Ecco, noi crediamo che una delle grandi battaglie culturali da condurre sia ridare autonomia alla politica, liberarla dai ceppi e dalle grettezze dell’ economicismo, fornirle indipendenza e capacità di visione strategica. Compito certamente arduo e forse utopico. Ma noi confidiamo nella forza delle utopie. E soprattutto confidiamo nel fatto che l’economicismo è una ideologia da poveri, da ossessionati dalla necessità di arricchirsi. Quanto a lungo esso può costituire l’autorappresentazione dei Paesi ricchi? Una società che ha messo insieme tanta opulenza materiale potrebbe permettersi il lusso di una visione meno feroce della vita, potrebbe guardare alla realtà con maggiore disinteresse e generosità. E invece, come Caronte, risospinge le anime nell’inferno dei bisogni senza fine, nella fossa della miseria che di continuo si rigenera.
Certo, l’economicismo si combatte non solo con la critica, ma anche promuovendo culture antiutilitaristiche, facendo soprattutto spazio ai saperi umanistici, oggi sempre più negletti. La letteratura, la poesia, la storia, la filosofia non creano brevetti, lo sappiamo, non producono nuovi gadget da immettere sul mercato, non fanno andare avanti l’economia e dunque vengono banditi come Cenerentole inservibili. Ma possiamo rassegnarci a questo? Possono le società ricche del nostro tempo gettare in un angolo la bellezza, il pensiero, la riflessione sulla nostra vita e il nostro stare al mondo? Ma c’è anche un compito critico da svolgere. Occorrerebbe, ad esempio, che l’economia, la scienza dominante del XX secolo, venisse ricondotta al rango degli altri saperi. Non sussiste più alcuna ragione perché essa conservi il dominio che ha conseguito su tutti gli ambiti della nostra vita sino a oggi. Rischiando l’ovvio, riconosciamo tutti i grandi meriti che l’umanità le deve. Eppure, quei meriti non ci appaiono oggi sono senza ombre. Come scienza, col suo riduzionismo, con la rimozione della natura, l’economia ha incoraggiato lo sfruttamento illimitato del pianeta, ha separato la produzione della ricchezza dal mondo vivente, ha fallito nella capacità previsionale dei danni globali e incalcolabili che essa ha favorito. Costituirebbe perciò un segnale di rilevanza storica se la reale Accademia delle Scienze di Stoccolma abolisse dalla sua agenda annuale il premio Nobel per l’economia., istituito del resto, tardivamente, nel 1968, su iniziativa della Banca centrale di Svezia. Tale premio non ha oggi più ragione di esistere. Non certo perché non ci siano e non ci saranno economisti meritevoli, impegnati a difendere l’interesse dell’umanità e non quello dell’economia. Negli ultimi anni sono stati premiati studiosi come Joseph Stiglitz e Amartya Sen, che certo non sono esponenti della scuola di Chicago. Del resto alle ricerche di tanti economisti liberi dobbiamo molte delle analisi che ci aiutano nella critica del tempo presente. Ma l ‘impatto simbolico dell’abolizione sarebbe di sicuro notevole. E l’umanità ha bisogno di segnali di svolta. L’istituzione, in alternativa, di un premio per la protezione dell’ambiente e della biodiversità sarebbe certamente più appropriato alla tradizione umanitaria del Nobel, più rispondente ai bisogni universali e drammatici del nostro tempo. Sappiamo davvero tanto su come produrre e consumare ricchezza. Sappiamo ancora troppo poco su come proteggere e conservare le ricchezze della Terra, che l’economia ha contribuito a trasformare in territorio di saccheggio.