Che cosa può rendere attuali e perfino per tanti versi affascinanti gli scritti, di e su un decennio ormai lontano, di un protagonista della scena culturale italiana degli ultimi 40 anni? Forse basterebbe la qualità storica del periodo in questione: gli anni '60, senza dubbio il decennio epico della seconda metà del XX secolo, la pagina più intensa e più alta della storia italiana dello scorcio finale dell'età contemporanea. Con studiata foga iperbolica – ma con molti elementi di verità - Alberto Asor Rosa (Le armi della critica: Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) , Einaudi Torino 2011 pp.VII-LXIX, 368) la definisce « la più ciclopica trasformazione delle proprie strutture sociali, economiche, produttive – e però anche intellettuali e culturali – dai tempi della caduta dell'Impero romano in poi». Un decennio, come vedremo, su cui gravano interrogazioni fondamentali che arrivano al nostro tempo. Me nella Prefazione storica che organizza i saggi, in parte usciti in edizioni precedenti - e che a mio avviso vale, da sola, per nitore analitico e tensione esistenziale e civile, l'intero libro – c'è anche dell'altro.
Asor Rosa racconta in questo saggio il proprio ingresso nel mondo dell'impegno politico e al tempo stesso l'inquieta esplorazione dell'universo intellettuale che gli stava intorno e che e a quell'impegno doveva fornire fondamenti di senso e prospettive. Si tratta di pagine autobiografiche all'interno delle quali si snodano vicende, che solo in parte sono personali, perché riescono a coinvolgere nel racconto, sullo sfondo dei processi del decennio, la vicenda di un gruppo intellettuale tra i più significativi dell'Italia della seconda metà del secolo. Amici e sodali dell'avventura politica e culturale di Asor Rosa, in quegli anni, erano Mario Tronti, uno dei padri dell'”operaismo,” Toni Negri, oggi teorico molto influente, Massimo Cacciari, filosofo e politico a tutti noto, Umberto Coldagelli, diventato il maggiore studioso di Tocqueville in Italia, Aris Accornero, l'unico operaio italiano pervenuto alla cattedra universitaria e sociologo del lavoro, Rita di Leo, sociologa anch'essa e studiosa della composizione sociale dell'URSS e dello stalinismo, Manfredo Tafuri, storico e teorico dell'urbanistica precocemente scomparso. La storia dei gruppi intellettuali, tema negletto nel paese di Gramsci , trova nelle prime pagine della Prefazione indicazioni e suggestioni che danno il senso di un'epoca e anche non poche piste di ricerca.
La cifra essenziale della tensione teoretica dell'autore e del gruppo – molto più affollato dei nomi noti appena ricordati – è soprattutto una: il rapporto diretto con il pensiero di Marx, per afferrare con profondità analitica ciò che si voleva conoscere direttamente, la classe operaia di fabbrica. Asor Rosa ricostruisce il suo personale percorso – con uno sforzo costante, da storico di mestiere, di rendere impersonali le vicende che lo riguardano - di avvicinamento a Marx e delle scoperte che ne ha ricavato. E nel testo fa rivivere pagine dai Grundrisse o dal Capitale, che ancora oggi gettano lampi di bagliore conoscitivo ineguagliati sulla società del nostro tempo. E trovo davvero incontrovertibile l 'affermazione perentoria in cui si lascia andare : « Chi, anche oggi, non ha letto e meditato Marx non è in grado di capire in che mondo viviamo». Una verifica immediata? Osservate, con un rapido sguardo, il profilo intellettuale del ceto politico della sinistra ufficiale e ne troverete plastica ed esaustiva conferma.
