. Corriere della Sera e La Repubblica, 8 agosto 2016 (c.m.c.)
Corriere della Sera
I RAGAZZI DEVONO SAPERE
COSA ACCADE A MARCINELLE
di Paolo Di Stefano
Oggi, 8 agosto, ricorre il 60° anniversario della tragedia di Marcinelle. Che cosa ne sappiamo di quel che accadde quel giorno? Che cosa sappiamo di quel che avvenne prima e di quel che avvenne dopo? Nulla. Provate a chiedere che cosa fu Marcinelle a un ragazzo non dico di 13, ma di 18 anni. Provate a chiedere a un trentenne o a un cinquantenne. Avrete risposte vaghe. Solo i vecchi italiani ricordano qualcosa di quella giornata del 1956.
Quella mattina, prima delle 8, una rara giornata di sole, al Bois du Cazier, la vecchia miniera del distretto di Charleroi in Belgio, un incidente a 975 metri sottoterra scatenò un incendio che investì subito gallerie e cunicoli, sopra e sotto, ovunque. Mezz’ora prima, erano scesi 274 minatori nei vari livelli, fino a -1.035 metri. 262 giovani sarebbero morti, 136 erano italiani. Ne uscirono vivi solo 12, tra cui il molisano Antonio Iannetta, che secondo le ricostruzioni provocò il disastro: aveva inserito male un carrello pieno di carbone nell’ascensore, l’ascensore chissà come e perché (un equivoco con l’operaio di superficie) partì e il vagonetto che fuoriusciva andò a sbattere contro una trave, pochi metri sopra, dove correvano vicinissimi i tubi dell’olio e i cavi elettrici. Lo schianto provocò il fuoco.
I responsabili se la presero comoda: non era la prima volta che succedeva un incidente (anche mortale). Le operazioni di soccorso furono lente, i pompieri arrivarono a mezzogiorno quando già il fumo usciva dalle ciminiere, il cielo era diventato nero e le donne erano attaccate alle grate del cancello ad aspettare e a piangere.
Sono passati sessant’anni, ma per le vedove, gli orfani, i vecchi minatori, l’incidente di Marcinelle (che chiamano, con parola mezzo italiana e mezzo francese, la «catastròfa») è avvenuto ieri. Hanno ancora negli occhi quella mattina e l’attesa delle giornate successive. Due settimane dopo un soccorritore italiano sarebbe tornato in superficie urlando la verità a cui nessuno voleva credere: «Tutti cadaveri!».
I tre processi condannarono a sei mesi con la condizionale il direttore della miniera; gli amministratori e gli ingegneri (responsabili delle incurie, della pessima manutenzione e delle bestiali condizioni di lavoro) non vennero toccati dalla giustizia. I parenti dovettero pagare le spese giudiziarie. Il testimone principe, Iannetta, era stato mandato in Canada (era il suo desiderio) a processo in corso. Il re Baldovino era accorso subito, il giorno stesso, le autorità italiane non si mossero da Roma.
Eravamo dei poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce (su Marcinelle è appena uscito da Donzelli un libro-inchiesta di Toni Ricciardi).
Che cosa rimane di tutto ciò nella memoria degli italiani? La «catastròfa» è la prima grande tragedia dell’Italia repubblicana: una tragedia europea, perché quel carbone sarebbe servito a risollevare le sorti non solo dell’Italia ma dell’Europa del dopoguerra. Quel giorno morirono uomini di 12 nazionalità diverse (gli italiani furono i più numerosi). Rimane ben poco. Qualche rievocazione per gli anniversari.
Cosa ne sanno i giovani di quel che eravamo non due secoli ma sessant’anni fa (nel 1965 altri 56 operai italiani sarebbero morti a Mattmark, in Svizzera, per il crollo di una diga)? Che cosa ne sanno del razzismo di cui erano vittime gli italiani («Né cani né italiani» era il divieto appeso sulle porte dei locali pubblici in Belgio)? È cambiato tutto. Abbiamo vissuto il boom economico mentre ancora si emigrava in Svizzera e in Germania per fare lavori pericolosi.
Nelle scuole bisognerebbe rendere obbligatorio il capitolo: «Emigrazione italiana», nelle famiglie bisognerebbe parlare anche del nostro passato doloroso. Per educare i nostri figli a guardare con occhi più consapevoli alle emigrazioni degli altri, quelle che oggi dobbiamo «subire». Esercitare la memoria, individuale e collettiva, a futura memoria.
La Repubblica
MARCINELLE,
L’ITALIA È PARTITA DA LÌ
di Guido Crainz
MARCINELLE, Belgio, l’8 agosto di sessant’anni fa: una data da non dimenticare mai. Per il devastante incendio nella miniera di carbone in cui muoiono 262 lavoratori, di cui 136 italiani. Per il più generale simbolo che presto l’evento diventa: non solo nel vissuto delle famiglie e dei paesi colpiti dal lutto, e non solo in quel 1956 (nel 2001 è stata istituita proprio per l’8 agosto la Giornata del sacrificio del lavoro italiano).
