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Lodo Meneghetti
A proposito dell’eddytoriale 143
28 Ottobre 2010
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Ho notato in particolare il ricordo degli anni Sessanta e Settanta. Ho provato...

Ho notato in particolare il ricordo degli anni Sessanta e Settanta. Ho provato a ritrovarli da un mio punto di vista.

La legge 167 del 1962 concernente i piani per l’edilizia economica e popolare diede luogo a numerosi progetti spesso di ampia dimensione nei comuni governati dalla sinistra (in qualche raro caso addirittura molto aggressivi verso il cuore della città); ma ebbe troppo scarso riscontro in coerenti realizzazioni di alta qualità, per la difficoltà di acquisire tempestivamente le aree, per la mancanza di risorse finanziarie, per la scarsa vocazione dei municipi a destinare quote di bilancio alla formazione di un demanio di terreni, per la reticenza a integrare il progetto urbanistico in una chiara visione anche architettonica.

Il decreto del 1968 sugli standard, applicativo degli spunti regolatori insiti nella “legge ponte” del 1967, accontentò chi credeva fosse la rigida normativa delle quantità spettanti nel piano alle varie destinazioni funzionali a risolvere il dissesto urbano. La bandiera dello standard sventolerà sempre più sui Comuni di sinistra: lo standard urbanistico riferito in specie ai servizi sociali come panacea dei mali urbani, come soluzione ritenuta di rottura in contesti carenti appunto di questi servizi. In Italia, particolarmente nelle grandi città, mancavano il verde, le scuole, eccetera. Perciò la rivendicazione delle relative necessarie quantità ebbe un senso persino ovvio. Era effettivo l’obbligo per l’urbanistica progressista di esigere dalla classe dominante di comportarsi in maniera un po’ più “svedese”, tanto più di pretenderlo dalle amministrazioni di sinistra. Avrebbe invece dovuto prevalere il problema di misurare le rivendicazioni con un’analisi convincente di una realtà in cui i ruoli sociali e la loro distribuzione sul territorio, in altre parole l’iniqua suddivisione di città-territorio fra capitale e lavoro, rappresentavano il risultato storico dei rapporti e degli scontri di classe. Così sarebbe potuta emergere la vera natura della realtà socio-territoriale e delinearsi un comportamento della politica e dei governi locali volto non tanto a tappare i buchi più grossi nella sovrastruttura dei servizi non colmati dal bulldozer capitalistico, quanto a collegare la pianificazione alla strategia generale per una trasformazione dei rapporti fra le classi in relazione, per così dire, all’appropriazione e al consumo del territorio. Tra l’altro, riguardo a certe situazioni economico-sociali drammatiche, come nel Sud, si sarebbe potuto mettere in luce, attraverso puntuali analisi qualitative, la contraddizione fra condizione reale e idealismo astratto dell’approccio urbanistico, contribuendo così, almeno, alla formazione di una conoscenza locale capace di dare un contributo alla contesa per mutare convenientemente gli assetti sociali e territoriali.

Gli effetti delle lotte alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta provocarono anche una più ricca articolazione del fronte dell’urbanistica. Ed era merito del movimento operaio e del movimento studentesco la scoperta dei nuovi livelli dei problemi e del conforme impegno culturale. Il salto qualitativo circa l’annosa questione delle abitazioni, per esempio, con la rivendicazione “casa uguale a servizio sociale”, derivò non dalle elaborazioni della cultura urbanistica e architettonica, bensì dalle analisi e dalle esperienze dei sindacati operai, dalla loro capacità di mobilitare attorno a un obiettivo realmente nuovo l’intera massa dei lavoratori italiani (sciopero generale dell’ottobre 1969…). Molti di questi acquisirono coscienza del fatto che rompere un nodo della loro condizione materiale come quello dell’ingiusta situazione abitativa avrebbe avuto forti riflessi, più dell’aumento salariale, sul complessivo assetto sociale.

Le lotte di massa in una prospettiva di unità operai studenti proposero una nuova figura di intellettuale e influirono sulla revisione dei ruoli culturali nelle università, in particolare in quelle di architettura dove le contestazioni erano sorte (a Milano fin dai primi anni Sessanta) proprio dalla messa in discussione dei compiti dell’urbanistica. Tra le posizioni dei docenti molto differenziate nella facoltà di architettura milanese, si distinse quella che affidava all’impegno nella didattica e nella ricerca l’approfondimento circa i compiti dell’insegnante: assumendo i nuovi temi che le lotte operaie e studentesche andavano enunciando e collegandoli alla questione generale del territorio e della città; sperimentando nei fatti, giorno per giorno, la funzione nuova dell’università, ossia, come recitava uno slogan studentesco, l’“uso sociale dell’università”.

