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Michele Bocci
Al pronto soccorso anche per l’influenza la rivolta dei medici “Cambiamo le regole”
13 Gennaio 2015
Articoli del 2015
«I pronto soccorso in Italia soffrono di vari mali che non si riescono a curare. Ormai i dipartimenti di emergenza sono presi da molti come unico punto dove curarsi. In particolare il territorio non è in grado di seguire le persone».

La Repubblica, 12 gennaio 2015 (m.p.r.)

Fuori, le ambulanze in coda. Dentro, le barelle nei corridoi, i medici e gli infermieri che corrono da una parte all’altra, i pazienti che si lamentano. Non è un fatto di latitudine, per una volta. Torino e Genova, Ancona e Roma, Napoli e Lecce, non fa differenza: i pronto soccorso in questi giorni sono in crisi ovunque. Arrivano tanti anziani con uno stato di salute già precario, indebolito dal freddo e dall’influenza e nei reparti ci sono pochi letti dove metterli. I loro casi si aggiungono al continuo viavai di persone con problemi banali che non hanno voglia di affrontare una lunga lista d’attesa per ottenere una visita e un accertamento radiologico (peraltro pagando il ticket) e chiedono risposte rapide alle strutture di emergenza. I cosiddetti «casi inappropriati»: pazienti che magari in questi giorni si presentano per il virus stagionale anche se non hanno nient’altro che la febbre. Evidentemente non vengono scoraggiati più di tanto dai ticket per i codici meno gravi disposto alcuni anni fa, perché spesso il costo è basso o la tassa non è richiesta. Paradossalmente, sono proprio i pazienti che si lamentano di più quando c’è un po’ da aspettare.

I pronto soccorso in Italia soffrono di vari mali che non si riescono a curare. E così si allargano, diventando una parte sempre più significativa degli ospedali, impegnati anche con i reparti di degenza magari destinati ad attività programmate a dare risposta ai casi urgenti. Ma non basta, perché in certe giornate è il caos. In un policlinico si possono vedere anche 200 - 250 pazienti in ventiquattr’ore. Uno ogni 5 minuti. Chi aspetta si lamenta, ma anche chi lavora è in grave difficoltà. Due giorni fa il caposala del pronto soccorso del Martini di Torino, dopo un turno duro di 12 ore ha avuto un’emorragia celebrale. «Il lavoro è molto stressante per il personale. Ormai i dipartimenti di emergenza sono presi da molti come unico punto dove curarsi - dice Ornella Di Angelo, della Funzione pubblica Cgil - In particolare il territorio non è in grado di seguire le persone, in molte Regioni, come il Lazio, le tanto attese case della salute non sono mai partite. E così arrivano tutti in ospedale. Se ci mettiamo che il turn over è bloccato da tempo, e quindi il personale infermieristico è scarso, oltre ad essere piuttosto in là con l’età, abbiamo una miscela esplosiva. Andrebbero cambiate le regole».
È necessario intervenire anche secondo Alfonso Cibinel, presidente della Simeu, la società scientifica della medicina di emergenza urgenza e primario all’ospedale di Pinerolo. «Va rivisto il rapporto tra ospedale e territorio. Se quest’ultimo funzionasse meglio e ci fosse più coordinamento, troverebbero migliore accoglienza i pazienti in uscita e dalle nostre strutture e magari arriverebbero anche meno casi. Siamo un faro che rimane sempre acceso e per questo attiriamo tutti. Persone con problemi gravi, ma anche banali. Queste ultime sono circa un terzo dei pazienti che vediamo. Dobbiamo trovare il modo di ridurre il loro numero, anche se in questo periodo siamo molto impegnati su chi sta male davvero. Solo loro che dobbiamo curare, è per loro che dobbiamo trovare un letto in un reparto ».
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