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Ugo Andrea; Mattei Palladino
Acqua pubblica, acqua privata. Storie e polemiche
6 Luglio 2010
Clima e risorse
L’esperienza rivela che cosa succede quando l’acqua è privatizzata. Chi può non ripeta lo stesso errore: per esempio Chiamparino. Il manifesto, 6 luglio 2010

STORIE

A caro prezzo

Più è privata e più costa

di Andrea Palladino

La multinazionale romana Acea aumenterà le bollette fino al 20% per accontentare gli azionisti. E non anticiperà gli investimenti nelle zone in emergenza idrica. Ma, non avendo rispettato il contratto con i comuni della Provincia, dovrebbe pagare una penale di 20 milioni di euro. Che potrebbero servire a diminuire i costi per i cittadini. Ma i sindaci la salvano: rivedremo la regola

Il diavolo si nasconde nei dettagli, dice un vecchio detto. E a volte in una banale bolletta dell'acqua si può scoprire la più grande balla che viene raccontata da qualche anno a questa parte: la gestione privata e il mercato sono l'unica vera soluzione per salvare i nostri acquedotti.

Conviene partire dalla fine della storia, dalla fattura che arriva nelle case italiane. Più precisamente dei romani, la cui acqua è fornita da tempo immemorabile da Acea, società divenuta nel frattempo privata e primo gestore italiano.

Il prezzo è giusto?

La bolletta dell'acqua si basa su una variabile indipendente, vero totem della gestione privata: il ricavo garantito per il gestore. Poco importa se c'è la crisi, ad Acea - così come ad Hera o Iride, ad Acqualatina o alla calabrese Sorical - alla fine dei conti gli utili devono essere garantiti. L'esempio più classico di come il prezzo dell'acqua si basi sui diabolici meccanismi del ricavo garantito viene da Firenze, dove il sistema idrico è gestito da Publiacqua, società controllata da Acea Holding. Quando i fiorentini iniziarono a risparmiare l'acqua, la società chiese di aumentare il prezzo per compensare la flessione della vendita.

Qualcosa di simile accadrà a Roma. Dal primo gennaio 2011 la società romana potrà fatturare solo i metri cubi realmente erogati e non una cifra a forfait, un sistema che ha garantito finora un ricavo stabile e sicuro ad Acea. Un atto dovuto, visto che in questo senso la legge parla chiaramente. Ma facendo i conti la società si è accorta che avrebbe incassato meno di quanto dovuto ed ha chiesto di aumentare la tariffa, con un incremento che in alcuni casi potrebbe arrivare al 20%. Chi comanda sul tavolo alla fine sono i conti, gli utili e gli azionisti.

Se la qualità sparisce

Il prezzo dell'acqua nella capitale d'Italia ha però qualche dettaglio - decisamente significativo - in più. Il contratto che regola la gestione del servizio idrico - approvato dai consigli comunali di 74 comuni della provincia oltre che di Roma - prevede un sistema per garantire l'efficienza di Acea. C'è un parametro nel costo dell'acqua - chiamato Mall - che dovrebbe diminuire il ricavo riconosciuto ad Acea quando qualcosa non funziona. In sostanza ogni anno, secondo il contratto in vigore, il gestore deve presentare i dati sui reclami, sulle interruzioni del servizio, sulla riduzione dell'erogazione dell'acqua e su altri parametri che misurano la qualità. Alla fine - si legge sempre nel contratto - ne deriva un numero in grado di ridurre i soldi che verranno dalle bollette.

Dal 2003 - anno della convenzione con Acea - ad oggi questo parametro non è stato mai applicato. Il perché lo spiega un documento preparato dalla segreteria tecnica operativa dell'Ato 2 e distribuito ieri ai sindaci della provincia di Roma: «Fino ad ora nonostante le numerose richieste il gestore non ha integrato tutte le informazioni necessarie per il calcolo di tali parametri e risulta quindi impossibile, a meno di simulazioni, calcolare il valore reale del parametro Mall». E subito dopo l'organo tecnico che si occupa di vigilare sulla gestione di Acea prova a fare due conti: «Tale simulazione, se fosse confermata, comporterebbe una penale di circa 20 milioni di euro all'anno». In altre parole, se il contratto con Acea fosse stato rispettato e si fosse calcolato il parametro che misura la qualità del servizio, alle famiglie di Roma e provincia l'acqua sarebbe costata 20 milioni di euro in meno. Un cifra che potrebbe arrivare - secondo il calcolo teorico realizzato dai tecnici - a 160 milioni di euro, considerando il periodo dal 2003 al 2010. Cifre difficili da confermare, visto che fino ad oggi Acea non ha fornito tutti i dati richiesti e dovuti.

