Prendo spunto dall’articolo di Vezio De Lucia, Grave errore resuscitare l’abusivismo di necessità, e dalla lettera di Andrea Laterza (Movimento “Mola Democratica”), Progettati nuovi ecomostri a Mola di Bari. Considerati insieme confermano localmente il modello sessantennale dell’urbanistica italiana, la storia moderna del nostro territorio. Abuso e rispetto delle regole, casualità e pianificazione, iniziativa privata e iniziativa pubblica: uno zigzag incessante che ha segnato il destino dell’ambiente, la caduta dall’angelico Bel Paese al diavolesco Malpaese. Ischia e Mola sono il recto e il verso di una moneta tante volte spesa e cambiata. Abusivismo di necessità? Un aspetto secondario e “storico” dell’abusivismo strutturale, il quale, spiega De Lucia, è connaturale al processo di produzione edilizia; anzi, a mio parere, si è radicato ben presto in una specifica forma dell’urbanistica del “fare”.
L’effettivo abusivismo di necessità si manifestò subito nel primo dopoguerra secondo quantità rilevanti, oltre che nella periferia romana, soprattutto a Milano, nei comuni dell’hinterland milanese prossimi alla città centrale. La costruzione (in parte autocostruzione) di casette, tollerata dalle amministrazioni che non sapevano come risolvere il bisogno di abitazione degli immigrati ignorato dal comune di Milano e favorita dai proprietari terrieri attraverso vendite frazionate, produsse il fenomeno insediativo, unico in Europa, definito col nome di Corea (con riferimento all’epoca – Vedi il saggio di Alasia e Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli 1960). Poco a poco i sindaci regolarizzarono gli edifici sulla base di progetti minimi “di sanatoria” presentati da geometri locali. Nacquero come dei quartieri poveri attorno a Milano e addossati ai centri storici dei comuni; case a un piano o due radunate attraverso lotti piccolissimi a configurare “per caso” una griglia più o meno sbilenca. Stradette miserevoli, nessun sevizio primario a un primo momento. Decine di migliaia di meridionali, veneti, bergamaschi delle valli e altri lombardi, sfruttati e sfiancati nel mercato del lavoro, trovarono riparo. Una singola Corea poteva ospitare migliaia di abitanti verso la fine degli anni Cinquanta, addirittura 10.000 la più popolosa, quella di Limbiate a una quindicina di chilometri dal centro di Milano verso nord.
Perché ho indugiato su un fenomeno tipico del Milanese nel tempo dei primi grandi flussi migratori? Perché niente di simile è avvenuto qui o altrove, a sud o a nord, a ovest o a est nei decenni successivi. Niente che potesse giustificarsi come abusivismo di reale necessità. Confermo con De Lucia: esclusa la forma datata relativa ai casi eccezionali di Roma e di Milano, la massa di costruzioni illegali nelle città e nel territorio aperto rappresenta una forma edificatoria intrinseca al processo sociale, parallela alla forma dovuta alla pianificazione urbanistica pubblica e alla gestione comunale dell’edilizia, oppure alla forma voluta dall’urbanistica privata per così dire sostitutiva.
Siamo propensi a identificare l’abuso edilizio con le regioni meridionali, dapprima riferendoci alle grandi città come Napoli e Palermo (pro memoria: il film di Francesco Rosi, Le mani sulla città, è del 1963), poi all’inconcepibile enorme espansione dei centri minori e soprattutto al massacro edilizio delle coste. Ma anche Milano e Roma hanno sopportato una illegalità edilizia silenziosa, nascosta. Testimonio per Milano: lo si diceva nell’ambiente di urbanisti e architetti, poi lo si è scoperto al momento del primo e dei successivi condoni: al di sopra delle linee di gronda delle case esiste un’altra città, intravedibile solo in piccola parte dalla strada, costruita illecitamente (attenzione, non parlo dei sopralzi concessi nel dopoguerra sulla base degli incentivi previsti dalla norme sulla Ricostruzione, né delle nuove oscene elevazioni mediante i falsi sottotetti promossi da certe assurde norme della legge urbanistica regionale). Quando nel 2003 funzionari del municipio contarono “i primi casi di neo-condono in 16.000” dichiararono che intanto “era lontana dalla conclusione la regolarizzazione dell’enorme abusivismo anteriore”. A Roma dev’essere stato peggio se un collega ha potuto ricordarmi che già prima della fase condonistica abitavano in spazi abusivi 500.000 persone, anche lì molte negli “arretrati”.