Non la dobbiamo dimenticare, anche, per quel che ci dice della nostra storia: quella tragedia affonda le sue radici nell’Italia piagata del dopoguerra ma colpisce un Paese che sta lasciandosi faticosamente alle spalle quegli anni. La notizia dell’«inferno nella miniera arroventata», scriveva Dino Buzzati, giunge in un agosto italiano in cui le vacanze iniziano ad essere costume di massa: stride con quella Italia, quasi a ricordarle i sacrifici che hanno costruito e stanno costruendo il nostro “miracolo”. È infatti del 23 giugno del 1946 l’“accordo minatori-carbone”, come lo chiamerà poi alla Costituente il ministro Carlo Sforza, cioè l’impegno a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di 50.000 lavoratori italiani in cambio di forniture preziose: il carbone appariva fondamentale come il pane, e anche il pane scarseggiava in quel 1946.
Ancora a dicembre una prima pagina della Domenica del Corriere sarà dedicata appunto a “Il dramma del grano” e poco dopo Nenni annoterà nel suo diario: «Le scorte sono a zero. Abbiamo dato pane a Milano perché l’ammiraglio Stone ci ha prestato cinquemila quintali di farina». Pochi mesi prima dunque il governo ha firmato l’accordo per l’invio di italiani nelle miniere belghe, in condizioni di vita e di lavoro che si riveleranno spaventose. Miniere in cui i lavoratori di quel Paese non vogliono più scendere.
Ci parla di quell’Italia, dunque, il dramma di Marcinelle: quasi “inevitabilmente” la via dell’emigrazione era apparsa ai governi del tempo una via necessaria, e molti italiani aspirarono realmente e fortemente ad essa per sfuggire a pesanti condizioni di miseria e di incertezza. Non erano inevitabili però le condizioni di quell’emigrazione in Belgio, ben diverse da quelle promesse dai manifesti che tappezzavano le piazze e i locali pubblici. Non erano inevitabili le durezze estenuanti e le umiliazioni dei viaggi (con i treni di fatto “sigillati” mentre attraversavano la Svizzera, ad evitare “fughe”).
Non erano inevitabili le disumane condizioni di vita nelle baracche, o la dura “scoperta” di un lavoro «abbruttente, inumano, svolto lontano dalla luce del Sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore (…) una condanna da cui si attende la liberazione» (sono parole di Aldo Moro, che nel 1949 visita il Belgio come sottosegretario). Vi sono anche le carenze delle istituzioni pubbliche nella storia che porta a Marcinelle, e anche quelle carenze - anche quei patti non rispettati, o quei varchi lasciati ai trafficanti del lavoro - contribuiscono a farci comprendere i costi altissimi che furono pagati: lo testimoniarono i moltissimi lavoratori che rientrarono subito, talora sfidando l’arresto per “inadempienza” (un altro paradosso, un altro rovesciamento di questa vicenda).
Lo testimoniarono le moltissime vittime: alla vigilia di Marcinelle erano già 1164 i minatori morti in Belgio dal 1947, e 435 di essi erano italiani.
Ha davvero in sé un “dovere di memoria”, Marcinelle, e lo ha sottolineato con efficacia un recente libro di Toni Ricciardi, Marcinelle, 1956, che ha un sottotitolo eloquente: Quando la vita valeva meno del carbone (Donzelli editore). In esso Annacarla Valeriano analizza bene anche la “comunicazione” e la “rappresentazione” che vi furono di quell’evento e che contribuirono a farlo diventare, appunto, lutto pubblico: chi ha visto i cinegiornali di allora della Incom non li dimentica più, e i giornali sono altrettanto eloquenti.
Il-luminano di luce cruda non solo l’inferno delle miniere ma anche la realtà da cui quegli uomini erano partiti. Disegnano una vera geografia della miseria e del dolore, popolata da piccoli paesi sin lì sconosciuti, soprattutto abruzzesi (viene da questa regione la maggior parte delle vittime italiane): «ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei giornali - scriveva Il Giorno - perché l’Italia si chieda dove sia Manoppello, e perché la gente di questo paese è così povera, e cosa si può fare per sollevarla alla miseria senza mandarla a morire in Belgio».
E ricordava che in quell’Italia erano ancora in vigore (e lo saranno sino al 1961) le leggi fasciste contro l’urbanesimo volte a impedire le migrazioni interne: un altro stridente contrasto del nostro dopoguerra. In realtà l’Italia iniziava a cambiare, in quel 1956, ma da qui siamo partiti: questo abbiamo sofferto, e non dovremmo dimenticarlo mai.