La risposta la società l'ha data ieri durante la conferenza dei sindaci dei comuni della provincia di Roma. «Quel parametro non ci piace», ha spiegato l'amministratore delegato di Acea Ato 2 Sandro Cecili. E subito è arrivato l'assist da chi avrebbe dovuto far rispettare quella regola: rivedremo il sistema, hanno spiegato dal tavolo della presidenza dell'Ato 2.

L'utile è sacro

Il presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti ha un ruolo importante nella gestione dell'acqua nella zona di Roma. Coordina l'autorità d'ambito e rappresenta i comuni nell'assemblea dei soci di Acea Ato 2. Non ha un gran potere in realtà, visto che Acea Holding ha in mano il 97% del pacchetto azionario, lasciando il resto diviso tra provincia e i 74 comuni gestiti. Sarà forse per questo che la sua proposta di anticipare gli investimenti nelle zone dove l'emergenza idrica dura da anni è caduta nel vuoto. Di fronte ad un utile milionario la provincia di Roma aveva chiesto che il 50% fosse utilizzato come anticipo di cassa per intervenire subito. Nessun regalo, ovviamente, perché quei soldi «Acea li avrebbe integralmente recuperati con la tariffa nei prossimi anni», come spiega l'assessore provinciale all'ambiente Michele Civita. Ma Acea Holding - che ha il controllo pressoché totale della società che gestisce l'acqua in provincia di Roma - ha risposto con un no secco: quei soldi vanno agli azionisti. In fin dei conti loro l'acqua la vendono, e a che prezzo.

ACQUA IN BOCCA

Quando speculazione edilizia ci cova

di An. Pal.

L'interesse dei palazzinari romani per Acea - primi fra tutti il gruppo Caltagirone, divenuto primo socio privato - non ha solo un valore speculativo, legato ad investimenti in un settore a ricavo garantito. Acqua e cemento sono in realtà strettamente legati. Nessun piano di espansione urbanistica può funzionare se dove arrivano i palazzi non dovessero esserci acquedotti e fognature. Sapere dove realizzare condomini, villette e lottizzazioni significa avere la certezza della presenza - più o meno futura - dell'acqua. E a volte è proprio su questo versante che giocano i gestori delle risorse idriche. Sta accadendo proprio in questi giorni ad Aprilia.

«Festa d'Aprilia» era il titolo che annunciava la scelta rivoluzionaria del comune in provincia di Latina. Il consiglio comunale a fine aprile aveva votato una delibera chiara e netta: Acqualatina deve restituirci gli impianti, visto che non abbiamo mai approvato la convenzione di gestione. La società privata partecipata da Veolia non rispose. È rimasta silenziosa, aspettando, come si dice, il cadavere del nemico scorrere sul fiume. Qualche giorno fa lo stesso sindaco che aveva promosso quella delibera, il socialista D'Alessio, ha garantito di voler cedere ad Acqualatina una nuova parte di fognatura. Il motivo di questa scelta è presto detta: senza quell'atto tanti costruttori non potranno avere l'abitabilità e vendere gli appartamenti appena realizzati. Senza acqua e senza fogne l'espansione edilizia non sarebbe possibile.

Qualcosa di analogo accade anche in provincia di Roma. Ci sono città nella zona a sud della capitale dove i depuratori servono solo la metà della popolazione. È il caso di Velletri, dove decine di cantieri sono stati realizzati in una zona con fogne a cielo aperto, senza collegamento alla depurazione. Quando chi comprerà quegli appartamenti andrà da Acea, si vedrà negare l'allaccio dell'acqua. E se il sindaco non vorrà trovarsi davanti alla porta i palazzinari infuriati dovrà contrattare con il gestore romano gli interventi.

Lo stesso - in scala maggiore - avviene con l'acqua potabile. Migliaia di persone si stanno spostando dalla capitale verso i Castelli romani, zona in eterna emergenza idrica e con la maggiore speculazione edilizia della regione Lazio. E le chiavi dell'acquedotto sono in mano ad Acea.

