniva dal ceppo dei Lombardo Radice. S'impegnò nell'incontro con la famiglia di Aldo e quindi la trama dell'amicizia e del rinnovamento si allargò ancora di più, divenne più stretta. In qualche modo l'amicizia con Aldo divenne ancora più salda».
Se tu dovessi raccontare ad un giovane che cosa perdiamo con Aldo Natoli, cosa diresti?
«È una perdita grande, quella di una figura che aveva una capacità intensa di vivere e suscitare militanza e coinvolgimento umano. Una perdita grande...»
MEMORIA
14 luglio 1948, l'attentato a Togliatti
di Luciana Castellina
«Il Pci - amava ripetere Togliatti - è una giraffa». Intendeva dire che era un animale bizzarro, anomalo, molto dissimile dagli altri partiti comunisti. Ebbene, Aldo Natoli è stato, sin dall'inizio, una giraffa nella giraffa e io, quando l'ho incontrato per la prima volta, sono in effetti rimasta sbalordita. Era il 18 novembre 1947 e si votava per le elezioni amministrative di Roma: la sinistra unita nel Blocco del Popolo, simbolo l'effige di Garibaldi. La sera prima, in una colluttazione fra ragazzi che attaccavano gli ultimi manifesti, a Piazza Vittorio, un giovane democristiano, Gervasio Federici, era rimasto sul terreno, ammazzato. Furono accusati e arrestati a casa loro molte ore dopo un gruppo di giovani comunisti. Erano tempi feroci e la provocazione all'ordine del giorno. Questa era destinata a influenzare il voto e lo influenzò, seminando il terrore dei «rossi». Ricordo bene quel giorno perché fu quel giorno che, rompendo i restanti indugi, chiesi la tessera del PCI, misi piede per la prima volta nella sede della Federazione romana e conobbi Aldo Natoli, che poco dopo ne divenne segretario. Io, certo, sapevo che i comunisti non mangiavano i bambini, ma per una ragazzetta come ero io non era da poco scoprire, in quel duro `47, la guerra fredda appena scatenata, l'anticomunismo più rozzo all'apice, che il capo dei «rossi» della capitale era un intellettuale particolarmente raffinato, sotto il braccio sempre opere letterarie preziose o un disco di musica del `700 («dopo non c'è più stata musica all'altezza», ricordo che mi disse nella prima conversazione personalizzata e le sue parole hanno segnato il mio gusto da allora).
Negli anni successivi, nelle tante riunioni nello stanzone di piazza S. Andrea della Valle, o nel salone della sezione Ponte Regola, in via Banchi di S. Spirito, dove si tenevano gli «attivi» del martedì, ho avuto modo di capire che quell'intellettuale così difforme dal cliché dei dirigenti «rossi» dell'epoca era anche il leader riconosciuto - amato, stimato - dei comunisti romani. L'uomo di cui avevano fiducia, non solo per le sue analisi brillanti (ricordo il suo rapporto sull'edilizia romana, al terzo congresso della Federazione, nel dicembre del `47 - pochi mesi dopo uno sfortunato sciopero generale per le case popolari e il risanamento delle borgate - in cui individuò il nemico vero, la proprietà fondiaria dell'aristocrazia nera e l'incipiente affarismo bancario, contro ogni iimpostazione assistenzialista); ma anche nei momenti drammatici, nel fuoco dello scontro. Ho ancora impressa nella memoria la sua immagine quel 14 luglio 1948 quando, solo poche ore dopo l'attentato a Togliatti si riversò sul centro di Roma paralizzato da un immediato sciopero generale, a bordo di improvvisati gremiti trasporti, il popolo inferocito delle borgate e tutto poteva accadere. A piazza Colonna furono Aldo Natoli e, se non ricordo male, Sandro Pertini, a cercare di calmare i compagni, a far defluire il corteo.
