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Stefano Bartezzaghi
8 settembre 1943
5 Settembre 2013
Articoli del 2013
Fra pochi giorni il settantesimo anniversario di un giorno fatidico: fu sconfitta, oppure fu «un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista»
Fra pochi giorni il settantesimo anniversario di un giorno fatidico: fu sconfitta, oppure fu «un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista»

Si parva licet componere magna, ancora una volta la storia può svelare le ambiguità del presente e illuminare il futuro. Articoli di Villari, Revelli e BartezzaghiLa Repubblica, 5 settembre 2013

Il giorno in cui gli italiani cambiarono guerra
di Lucio Villari

L’“Otto settembre” cominciò verso l’imbrunire ed era mercoledì. «Alle 18,30 tornavo a casa da una piccola passeggiata quando Adelina mi ha detto di aver udito che è stato concluso l’armistizio con gli anglo-americani». Questa sono le semplici parole, senza altro commento, del diario di Benedetto Croce con una indicazione dell’ora che non corrisponde esattamente a quanto stava avvenendo.

Croce non poteva sapere che l’armistizio era stato firmato cinque giorni prima e che l’annuncio ufficiale era stato dato poco prima delle 18 da Radio Algeri cogliendo di sorpresa Badoglio che era con il re al Quirinale insieme ai massimi responsabili militari e al ministro degli Esteri Guariglia. Alla notizia era seguito un minaccioso radiogramma di Eisenhower che imponeva al governo italiano di annunciare subito l’armistizio sia per evitare ulteriori ambiguità verso i tedeschi sia perché non era stato possibile coordinare l’annuncio con lo sbarco di una divisione di paracadutisti americani a nord di Roma. Era fallita infatti la missione di due ufficiali americani, il generale Taylor e il colonnello Gardiner, giunti segretamente nella capitale la sera del 7 settembre per prendere visione degli aeroporti e dare il via all’operazione per la mattina dell’8. I capi militari italiani li avevano dissuasi dicendo loro che non c’erano «forze sufficienti per garantire gli aeroporti». Taylor e Gardiner delusi lasciarono Roma informando Eisenhower.

L’unico a reagire allo stupore di quanti erano al Quirinale fu il ministro Guariglia: si doveva dare la notizia. Il colonnello Luigi Marchesi, addetto allo Stato maggiore, suggerì al maresciallo Badoglio di recarsi subito all’Eiar. «Il maresciallo mi chiese di accompagnarlo. Uscii subito sul piazzale del Quirinale e chiesi ai due autisti del maresciallo se sapevano dove era la sede dell’Eiar. Non lo sapevano. Poi si fece avanti un sergente che salì accanto all’autista. Il maresciallo ed io eravamo soli. Rimase in silenzio finché giungemmo alla sede dell’Eiar in via Asiago verso le 18,50. Fummo introdotti in una saletta di trasmissione.

Intanto l’usciere era andato a chiamare il direttore che giunse quasi subito. Lo informai che il maresciallo intendeva dare al più presto un messaggio alla nazione. Il direttore spiegò che diramandolo subito non sarebbe stato sentito da nessuno e consigliava di attendere l’inizio del programma delle 19,45. E alle 19,45 il maresciallo, con evidente sforzo lesse con voce chiara e ferma il proclama dell’armistizio».

Tre minuti dopo gli italiani seppero tutto. «La gente – ricorda Paolo Monelli – fece capannelli nelle strade che già s’abbuiavano, i passanti si interrogavano l’un l’altro. “Cosa ha detto? È vero che ha detto che siamo in guerra con i tedeschi?” ». Non era ancora vero, ma quella domanda coglieva nel segno. L’Italia usciva da una guerra e entrava in un’altra. Su questa linea di confine maturò in Badoglio, nel re e in alcuni capi militari il progetto di lasciare la capitale e trasferire nel Sud liberato le persone e i simboli dello Stato italiano per salvarli dalla reazione tedesca.