POLEMICA

Chiamparino, non privatizzare i servizi pubblici

di Ugo Mattei

Come ben noto è in corso una campagna referendaria volta alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato su tutto il territorio nazionale. Tale campagna chiama in modo chiaro e non ambiguo l'elettorato a pronunciarsi sull'inadeguatezza della società per azioni (anche a capitale interamente pubblico) e della logica privatistica ed aziendalistica che essa sottende nella gestione del servizio idrico integrato. Si chiede fra l' altro l'abrogazione completa dell'art 15 del cosiddetto decreto Ronchi. Il servizio idrico integrato è una specie del più ampio genere servizio pubblico, ed il decreto Ronchi infatti non riguarda il solo servizio idrico ma tutti i servizi pubblici di interesse economico. Ne segue che allo stato attuale si trova sotto esame referendario una parte cospicua della normativa ai sensi della quale sono messi a gara i servizi pubblici. I dati raccolti in tre anni di lavoro presso l'Accademia Nazionale dei Lincei e pubblicati nel volume "Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica" (a cura di Mattei-Reviglio e Rodotà per il Mulino, 2007) mostrano come quasi vent'anni di privatizzazioni in Italia abbiano comportato dei fenomeni generali e costanti: aumento dei prezzi al consumo; declino negli investimenti; aumento del budget per la pubblicità; aumento degli stipendi dei managers; aumento delle spese per le parcelle di servizi professionali quali studi legali e consulenti vari.

La visione politica del movimento referendario (che ha raccolto ormai oltre un milione di firme) è quella di far rivivere in Italia le condizioni per una piena attuazione dell'art. 43 della Costituzione, quello che governa la riserva e il trasferimento di attività naturalmente monopolistiche (come il servizio idrico) o di primario interesse generale (e qui potrebbero aprirsi scenari entusiasmanti, dalla riconversione di Termini Imerese e Pomigliano ai trasporti urbani) a «comunità di utenti e di lavoratori».

Purtroppo la lettura della delibera comunale di Torino che vuole «mettere a gara» l'intero settore del trasporto pubblico urbano (Gtt) non senza avervi prima scorporato, con un' operazione di puro diritto societario, la metropolitana (servizio per sua natura in perdita e quindi assai meno appetibile per il privato) mostra l'arretratezza che ancora domina i principali partiti del centrosinistra. La logica che informa la delibera è infatti quella puramente aziendalistica (e privatistica) nel merito, nel metodo e (ancor più fastidiosamente) nella retorica. La clamorosa superficialità giuridico-politica dell'operazione è denunciata anche dall'Agenzia per i servizi pubblici locali del Comune di Torino (un organismo indipendente di consulenza giuridico-amministrativa) nel suo parere a proposito del proposto «contratto di servizio per l' erogazione dei servizi relativi alla mobilità urbana», redatto in esecuzione della delibera comunale. Il contratto infatti sembra un caso di scuola dell'incapacità per il «principale» (il Comune) di governare le «asimmetrie informative» che favoriranno l'«agente» (la società di diritto privato che gestirà la mobilità). Purtroppo i problemi tecnico-giuridici segnalati dall'Agenzia non sono rimediabili con meri cambi del testo contrattuale per il semplice fatto che le contingenze future in una materia tanto complessa quanto la mobilità urbana non sono prevedibili e governabili ex ante. Questo limite strutturale del diritto dei contratti a governare il rapporto fra principale ed agente è ormai arcinoto nella letteratura giuridica ed economica (che infatti sempre più spesso propone il trust).

Purtroppo nel nostro sistema istituzionale "tornare indietro" dopo una privatizzazione fallimentare è estremamente difficile. Infatti le garanzie contro l'espropriazione per pubblica utilità tutelano il privato contro il ritorno al pubblico. In sostanza a Torino un'amministrazione comunale in scadenza muove passi irreversibili verso la privatizzazione di un servizio pubblico essenziale quale il trasporto locale (che andrebbe governato con la stella polare dell'ecologismo e non certo dell'aziendalismo) proprio mentre è in corso un processo referendario volto a cancellare il presupposto fondamentale (legge Ronchi) che legittima quest'azione.

Mi pare ci sia più di una ragione giuridica, politica e di opportunità perché Chiamparino rinunci al suo proposito e perché, più in generale, la cittadinanza si attivi per impedire questi colpi di coda del grande saccheggio del pubblico a favore del privato: a Torino come altrove i sostenitori politici dell'aziendalismo stiano disperatamente tentando di battere sul tempo Corte Costituzionale e referendum.

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