Certamente una rassegna esauriente dell’abusivismo strutturale nell’intero paese sarebbe lunghissima e amplierebbe il quadro ottenuto unendo i tasselli forniti da tanti ammirevoli critici succedutisi a denunciare le malefatte urbanistiche ed edilizie, quali i Borgese, i Cederna, gli Erbani…Eppure: leggiamo increduli il programma sviluppista per Mola di Bari; Andrea Laterza ci sottopone un elenco impressionante di opere previste o di piani approvati o in fieri: tutto regolare, tutto legale, tutto desiderato, tutto entro una seria “linea di finanziamento”, tutto rivendicato come necessario: una globale cementificazione direbbe Cederna. Davanti all’esempio di Mola dobbiamo ripetere a noi stessi, urbanisti, architetti, soprintendenti, artisti, amministratori pubblici, politici, imprenditori, che la violazione, la costruzione e infine la distruzione del territorio è stata causata in primis da processi legali, da decisioni ritenute legittime, dal gioco delle parti pubbliche e private in chiaro o in scuro ma sempre infine accettato e convalidato, inoltre consenzienti le popolazioni. Ecco cos’è stato ed è lo “sviluppo edilizio”, stolta locuzione, purtroppo impiegata anche da bravi colleghi, certo non attinente alle opere illegali o abusive. Uguale la responsabilità della pianificazione urbanistica pubblica e dei progetti privati, dell’accordo fra l’una e gli altri.
Tutto in regola, a Mola di Bari. La novità semmai consiste nella partecipazione di un architetto di gran nome (Oriol Bohigas) all’insensato disegno edificatorio anche nel meno immaginabile dei luoghi disponibili . Sappiamo delle scelte milanesi. I “grandi progetti” urbani cari al sindaco Albertini demandati alla triplice alleanza fra impresa, architetto (appunto, per lo più straniero, vedi Hadid, Isozaki, Lebeskind, Foster, Pei) e giunta comunale appaiono “in regola” e ne deriverebbero gigantesche cubature fuor di ogni effettivo bisogno della città reale. Le “Nuove Milano estranee” (così le ho definite altra volta), perfetto rispecchiamento del “rito ambrosiano” (così ha sempre insistito De Lucia) la cui gran madre fu l’operazione Bicocca/Tronchetti Provera/Sindaco, sono considerate legittime perché si è negato l’obbligo di un’effettiva regolarità urbanistica basata su un piano regolatore deliberato o almeno un’idea generale di città enunciata pubblicamente.
Il modo milanese, procedura peculiare per un’edilizia speculativa travestita da architettura coerente a un comportamento definito moderno per non dire liberistico anarcoide, si è diffuso ed è piaciuto anche alla sinistra. Ricordo un articolo di Francesco Erbani del novembre 2004 su Firenze, L’assedio degli architetti. L’esistenza del piano regolatore non pareva distinguere le scelte esecutive. Erano sorti ben quarantasette comitati a difesa del centro storico e di aree verdi minacciate dal caterpillar edilizio mentre il Comune annunciava l’arrivo di noti progettisti stranieri, da Norman Foster a Jean Nuovel, pronti a coprire con il loro nome imponenti operazioni immobiliari proprio come a Milano. E a Roma? Mi sembra che oggi, forse per comprensibili motivi elettorali, vinca il silenzio circa le realizzazioni conseguenti o no al piano regolatore. Conosco poco delle cosiddette nuove centralità. Ho visto tempo fa sui giornali una prospettiva aerea inerente a un progetto per un vastissimo insediamento in un primo di tali luoghi. Destini milanesi a Roma?
Abusivismo sconosciuto e rovina territoriale programmata. Penso al Nord, penso per esempio alla Valle d’Aosta, regione autonoma che potremmo considerare (insieme all’Alto Adige) all’opposto dell’autonoma Sicilia epitome di tutti gli abusi. Una regione a statuto speciale, la Valle, caso perfetto di legalità locale fruttuosa: centomila abitanti tutti ricchi grazie, oltre ai pingui trasferimenti statali, alla rendita e al reddito edilizi, estesi e capillari, assicurati da piani regolatori compiacenti che entrambi i poteri pubblici, comunale e regionale, varano da decenni coerentemente all’obbiettivo economico e sociale. Cosa ha comportato questa legalità valdostana tipica come i residuali prodotti caseari locali? La violazione poi la distruzione dei caratteri storici, paesaggistici e architettonici della regione.
Abusivismo quasi sconosciuto e rovina ambientale condivisa. Penso ancora al Nord, alla Liguria, alle sue coste soggette senza tregua al dilagamento delle seconde case e di ogni genere di infrastrutture al servizio di maneggioni immobiliari grandi e piccoli. Penso a come fu indifferente, dal punto di vista dei risultati, che i Comuni rilasciassero miriadi di licenze edilizie singole, alla spicciolata, approvassero lottizzazioni prive degli elaborati obbligatori o comunque necessari, favorissero ultimamente la realizzazione nei tratti di litorale ancora liberi di finti paesetti progettati da architetti corrivi in “stile ligure” e atti ad ospitare migliaia di foranei con le loro auto, le loro barche, le loro attrezzatureda golf.
Tutto in regola, signori. Come fu in regola la “rapallizzazione” legittimata da licenze edilizie in verità rilasciate in regime di illegalità urbanistica sostanziale. Lo scempio edilizio di Rapallo creò il termine entrato nell’uso per designare, come la “coventrizzazione” riferita ai terribili bombardamenti della città inglese di Conventry, la completa distruzione di una città mediante l’edificazione.
Milano, 10 maggio 2006