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Massimo Congiu
A Budapest la rivolta dei rifugiati
4 Settembre 2015
Articoli del 2015
«Budapest. Tensione a Bicske, ai confini con l’Austria, dove i migranti si rifiutano di scendere del treno e di essere internati in un campo. Scontri con la polizia. A Budapest manifestazione dentro la stazione». Il manifesto, 4 settembre 2015

Ieri mat­tina la sta­zione Keleti ha ria­perto le porte e si è di nuovo riem­pita di migranti in cerca di un treno in par­tenza per la Ger­ma­nia e l’Austria. Niente. L’altoparlante annun­ciava a inter­valli rego­lari la sop­pres­sione di tutti i treni inter­na­zio­nali diretti più a ovest per motivi di sicu­rezza. All’inizio è stata la calca verso i binari e verso l’unico treno pre­sente, con la poli­zia schie­rata sulla ban­china. Momenti con­ci­tati, povera gente che si ammas­sava davanti al con­vo­glio su cui c’era scritto, iro­nia della sorte «Un’Europa senza fron­tiere». Il treno si è riem­pito di migranti in cerca di una via di fuga dalla Keleti, è par­tito verso mez­zo­giorno, ma diretto a Sopron, nella parte occi­den­tale del paese, vicino all’Austria, sì, ma den­tro i con­fini magiari. Il fatto è che il con­vo­glio si è fer­mato a Bic­ske , 60 chi­lo­me­tri da Buda­pest, dove esi­ste un campo pro­fu­ghi, gli agenti di poli­zia hanno cer­cato di far scen­dere quanti erano senza docu­menti, ma i migranti si sono rifiu­tati e hanno scan­dito in coro «No camp». Uua cop­pia con un neo­nato si è sdra­iata su binari minac­ciando il sui­ci­dio ma è stata strat­to­nata via dagli agenti che anno amma­net­tato l’uomo.

Intanto alla Keleti gio­vani siriani mostra­vano i biglietti com­prati per andare in Ger­ma­nia. «Abbiamo speso un sacco di soldi per niente», dice­vano, «e ora che fac­ciamo?». «Non sapete niente dei treni?» chie­de­vano altri migranti ai gior­na­li­sti. «Quelli che vi inte­res­sano sono stati can­cel­lati. Tutti», è stata la rispo­sta dolente degli interpellati.

Dopo la calca veri­fi­ca­tasi alla ria­per­tura della sta­zione è tor­nata una rela­tiva calma, tutt’al più c’era chi fra gli ospiti for­zati della Keleti andava avanti e indie­tro a cer­care infor­ma­zioni sulle pos­si­bi­lità di par­tire prima o poi; quando, come. Per­ché sul dove la mag­gio­ranza non ha dubbi: «Ger­ma­nia! Ger­ma­nia!», l’ha detto tante volte in coro durante le mani­fe­sta­zioni sul piaz­zale anti­stante la sta­zione. C’erano poi quelli che sta­vano seduti sulle ban­chine a man­giare qual­cosa, a ripo­sare. Le donne col faz­zo­letto in testa vicino ai bam­bini: chi cam­biava il pan­no­lino, chi dava da man­giare a quello più pic­colo. Gli occhi bassi, i gesti veloci men­tre lì vicino il per­so­nale dello scalo rimuo­veva carte, con­te­ni­tori vuoti di suc­chi di frutta e bic­chieri di pla­stica schiac­ciati, lasciati sulla ban­china o fra i binari.