Intanto, a scala delle istituzioni politiche e amministrative non mancarono certi effetti dovuti alle mobilitazioni di massa e anche alle annose richieste della parte migliore degli urbanisti. La legge sulla casa 865 del 1971 cercava di ricucire organicamente i fili del discorso legislativo a cominciare dal provvedimento del 1962 sull’edilizia economica e popolare e dalle disposizioni del 1967-1968, per sboccare infine nella legge Bucalossi del 1977 sul regime dei suoli e sulla “concessione” all’edificazione. In queste circostanze le sinistre svolsero una tenace azione di stimolo e, anche troppo, di compromesso “governativo”. Alcune Regioni iniziarono a svolgere i compiti nel campo urbanistico che il trasferimento di determinate funzioni dallo stato prevedeva. Furono sollecitati i piani regolatori comunali, si stabilì, per questi, qualche indirizzo circa la stesura per lo più in senso quantitativo. La vittoria delle sinistre nelle elezioni amministrative del 1975 e la conseguente conquista del potere anche in molte città grandi e medie si tradussero nel perseguimento del “buon governo” e, quindi, del “buon piano” urbanistico. Nacque un più diffuso rapporto fra architetti e urbanisti di sinistra e istituzioni democratiche, proliferarono i piani regolatori, i piani per l’edilizia economica e popolare, i piani pluriennali di attuazione. Raramente, però, si trattava di un rinnovamento profondo della concezione culturale e della politica per gli interventi. L’influenza delle linee di ricerca emerse nell’università di architettura fu assai scarsa. Gli architetti e ingegneri che lavoravano per i Comuni, a parte i mai morti praticoni dell’urbanistica, appartenevano, nel caso migliore, alla concezione del “tecnico critico” e della “committenza alternativa” che non si discostava dalla vecchia rivendicazione tutta riferita al momento distributivo-quantitativo: lo standard dei servizi, la “parificazione” (Keynes), senza riguardo alla realtà dei rapporti sociali di produzione. Oppure restringevano i problemi dell’assetto territoriale al momento della gestione, sostantivo che divenne rappresentativo, nel suo abituale abuso unito all’aggettivo democratica, di un modo quasi funzionaristico con cui una parte della sinistra, nell’amministrazione e nella professione, intendeva l’operare urbanistico (e non solo questo).

Intanto, il perdurare della crisi respinse ai margini le riforme. Primeggiava nuovamente il problema dell’occupazione e del salario, le rivendicazioni non potevano non muoversi in questa direzione. Lontani i tempi in cui la lotta per la “casa servizio sociale” sembrava potere aprire nuovi scenari nel confronto-scontro fra capitale e lavoro. La cronica distorsione di un mercato delle abitazioni del tutto sfavorevole ai ceti popolari ripropose il problema puro e semplice della possibilità di procurarsi comunque un’abitazione; così come per i giovani, le donne, gli emarginati, gli immigrati premeva la preoccupazione di procurarsi comunque un lavoro. Le ipotesi di modificazione della vecchia logica nella produzione sociale e nella conformazione territoriale sfocavano nel regno dell’utopia.

Il famoso piano decennale della casa rivelò subito, all’avvio dell’attuazione, i suoi limiti e le sue contraddizioni, per non dire i suoi inganni. L’inflazione mangiava gli investimenti, mentre nelle regioni l’assurda distribuzione a pioggia degli interventi, inoltre inficiati da metodi clientelari, impediva di ottenere soluzioni che fossero cardine di una nuova visione dell’organizzazione territoriale.

D’altra parte la scoperta, tardiva, dell’Italia sommersa della produzione industriale fu anche scoperta di incredibili modelli territoriali spontanei in cui predominava il “privato” talmente che il “pubblico” pareva elemento di disturbo. Modelli contrapposti a quelli ipotizzabili dalla sinistra politica, sindacale, culturale per una nuova società e un nuovo territorio perseguibili attraverso l’aggregazione di un ampio blocco sociale, con al centro la classe operaia, fiducioso nel cambiamento.

Ma oramai arrivavano, per affossare ogni speranza, gli “orribili anni Ottanta” (Salzano)...

Milano, 24 settembre 2010

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