Solo l'autorità indiscussa che gli veniva riconosciuta poteva riuscire. Aveva alle spalle, è vero, la lotta clandestina e il carcere che gli avevano dato prestigio; e aveva il sostegno di Edoardo D'Onofrio, un uomo che da lui non avrebbe potuto esser più diverso e che però ebbe la lungimiranza di sceglierlo come suo delfino e che a tutti noi, in un Pci ancora tanto operaista, insegnò a occuparci del sottoproletariato della cintura rossa senza disprezzare né ladri né puttane, ma senza nemmeno populismo o compiacimento, e anzi per portare a Primavalle o al Tufello cultura e coscienza di classe. E «coscienza nazionale», come si diceva allora. (Non è un caso se quando, nel `60, scoppiò nel Partito la polemica su Pasolini, quel gruppo dirigente si schierò dalla parte dell'autore di «Una vita violenta»). È così che è stato costruito il «partito nuovo», anomalo come una giraffa. Poi sono accadute tante cose e nel `69 ci siamo ritrovati, con Aldo, nel Manifesto. Ho voluto ricordare in questo giorno doloroso le pagine più antiche della sua storia di militante comunista, quegli anni in cui il centro delle nostre vite era quel palazzo un po' scalcinato fra corso Rinascimento e corso Vittorio, negli uffici e alla mensa dove per tanto tempo abbiamo continuato a consumare assieme il pasto di mezzogiorno e dove molti di noi, un po' più giovani, hanno imparato quasi tutto.
UN NASTRO DI PAROLE
«Ho conosciuto gli operai e i contadini in carcere»
di Alessandro Portelli
Nel 1987, aggirando un'antica soggezione, andai con Nicola Gallerano a parlare con Aldo Natoli per un numero su Roma dei Giorni Cantati. Ci raccontò l'impatto nel dopoguerra con una sconosciuta Roma popolare, in termini resi emozionanti da quel suo ritegno rigoroso, da un senso della propria diversità che fonda una passione senza populismo: «Io sono un meteco a Roma, un siciliano che ha vissuto sin dalla mia prima giovinezza qui», spiegava, «ma non posso dire di essermi mai profondamente acclimatato con gli umori popolari. In fondo, io prima di diventare comunista ero un giovane intellettuale aristocratico. O per lo meno pretendevo di esserlo. Ma stavo molto bene con loro; e in questo forse vi era il ricordo del modo come io mi ero proletarizzato, in un certo senso, quando stavo in galera. Però dal punto di vista culturale in fondo io ho mantenuto sempre questa ristrettezza - stavo per dire autonomia, ma preferisco dire ristrettezza aristocratica». «Nell'attività politica che ho svolto prima di essere arrestato, fra la fine del `35 e la fine del'39, non ho mai avuto un contatto con un operaio. Il partito ci indicava l'interdizione di avere contatti in ambiente operaio. Questo derivava (anche) dal fatto che l'ambiente operaio romano, di sinistra, comunista in particolare, era stato semidistrutto dalla repressione, e dall'infiltrazione, poliziesca. Quindi io non avevo mai conosciuto un operaio, un contadino. La mia prima conoscenza avvenne in carcere. E rese più agevole dentro di me lo svilupparsi di alcuni processi di mitizzazione relativamente alla classe operaia e ai contadini. Cioè, quando io ricordo i rapporti che io ebbi in carcere, con operai e contadini, debbo resistere alla mitizzazione. Capisci?» C'è chi mitizza la classe in astratto, e poi si dice deluso; e chi costruisce sulla conoscenza un legame che dura tutta la vita.
Riascoltando il nastro, mi accorgo che «capisci?» non è un intercalare ma la parola chiave: non racconta avventure, del passato, ma ci aiuta a capire che cosa è Roma, che cosa siamo noi. I fornaciai di Valle Aurelia, le donne di Trastevere che andavano al Divino Amore ma erano furiose contro l'articolo 7, il Quarticciolo («al Quarticciolo c'era il Gobbo, in quel tempo. Capisci? Quindi c'era un intreccio, fra le frange del partito e non solo questa piccola delinquenza locale ma il clan del Gobbo. E il Gobbo pretendeva di essere lui il comunista, lì»): «Capisci, noi avevamo verso il sottoproletariato delle borgate, una posizione che non aveva niente a che fare con il perbenismo. E in questo magma sottoproletario, con una percentuale altissima di immigrati del Sud - senza lavoro, gente che si arrangiava - il partito aveva un enorme prestigio. Questi vedevano il partito come lo strumento della redenzione». Non si trattava solo di andarci, nelle borgate, ma di riportarle dentro Roma: «La lotta contro il patto Atlantico: come avremmo potuto fare quella lotta nel centro di Roma se non ci fosse stata la partecipazione delle borgate? Ma alla fine del `47, sulle questioni della disoccupazione, noi facemmo uno sciopero generale che durò due giorni. Con una azione, organizzata, formidabile - di interventi nel centro e nella periferia. E perfino con azioni gappistiche: nel senso per esempio di paralizzare i trasporti distruggendo gli scambi dei tram; oppure spargendo i chiodi a quattro punte. Ma in certe borgate organizzavamo scioperi a rovescio. Per esempio, costruivamo le strade». Nel congedarci, raccontava: «Giorni fa mi ferma per strada un tranviere» (l'amore di Natoli per Roma proletaria è stato intensamente ricambiato) «e mi chiede: Natoli, che fai? E io: sono un comunista senza partito». È doloroso. Ma da quel giorno sono stato fiero di esserlo anch'io.