Da settanta anni si discute se questa scelta, avvenuta senza che il governo e i capi militari organizzassero la difesa della capitale e lasciassero ordini precisi ai nostri soldati sparsi sui vari fronti di guerra, abbia una spiegazione razionale. La vicenda della colonna di auto che portò lungo la via Tiburtina la famiglia reale e centinaia di ufficiali al seguito a Pescara e a Ortona, le scene penose dell’imbarco sulle corvette della marina militare in attesa, insomma “la fuga di Pescara” sono state ampiamente raccontate e documentate. In quelle stesse ore Roma era difesa a Porta San Paolo, sulla via Ostiense da centinaia di soldati e di civili di ogni ceto sociale. Nasceva in questi luoghi di Roma la Resistenza e germina qui la nuova, vera Patria. Ma intanto lo Stato giungeva a Brindisi e “continuava” a funzionare con il riconoscimento ufficiale della sua legittimità da parte degli ex nemici.

Come giudicare allora questo scenario assolutamente inedito che si stava configurando in Italia? Cosa c’era in quella fuga di diverso da quanto era avvenuto nell’Europa del 1940? Il re del Belgio Leopoldo III, mentre il suo paese capitolava, era stato arrestato e internato e il suo governo era fuggito a Londra. In Danimarca, il re e il suo governo erano agli ordini di Hitler. In Olanda la regina e il suo governo erano fuggiti a Londra e qui si erano pure rifugiati il re di Norvegia Haakon VII e i suoi ministri. E potrebbe continuare l’elenco di sovrani, governi e capi politici (basti ricordare il ruolo di De Gaulle a Londra) costretti alla fuga e all’esilio, ma determinati a combattere i nazisti. All’Italia andò certamente meglio e non è quindi più accettabile, sul piano storico e storiografico, sminuire il significato del Regno del Sud e negare il ruolo che quello Stato ha svolto, anche sul piano del diritto internazionale, confermandosi nel territorio italiano come Stato sovrano, “cobelligerante” con quegli Stati che avrebbero avuto tutto il diritto di fare del nostro paese una terra bruciata e divisa. Come in Germania. Fu anche questo che ha determinato, settanta anni or sono, il risorgimento della Patria, non certo la sua fine.

Il momento delle scelte
di Marco Revelli

Sembravano traversie ed eran in fatti opportunità ». Con questa citazione vichiana, scritta come dedica sulla propria copia de La scienza nova, Vittorio Foa aveva salutato il proprio compagno di cella il 23 agosto del ’43, uscendo dal carcere fascista dopo 8 anni di reclusione. Ed è forse la miglior sintesi, profetica, di quello che sarebbe stato, un paio di settimane più tardi, l’8 settembre.

Esso fu, senza dubbio, una catastrofe istituzionale di enormi proporzioni in cui tutto “andò giù” e fece naufragio un’intera classe dirigente, con la “fuga ingloriosa” del Re e la sua Corte, e il dissolvimento di ogni autorità statale. Ma fu anche un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista. E lo fu perché proprio quel “vuoto istituzionale”, quell’assenza di ogni autorità formale, rappresentano le condizioni essenziali di quello che costituisce il nucleo fondativo di ogni genuino atto morale: la scelta. La possibilità – e insieme la necessità – di scegliere, senza ordini né routine (non per nulla Claudio Pavone apre il suo splendido saggio sulla “moralità della Resistenza” con un capitolo intitolato La scelta). E di spezzare, con quell’atto, una deriva storica degradata e degradante.

È ancora Foa a esprimere il concetto quando scrive, a liberazione non ancora avvenuta, che l’8 settembre fu in fondo un gran bene per l’Italia, perché segnò «l’inizio di un processo rivoluzionario che ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze», combattendo, oltre all’occupante tedesco, anche la parte peggiore di se stessi, quella che aveva creduto nei miti imperiali e nell’“arido egoismo” del Regime. Ed è lo stesso messaggio di un altro intellettuale d’eccezione, Giaime Pintor, che poco prima di morire, fatta la propria scelta, scrisse che «questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione».

Non sono voci isolate. Lo stesso spirito, di possibile riscrittura della propria biografia individuale e collettiva, lo si ritrova in quasi tutti i protagonisti di allora. In Massimo Mila, ad esempio, che in uno dei suoi Scritti civili attribuirà all’8 settembre il carattere catartico di un’improvvisa «rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita» come accade, appunto, quando «tutto crolla rovinosamente all’improvviso intorno a te e ti lascia solo, a cielo scoperto, deciso a passare i ponti col tuo passato civile ed a gettarti allo sbaraglio in un’avventura in cui tutto il tuo destino è impegnato ». O in Franco Venturi, il grande storico dell’Illuminismo, quando evoca il «senso di necessità che stava in fondo a questa creazione di libertà, un senso di serena accettazione del fatto di essere finalmente dei fuorilegge di un mondo impossibile». O ancora in Giorgio Bocca, che nelle prime pagine del suo Partigiani della montagna descrive il dirompente senso di liberazione e di rinascita, per un giovane normalmente destinato a una vita banale e già decisa, quando «invece, d’improvviso, in un giorno del settembre del ’43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio».

