Sovente ripetiamo che per poter essere difesi i beni comuni devono essere riconosciuti come tali e che per riconoscerli occorre praticare il pensiero critico. Per esempio, tutti diamo per scontato che la terra sia ferma perché è proprio la terraferma ad averci garantito la possibilità di sviluppare il nostro modello di vita stanziale. La sismicità è rimossa dalla collettività, ma chi ha responsabilità di governo del bene comune «territorio» deve necessariamente tenerne conto. Male gestisce i beni comuni chi miri al profitto o alla concentrazione del potere, ed è per questo che essi devono essere governati in modo partecipato e diffuso da quanti ne assorbono i benefici e ne subiscono i costi. In questo modo, i beni comuni non rispondono alla logica della produzione ma, guardando alla sostenibilità di lungo periodo (ossia anche all' interesse delle generazioni future) devono rispondere alla logica della riproduzione: la logica eco-logica che è qualitativa e non quantitativa.
Chi mira al profitto e alla concentrazione del potere investe in modo sostanziale nell'occultamento dei beni comuni, proprio perché profitto privato e potere politico si soddisfano entrambi nel loro saccheggio. È interesse convergente tanto del potere economico quanto di quello politico, che ne è sempre più servo, indebolirne le difese democratiche (come per esempio il referendum). I beni comuni divengono molto più facilmente riconoscibili quando posti a rischio letale e la loro emersione pubblica ne facilita enormemente la difesa. In questi momenti , il potere mette in campo, disordinatamente, ogni possibile tattica per occultare la verità.
Queste considerazioni solo apparentemente astratte ci consentono di interpretare e di ridurre ad unità il dibattito politico di questi giorni. Un certo senso di tranquillità si era impadronito dell'opinione pubblica meno critica di fronte all'opzione nucleare, sebbene questa sia il principale paradigma della concentrazione estrema del potere non democratico nella società tecnologica «avanzata». L'opzione nucleare infatti non solo concentra gli investimenti energetici incanalando il patrimonio pubblico in una sola direzione, ma soprattutto richiede la costruzione di un imponente apparato poliziesco per evitare che il materiale radioattivo finisca nelle «mani sbagliate». In nome della sicurezza nucleare, siamo pronti ad accettare qualsiasi limitazione della libertà personale ed è inevitabile la militarizzazione di ampie porzioni del territorio circostante alle centrali. Paradossalmente, è la stessa portata micidialmente globale delle conseguenze di un disastro nucleare ad incentivare questa politica suicida. Proprio come nella famosa «tragedia dei comuni». Si ripete spesso che «tanto le centrali ci sono già in Francia e Svizzera e quindi il rischio c'è lo stesso e noi non ne traiamo alcun beneficio». Un tale atteggiamento egoistico, nazionalistico e di breve periodo spiega l'atteggiamento irresponsabile del governo italiano che così incrementa (a scopo di profitto e potere) il letale rischio per il nostro pianeta vivo, bene comune per eccellenza. La fede incrollabile nella tecnologia, gonfiata ad arte dal capitale, porta i più a bere la propaganda nuclearista di Veronesi, e si ripete lo spettacolo deprimente di Chicco Testa (ex presidente di Legambiente) che in televisione sdottora di terza e quarta generazione di centrali.
Ammettiamolo: se non ci fosse stato lo tsunami giapponese, al referendum sul nucleare saremmo stati forse perfino sotto il 20%, ma del resto anche quello scorso si vinse solo «grazie» a Chernobyl. In effetti, perfino molti fra quanti si sono battuti per il referendum sull'acqua pubblica non vedevano bene quello sul nucleare, pensando che ci avrebbe «fatto perdere». La tattica (vincere sull'acqua) stava facendo premio sulla strategia (invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo suicida). Ecco oggi un esempio (molto comune in politica) di eterogenesi dei fini, perché sarà proprio il nucleare a motivare adesso la partecipazione alle urne. Ecco soprattutto beni comuni emergere prepotenti e visibili durante un emergenza che scuote (letteralmente) le false certezze ed illusioni della modernità. La certezze che la tecnologia possa rendere sicuro il nucleare, un dato tanto vero quanto il fatto che la terraferma sitia ferma. L'incidente giapponese mostra come diritto e politica dovrebbero garantire un bene comune fondamentale come la sicurezza di tutti nei confronti delle conseguenze delle fughe in avanti della mitologia progressista (ciò è vero oggi in Italia rispetto a Enel Edf che vogliono fare le centrali come era vero rispetto alla Bp che ha devastato il golfo del Messico). Soprattutto esso indica come, in prospettiva ecologica, si debba apprezzare la natura dell'energia come un bene comune globale. Essa va governata nell'interesse della ri-produzione e non in quello della produzione, evitando così ogni «tragedia» dettata dall'egoismo e dalla logica di breve periodo, sia essa pubblica o privata. Per questo il nucleare va respinto e per questo dobbiamo unire ogni sforzo in questa battaglia referendaria. Respingere il nucleare significa scommettere sulla produzione diffusa ed ecologica di energia, sulla diffusione del potere e dunque sulla democrazia e sui beni comuni. Proprio come per l'acqua.
Alla luce dei beni comuni il referendum sul nucleare e quelli sull'acqua sono accomunati da una medesima logica. Occorre invertire la rotta rispetto alla false certezze del pensiero unico; denunciare una classe dirigente irresponsabile e corrotta dalla concentrazione e dalla commistione del potere politico con quello economico; aprire gli occhi rispetto all' ipnosi colettiva che per anni è stata prodotta da strategie culturali volte a occultare i beni comuni a fini di saccheggio. Occorre cominciare a pensare in modo ecologico e sistemico. La piena consapevolezza di come l'interesse comune non possa coincidere con quello dello Stato deve essere assolutamente raggiunta per far risorgere la democrazia. Ciò è assai importante nella giornata in cui le celebrazioni dei 150 anni dall'unità d'Italia producono inevitabilmente confusione fra quanto è comune agli italiani (da decine di secoli) e quanto è Stato (da appena un secolo e mezzo). Ma qui si fonda la distinzione fra identità culturale e patriottismo, quest'ultimo sempre un po' fascisteggiante.
Altro esempio di questi giorni. il patrimonio pubblico non appartiene allo Stato ma a tutti noi. Il governo in carica deve amministrarlo nell'interesse di tutti e non dilapidarlo in quello proprio, anche se politico. Ogni sua scelta di gestione deve essere giustificabile ed «imparziale». C'è quindi un dovere civile di tutti noi ad indignarci per la decisione di respingere l'election day, sperperando 300 milioni in un momento di grande crisi. La Costituzione non può consentirlo, quali che possano essere gli argomenti formalisti dietro cui troppo spesso si nasconde la cosiddetta cultura giuridica. Dobbiamo porre il governo ma anche la Corte Costituzionale e le altre magistrature di fronte al dovere di fermare questa vergogna, anch'essa figlia della confusione fra Stato e bene comune.