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Luciano Canfora
«Accusiamolo pure, ma fu meglio di Hitler»
15 Febbraio 2007
Scritti 2005
Accusato di non aver parlato male di Stalin nel suo bellissimo libro sulla democrazia, che perciò l'editore Beck ha deciso di non pubblicare, il grande storico replica. Da il Corriere della sera del 23 novembre 2005

Come ebbi a dichiarare mesi fa al Foglio di Giuliano Ferrara, io apprezzo in Stalin uno dei co-fondatori, insieme con Truman, dello Stato di Israele, la cui nascita poté darsi all'Onu grazie a quella intesa. Apprezzo anche in Stalin il fornitore di armi — tramite la Cecoslovacchia — allo Stato di Israele quando Israele fu aggredito nel 1948 dai Regni legati alla Gran Bretagna (Egitto di Faruk e Giordania). Il capovolgimento di quella politica coincise con la aberrante campagna lanciata da Stalin contro Tito e i cosiddetti titoisti nelle neonate repubbliche popolari.

Mi accadde di parlare ampiamente di Stalin su questo giornale in almeno due occasioni: quando il Corriere riprese la prefazione al mio volume Pensare la rivoluzione russa (Teti) e nel febbraio 2003, quando un po' tutti i quotidiani si occuparono del cinquantenario della morte di Stalin. In entrambi i casi la discussione si sviluppò. Ricordo un ottimo intervento di Sergio Romano a proposito della mia prefazione al volumetto ora ricordato.

Santo Mazzarino — uno dei maggiori storici italiani — usava accostare Stalin a Giustiniano (Pericle c'entra poco) per essere stati entrambi grandi costruttori, grandi despoti e grandi intolleranti. Le semplificazioni non sono sempre benefiche ma possono rendere l'idea. La cosa non buona è a mio avviso che spesso si rinunci, tuttora, a parlare di Stalin con lucida mente, come invece si fa ormai per Robespierre o per altri «sanguinari» assertori della «rivoluzione». Si scatta in piedi invece di soppesare il pro e il contro.

Peraltro, se Time proclamò Stalin nel 1944 «uomo dell'anno» una qualche ragione ci ha da essere. Se l'antifascismo europeo gli ha tributato negli anni del pericolo nazifascista schiette parole di apprezzamento e di riconoscimento, ci ha da essere una qualche ragione. Ciò che invece da parte di alcuni si desidera cocciutamente è che si assimili l'opera di Stalin a quella unicamente nefasta e distruttiva di Hitler. Del resto non sarà un caso che il nazismo abbia portato il mondo alla guerra e alla catastrofe e l'Urss no. Alla fine si è dissolta, non ha trascinato gli avversari e il mondo nel baratro.

Stalin ebbe come linea di condotta di tenersi fuori dai conflitti: fino alla cecità di non prestare fede agli avvertimenti che gli giungevano da più parti nel giugno '41.

La gestione del potere in Urss: non potrò in poche righe sintetizzare i risultati che negli scorsi decenni hanno fornito tanti studiosi. Dirò soltanto che, essendo questa discussione sorta a margine di un libro sul cammino e le forme della democrazia in Europa (sia all'Est che all'Ovest mi raccomandò Jacques Le Goff), le questioni sono due: a) quali modelli di «potere popolare» (democrazia appunto) siano scaturiti dalla rivoluzione del 1917; b) quale effettiva prassi sia stata invece instaurata in Urss e nei Paesi satelliti. Parlare del primo punto io credo sia legittimo (basti pensare agli studi di diritto costituzionale intorno alle codificazioni in Urss).

Doveroso è al tempo stesso comparare questi testi e quegli sforzi con le dure lezioni della realtà e con la prassi effettiva. Scrivevo nel mio libro sulla democrazia (p. 301 dell'edizione italiana) che «nell'ultimo tempo del governo di Stalin furono poste le premesse per la rovina del sistema». E infatti quella che era stata, fin dalla rottura con Trockij e la messa fuori legge dell'opposizione interna al Pcus, una guerra civile ininterrotta condotta con ferocia e senza esclusione di colpi, dopo la vittoria del 1945 avrebbe dovuto esaurirsi o attenuarsi. Averne perpetuato gli strumenti fu rovinoso. Su questo concetto di guerra civile riferito all'intera vicenda che va dal 1927 alla vigilia della guerra mondiale mi piace ricordare le pagine di Feuchtwanger (Mosca, 1937), lo scrittore ebreo esule poi in Usa e lì morto.

Quanto detto sin qui ha un solo presupposto: che si discorra di storia. Ma per discorrere bisogna conoscere il senso delle parole. Mi diverte un po' osservare quali fraintendimenti abbia suscitato l'espressione da me adoperata «creare un mito intorno alla Polonia spartita». Qualcuno ha pensato che io dicessi che la Polonia non era stata spartita! Invece in italiano quella frase significa che un fatto (indiscutibile) viene «mitizzato», cioè occupa tutta la scena, diventa il fatto per eccellenza. Laddove esso era uno degli aspetti del patto dell'agosto '39. Gli altri aspetti erano: la volontà di distruggere prima o poi l'Urss ben radicata nella mente di Hitler (come ha documentato Kershaw nei suoi bei libri), nonché la poca volontà anglo-francese di addivenire davvero ad un patto antitedesco insieme con Stalin (lo scrive bene Churchill nel suo Da guerra a guerra). Per non parlare dell'ostilità polacca a far passare truppe sovietiche sul proprio territorio in caso di conflitto con la Germania e per non parlare della compartecipazione polacca, l'anno prima, alla spartizione della Cecoslovacchia.

E facciamo un esempio su un altro versante: Bacque ha documentato nel volume Der geplante Tod (La morte pianificata) l'annientamento da parte Usa di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi. Erano tempi «ferrei» avrebbe detto Tibullo. Mettersi in cattedra a dare i voti e le patenti di democrazia, ora per allora, fa un po' sorridere.

Qui l'articolo di Victor Zaslawsky al quale Canfora replica

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