Può apparire un paradosso, ma fu allora, nel punto per molti aspetti più basso della nostra storia, che si formò e selezionò una delle classi dirigenti migliori della nostra nazione.

Come una data si fa simbolo
di Stefano Bartezzaghi

I bambini che seguivano Carosello, e magari era proprio il Sessantotto, si rallegravano con «È arrivato Lancillotto / or succede un quarantotto». La consideravano come una filastrocca, dove “un quarantotto” era come le tre civette sul comò o la palla di pelle di pollo, o come certi altri numeri misteriosi (Quarantasette, morto che parla; cento, la toilette; fino a «Centocinquanta, la gallina canta», di cui fece giustizia Achille Campanile). Non si aveva insomma alcuna idea su cosa si dovesse intendere per quel numero, e perché. Giunti verso la fine del liceo alle rivolte parigine, a molti tornò in mente Lancillotto: ecco a cosa si riferiva “un quarantotto”! Rivolta e caos, un anno di totale bagarre.

Con “otto settembre” va al contrario: si capisce subito che è una data, ma è più difficile cogliere il senso generale dell’allusione. Anche lì si parla di battaglie, confusione e “smarrimento” (è la parola più usata dagli storici a proposito del periodo che si aprì con l’8 settembre 1943). Ma se quella data ha costituito uno dei

Luoghi della memoria italiani recensiti da Mario Isnenghi (Laterza, 1997) è per un motivo ulteriore: oltre al caos e al collasso sistemico c’è infatti l’intrico illogico, il paradosso. Lo ha ben formulato una volta Emilio Lussu: «la guerra ufficialmente era finita, mentre continuava».

Il processo linguistico che sgancia una data dalla storia e ne fa un’espressione comune è a sua volta complesso. Ogni giorno è unico e irripetibile, e così è stato anche l’8 settembre del 1943. Ma per certi giorni speciali una prima operazione retorica porta a usare la data per nominare i fatti che l’hanno resa memorabile. Facile esempio, l’11 settembre. Soltanto un imbecille, o un giovanissimo, sentendo nominare l’11 settembre potrebbe infatti chiedere: «Di che anno?» Ogni anno c’è un undici settembre, ma l’Undici settembre, maiuscolo e inteso come atto di guerra terroristica inatteso e di mostruosa entità, è solo e per eccellenza (o per “antonomasia”) quello del 2001. Non è facile immaginare la catastrofe che potrebbe farci dire: «è stato un undici settembre». Lo sbandamento, l’incomprensibilità, l’abbandono delle autorità regnanti e governanti, la minaccia dell’invasore hanno colorato con le tinte più fosche la data dell’8 settembre 1943 e l’hanno resa emblema e sigillo storicamente memorabile di una specialissima evenienza italiana. L’8 settembre è diventato un’ “antonomasia”: come quando di un cauteloso si dice che è “un don Abbondio” o di un distruttore che è “un Attila” o di una débâcle che è “una Caporetto” (per restare tra le onte italiane).

L’8 settembre ha di diverso una certa ambiguità. I luoghi comuni che riguardano rispettivamente don Abbondio, Attila e Caporetto sono univoci e chiari a tutti. Ma cosa intendiamo, quando diciamo “Otto settembre”, intendendo per eccellenza quello del 1943? E cosa intendiamo quando ritorniamo alla minuscola e diciamo che una vicenda politica (nel genere di scioglimenti di partiti e di governi, ritirate paurose, vuoti di governance) ha costituito “un otto settembre”? Non si tratta però di un’ambiguità irresistibile. La stessa natura caotica dei fatti dell’estate del 1943 e il durevole sforzo storiografico di travisarli hanno provato a rendere opaca l’etichetta: “8 settembre”; essa nondimeno risulta chiarissima e inequivocabile per chi la sappia leggere: è il giorno che in Italia rappresenta l’eterna, perché sempre possibile e sempre imminente, irresponsabilità del Potere.

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