ALDO NATOLI
Vita e storia di un comunista «senza partito»
Aldo Natoli (Messina 20 settembre 1913- Roma 8 novembre 2010) è stato medico, antifascista e deputato del PCI per cinque legislature.
Laureatosi in medicina e chirurgia, fu inviato dall'Istituto italiano del cancro all'Institut du cancer a Parigi nel 1939; partecipò con Bruno Sanguinetti, Lucio Lombardo Radice e Pietro Amendola al gruppo comunista romano, una delle esperienze più emblematiche del nuovo antifascismo che si stava formando in Italia alla fine degli anni '30; stabilì, insieme con Bruno Corbi, un collegamento con il Centro estero del Pci a Parigi in stretto contatto con il fratello Glauco, lettore di lingua italiana all'Università di Strasburgo. Rientrato in Italia, fu arrestato nel dicembre 1939 insieme ai militanti del gruppo di Avezzano (tra cui Bruno Corbi e Giulio Spallone) e condannato a cinque anni di carcere dal Tribunale Speciale. La «scuola del carcere» fu, come egli stesso ebbe a testimoniare nel libro «Il Registro», decisiva per la sua definitiva «scelta di vita» comunista.
Dopo tre anni di reclusione a Civitavecchia, poté avvalersi di un provvedimento di indulto e di amnistia e fu scarcerato nel dicembre 1942. Dopo la breve parentesi del servizio militare, durante la quale si guadagnò la fama di medico antifascista, tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943 entrò nell'organizzazione del PCI. Partecipò alla Resistenza romana, lavorando alla redazione de l'Unità clandestina ed occupandosi dei contatti radio con le regioni liberate.
Dopo la Liberazione fu dapprima vicesegretario e poi segretario della Federazione di Roma e del Lazio del PCI, dedicandosi alla costruzione del «partito nuovo» attraverso una vasta azione di acculturazione politica e di crescita civile nei quartieri popolari e nelle borgate. Fu anche protagonista della grande stagione degli «scioperi a rovescio» dei braccianti e dei lavoratori del basso Lazio. Nel 1948 fu eletto deputato nel Lazio e riconfermato al Parlamento sino alle elezioni del 1972. Consigliere comunale di Roma dal 1952 al 1966, fu capogruppo del PCI in Campidoglio. Qui condusse una battaglia contro la politica delle amministrazioni centriste, contro il «sacco di Roma» da parte delle grandi società immobiliari, in stretto rapporto con le correnti culturali più avanzate in campo urbanistico. Nel 1956 entrò in contrasto con la direzione del Pci sull'invasione dell'Ungheria, pur continuando la militanza nel partito. Negli anni '60 fu impegnato sulle tematiche delle riforme di struttura, a cominciare dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica. Nel 1965 fece parte di una delegazione del Pci che si recò in Vietnam, incontrando il presidente Ho Chi Minh e aprendosi ai temi dell'internazionalismo e della lotta per la pace.
Nell'ottobre 1969, dopo l'invasione della Cecoslovacchia, in dissenso con la direzione del Pci sui rapporti con il Pcus e sul «carattere socialista» dell'Urss, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri e Luciana Castellina e fu tra i fondatori della rivista e del quotidiano il manifesto, per il quale curò il settore internazionale.
Distaccatosi dal gruppo e poi dal giornale, si è dedicato per un ventennio ad un'intensa attività storiografica, pubblicando saggi e volumi sul comunismo cinese, sulle origini del stalinismo, sulla storia del PCI e sulla vita e l'opera di Gramsci. Su questi temi ha svolto corsi presso l'Università di Urbino e seminari presso la Freie Universität di Berlino.
(s. d. r.)