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8 marzo: un dramma e una lotta
8 Marzo 2018
Donna
Eddyburg, 8 marzo 2003. Ripresentiamo oggi, 8 marzo 2018, l'editoriale di 15 anni esatti fa. Esso riaccosta il dramma da cui nacque la ricorrenza, e la lotta cui diede luogo. Avanti donne, cerchiamo di essere al vostro fianco (e.s.)

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8 marzo2003 – Oggi è una festa, ma la sua radice è un dramma, e la sua storia è quella di una lotta. Forse vittoriosa. Era l’8 marzo 1908 quando nella fabbrica Cotton, a Chicago (USA), occupata dalle operaie tessili in sciopero, scoppiò un incendio. 129 donne, operaie, morirono. Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna.

Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna. Da allora, l’8 marzo si è intrecciato alla vicenda del progressivo affrancamento delle donne dalle condizioni imposte alla loro umanità e dignità dall’altro sesso (e più precisamente, dalle regole dei sistemi economico-sociali che si sono succeduti nei secoli).

È una festa quindi, quella di oggi, che sollecita a riflettere in molte direzioni. Perché è nelle molte direzioni che il progresso economico, politico, sociale e culturale ha percorso nel secolo scorso che il movimento delle donne ha dato il suo contributo: non solo all’affermazione dei diritti di un genere maggioritario me emarginato, ma a quello della società nel suo insieme. ”Che ‘a piasa, ‘a tasa e ‘a staga a casa”, è il vecchi detto veneto: se avesse accettato questo tabù posto al suo ruolo (piacere, tacere, fare la casalinga) molte delle conquiste di cui oggi tutti ci gioviamo non sarebbero state raggiunte (o lo sarebbero stato molto molto più tardi). Vogliamo ricordarne alcune?

Il suffragio universale, che ha reso la democrazia lo strumento realmente utilizzabile per basare il governo sulla volontà del popolo: il migliore degli strumenti fin qui inventati dall’uomo, nonostante i suoi difetti. Condizioni di lavoro migliori per tutti nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici, ottenuti grazie all’ingresso delle donne nelle vertenze sindacali. I nuovi diritti civili di tutti i soggetti, maschi e femmine, raggiunti nel nostro paese grazie alle grandi battaglie per la liberazione della donna degli anni Sessanta e Settanta. E l’odierna campagna mondiale per la pace, che si ricollega alle infinite manifestazioni animate dalle donne (quasi geneticamente ostili a tutto ciò che minaccia la specie) in tutto il corso del secolo che sta alle nostre spalle.

Poiché sono urbanista, voglio ricordare il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di uno strumento essenziale per rendere più vivibile la città: gli standard urbanistici. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne, per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse a stabilire, per legge (765/1968), che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico. Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti, e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo.

Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso, troppo stesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.
Spesso, non sempre. E uno degli auguri che vorrei fare oggi a tutte le donne (e a tutti gli uomini) è che gli esempi positivi si moltiplichino e si generalizzino. Che le conquiste quantitative strappate nei decenni trascorsi non vengano tradite, ma tradotte nella qualità di una città finalmente resa amica delle donne e degli uomini.
L’altro augurio nasce da questi giorni, in cui governi inetti minacciano di gettare il mondo nell’abisso di una guerra targata USA. Queste tre lettere ci spingono oggi a ricordare che la festa di oggi esprime anche la solidarietà con le 129 donne che, quasi un secolo fa, morirono negli USA per i loro e i nostri diritti. Mimosa e pace, sulle due sponde dell’Atlantico, come un arcobaleno.

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