la Repubblica, 3 febbraio 2017
E lui, stesso chi era? Era nostalgico della Jugoslavia di Tito Matvejevic? Della Jugoslavia, probabilmente sì. Di Tito un po’ meno. Da giovane aveva aderito alla Lega dei comunisti. Ma, nel 1974, venne espulso dal partito. La colpa: aver scritto una lettera, a Tito, in cui lo esortava a preparare la successione, a non lasciare che la Jugoslavia andasse a pezzi. Dissidente, Matvejevic è rimasto per il resto della sua vita. Quando la Jugoslavia cominciò a disgregarsi davvero, e i discorsi sulla guerra e sulla “pulizia etnica” li facevano leader e forze che si richiamavano alla democrazia, coniò il neologismo “democratura”. La parola ebbe tanto successo, che oggi viene adoperata per parlare del regime di Putin in Russia. Nemico del nazionalismo anche di quello “suo” croato, nel 1991 dovette andarsene dal Paese. Esperto di letteratura francese, approdò alla Sorbona. Nel 1994, si trasferì a Roma, insegnò slavistica a La Sapienza, dopo 18 anni di esilio tornò in Croazia. Nel frattempo, subì una condanna a cinque mesi di prigione (la pena non fu mai eseguita), per aver scritto parole che un poeta locale considerò ingiuriose nei confronti della nazione.
Per Matvejevic la vera patria era il Mediterraneo. Il suo libro più importante è stato Breviario mediterraneo (Garzanti), tradotto in 23 lingue. Vi si susseguono racconti su persone incontrate e leggendarie, analisi sulle origini delle parole, narrazioni su modi di preparare il cibo e sui nomi delle pietanze e degli oggetti, annotazioni geografiche, considerazioni sulla forma delle isole e sulla particolarità delle capitanerie di porto. Matvejevic spiega che i confini del Mediterraneo non sono determinati dallo spazio, e che quindi hanno qualcosa di mitico e immaginario; ma poi mette in guardia dalle troppo facili illusioni sulla presunta somiglianza delle persone e dei popoli. Il Mediterraneo è fascinoso perché contraddittorio e inafferabile per chi voglia classificare l’umanità e la natura a seconda delle rigide categorie. In questo senso il libro è una critica radicale della modernità, che come ha insegnato Bauman, ama la gerarchia, l’esclusione e l’eliminazione di tutto quello che disturba l’ordine prestabilito.
Matvejevic nutriva una certa diffidenza nei confronti di teorie filosofiche complicate. Contrapponeva quella che chiamava “l’identità dell’essere” a “l’identità del fare”. Siamo quello che facciamo. Per questo ha scritto Pane nostro, in cui raccontava come e perché il pane fosse al contempo un oggetto sacro da venerare e un profano saper fare il cibo. Ma pane significa anche, per una persona segnata nella storia familiare dai totalitarismi del Novecento, morire di fame: così morì suo zio, in un lager sovietico.
Negli anni della guerra balcanica Matvejevic rifletteva sulla follia dei politici; sul fatto che i padri dei leader serbi fossero suicidi. Tornato in Croazia, da Zagabria, seguiva con un certo scetticismo l’integrazione del Paese in Europa. Due anni fa, già malato, pubblicò un libro Granice i sudbine (“Confini e destini”). E in un’intervista a un giornalista croato spiegava come l’idea stessa della Jugoslavia fosse un’invenzione ottocentesca intelligente perché rendeva possibile la vita in uno spazio come i Balcani diviso tra diverse fedi, tradizioni. Diceva: certo, non ci sarà più la vecchia Jugoslavia, ma una cooperazione tra i nostri popoli è indispensabile. Per arrivare a questo, basterebbe, suggeriva, capire che le nostre memorie sono divise e spesso contrapposte. Ma il passato, se compreso ed elaborato, non impedisce di costruire un futuro comune.