Le pagine di questo saggio, tuttavia, si fanno leggere con singolare passione per un'altra ragione. Perché Asor Rosa ci trascina nella insolita bivalenza della sua personalità e nella spiazzante originalità del suo percorso esplorativo: che mette insieme Marx, Leopardi, Nietzsche e i grandi autori della letteratura europea. Forse il nucleo più ardimentoso di tutto il ragionamento, sempre esemplarmente rigoroso, del saggio sta nel tentativo, a mio avviso riuscito e persuasivo (ma potrei essere condizionato da affinità di sentire) di mettere insieme, diciamo, le forme di estrazione del plusvalore nelle società capitalistiche avanzate, descritte da Marx , con questo incantevole verso di Leopardi : «Dolce e chiara è la notte e senza vento». La teoria rivoluzionaria e la poesia, la lotta per l'emancipazione di una classe oppressa e la ricerca di una visione profonda e disincantata della condizione umana. Sfere assai distanti fra di loro, ma in realtà tenute insieme da una medesima tensione: la libertà del pensiero da tutti i condizionamenti, da tutti gli idola, la sovrana conoscenza della realtà e della “verità”, il poter collocare la propria opera transeunte nell' universo di senso che solo la grande poesia può regalarci. Con Nietzsche - «un grandioso continente di pensieri» - le cose sono più facili, anche se non meno avvincenti. Alcune riflessioni del filosofo tedesco sulla classe operaia – di folgorante inattualità - danno al ragionamento dell' autore una convincente rotondità.
Nella Prefazione Asor Rosa pone una questione storica che meriterebbe una discussione più ampia di quella possibile in queste note. Egli sostiene che in Italia, in quegli anni , «un forte sviluppo in presenza di una forte conflittualità , una forte conflittualità in presenza di un forte sviluppo avrebbero garantito a tutti quel salto che invece non c'è stato e da cui è scaturita l'attuale decadenza». Prima di entrare nel merito, io vorrei preliminarmente osservare che in tale riflessione dell'autore riaffiora una tensione, direi una vibrazione morale costante in tutta la sua opera di storico della letteratura. E' quell' «amarezza del pensiero e dell'intelligenza» , ch'egli attribuisce in questa Prefazione a Machiavelli, dipendente dallo scarto, che segna tutta la nostra storia - e che l'autore ritrova ogni volta che si occupa di Dante, di Machiavelli, Guicciardini, Leopardi – quello scarto tra le incomparabili potenzialità delle nostre energie e intelligenze nazionali e gli scadenti esiti statuali che ne sono di volta in volta derivati. Anche negli anni '60 sarebbe accaduto qualcosa di “antico”. La tesi contiene degli elementi di verità storica che andrebbero esplorati in maniera più circostanziata. Io credo, tuttavia, che forse la “mancata risposta” alla potenzialità contenuta nei conflitti, sia da spostare più avanti, e da concentrare soprattutto sul piano della cultura politica Non posso fare a meno di ricordare che gli anni '70 non furono di semplice opposizione, da parte delle classi dirigenti italiane.
Alla pressione operaia e popolare, in certi casi, si rispose con riforme importanti: la nascita delle Regioni (non senza effetti indesiderati, soprattutto al Sud) lo Statuto dei lavoratori, la nascita, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, un processo parziale, ma importante di democratizzazione dei corpi di polizia. E al tempo stesso, in quel decennio, vi furono conquiste politiche e di civiltà: l'affermazione delle sinistre nelle grandi città, la vittoria referendaria per il divorzio, mutamenti di costume e di rapporti tra genitori e figli, la ventata libertaria del movimento femminista. Naturalmente quelli sono anche gli anni della reazione stragista da parte di potenze oscure della società italiana, e poi del terrorismo.
Dunque, alcune trasformazioni importanti sono pur venute da quei conflitti. Nella società sono continuate modificazioni culturali profonde. Quel che è rimasto imballato, certamente, è stato il sistema politico. Forse perché i due maggiori partiti troppo a lungo non hanno goduto di piena autonomia nazionale. Ma quel che mi sento di dire, per ciò che riguarda la sinistra, è che il vecchio Partito comunista aveva esaurito, già negli anni '80, la sua progettualità strategica. Tardivamente e mal riformato, ha perso rapidamente, nel corso degli anni '90, la capacità di leggere i movimenti profondi che il capitalismo stava promuovendo. Il vasto sommovimento globale messo in atto dal neoliberismo è stato non a caso, anche dal gruppo dirigente di quel partito, scambiato per una nuova frontiera della modernità.