Anche quella di ieri alla Keleti è stata una gior­nata lunga. Nel pome­rig­gio, rac­con­tano i media locali, i migranti hanno dato vita a una mani­fe­sta­zione paci­fica all’interno della sta­zione di fronte ai poli­ziotti schie­rati a garan­zia dell’ordine pub­blico. Il tutto è durato una ven­tina di minuti che non sono stati carat­te­riz­zati dalle ten­sioni e dai disor­dini di Bic­ske, ma di fatto la situa­zione diventa ogni ora più dif­fi­cile. Il «popolo della Keleti» esprime giorno dopo giorno una richie­sta corale, sem­pre più pres­sante di essere lasciato libero di par­tire e di rag­giun­gere il paese nel quale rico­min­ciare. Le auto­rità unghe­resi insi­stono sulla neces­sità di rispet­tare le norme, il rego­la­mento di Dublino, e di non poter lasciare andare in giro per l’Europa per­sone che non sono state regi­strate, che non hanno otte­nuto lo sta­tus di rifu­giati. Piut­to­sto le ten­gono alla sta­zione orien­tale di fronte alla quale sono state appron­tate, su ordine del con­si­glio comu­nale, delle zone nelle quali gli accam­pati pos­sono rice­vere acqua da bere e da usare per l’igiene per­so­nale. La cosa però non piace agli estre­mi­sti di destra, alcuni dei quali si sareb­bero avvi­ci­nati due sere fa alla sta­zione con ban­diere e ves­silli nazio­nali. Li ritrae una foto pub­bli­cata dall’agenzia di stampa unghe­rese MTI. Non con­di­vi­dono la scelta delle auto­rità comu­nali e vogliono l’allontanamento dei migranti dal cen­tro cit­ta­dino. Secondo gli ultra­na­zio­na­li­sti la loro pre­senza minac­cia l’ordine pub­blico, l’igiene pub­blica. I sot­to­pas­saggi della sta­zione, l’antistante piazza Baross e lo scalo fer­ro­via­rio devono essere resti­tuiti alla cittadinanza.

Quest’ultima è in sostanza spiaz­zata dallo sce­na­rio incon­sueto che quel luogo offre in que­sti giorni. «Sono qui da due mesi», dice la pro­prie­ta­ria di un chio­sco situato nel sot­to­pas­sag­gio. Sì, ma allora non erano così tanti, il loro numero è cre­sciuto a vista d’occhio in poco tempo, del resto il flusso di migranti che giun­gono al con­fine non sem­bra voglia dimi­nuire; in un com­mento rila­sciato ieri al gior­nale con­ser­va­tore Frank­fur­ter All­ge­meine Zei­tung, il primo mini­stro Orbán ha detto che dall’inizio dell’anno, secondo le sta­ti­sti­che più aggior­nate, il paese è stato rag­giunto da circa 150 mila migranti ille­gali, molti di più di quelli regi­strati l’anno scorso. Un’emergenza in piena regola alla quale il governo unghe­rese ha rea­gito con una cam­pa­gna e con ini­zia­tive con­crete stig­ma­tiz­zate dall’opposizione di centro-sinistra e dagli ambienti pro­gres­si­sti della società civile. Mer­co­ledì sera diverse migliaia di per­sone hanno par­te­ci­pato a una mani­fe­sta­zione con­ce­pita da diverse orga­niz­za­zioni come Migrants Aid e Amne­sty Inter­na­tio­nal Hun­gary in segno di soli­da­rietà verso i migranti.

Il cor­teo è par­tito dalla sta­zione Nyu­gati (Occi­den­tale) e si è fer­mato sulla piazza anti­stante il par­la­mento dove si è svolto un sit-in. «Not in my name-Az én nevem­ben ne», lo slo­gan dell’iniziativa. I dimo­stranti, diversi dei quali stra­nieri, sfi­la­vano tenendo alti car­telli con su scritto «Anche noi era­vamo dei migranti», «Abbiamo biso­gno di ponti, non di bar­riere» e ancora «I migranti sono esseri umani». Sul mar­cia­piede, a poco meno di metà per­corso, due con­tro­ma­ni­fe­stanti con la ban­diera tri­co­lore com­pleta di sim­bolo nazio­nale e un car­tello con su scritto «In my name» e «No ille­gal immi­gra­tion». Nes­suna delle per­sone impe­gnate nella mar­cia li ha degnati di troppa attenzione.

«Que­sta mani­fe­sta­zione è impor­tante – dice un gio­vane – per­ché è la prima occa­sione pub­blica per testi­mo­niare la nostra soli­da­rietà ai migranti e stig­ma­tiz­zare la poli­tica del governo e il suo approc­cio privo di uma­nità al problema».

L’esecutivo però ritiene di agire cor­ret­ta­mente e Orbán ha affer­mato a Bru­xel­les che que­sti flussi migra­tori sono una minac­cia per le radici cri­stiane dell’Europa. Lui è uno di quelli che vuole difen­dere que­sto patri­mo­nio per­ché — dice — è la sua stessa gente a chie­der­glielo. Il suo par­tito ha perso voti dal 2010, que­sto è vero, ma sono ancora in buon numero coloro i quali cre­dono ancora in Orbán, «l’uomo forte d’Ungheria».
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