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50 anni fa. L'insurrezione legale della gioventù del «miracolo»
4 Luglio 2010
Difendere la Costituzione
Giorni lontani nella storia, sbiaditi nel ricordo, vicini e vivi come testimonianza. Fu la ribellione di massa che aprì la strada al ventennio delle speranze. il manifesto, 4 luglio 2010

Giovanni De Luna, L'insurrezione legale della gioventù del «miracolo»
Cronologia, L'avventura dc e nera del governo Tambroni
Tambroni
Alberto Piccinini, Colonna sonora. La cantata colta di Amodei sui morti di Reggio Emilia

LUGLIO '60
L'insurrezione legale della gioventù del «miracolo»
di Giovanni De Luna

Mezzo secolo dopo è abbastanza facile collocare storicamente il «luglio '60». Basta la cronologia. Basta il confronto con l'anno precedente, il 1959, (quando la lira ottenne l'Oscar per la moneta più stabile da parte del Financial Times), e con quello seguente, il 1961, quando i dati del censimento rivelarono che in dieci anni eravamo diventati la quinta potenza industriale del mondo. Si trattava del «miracolo italiano». Il mutamento non interessò soltanto la struttura economica ma rimbalzò sulle strutture sociali e demografiche, sull'assetto territoriale, sulle caratteristiche professionali della forza-lavoro, sul funzionamento dei servizi pubblici, sull'organizzazione scolastica e su quella assistenziale. Cambiò anche la politica. Il centrismo degasperiano aveva alle spalle un'Italia sessuofobica, bigotta, contadina; la nuova Italia trovò nel centrosinistra la formula governativa per accettare la sfida di una modernizzazione improvvisa e tumultuosa.

Il luglio '60 si inserisce in questa sequenza di eventi, così che Genova con la sua insurrezione contro il Congresso del Msi, Reggio Emilia con i suoi morti sparati dalla polizia (così come Palermo, Licata, Catania), Roma con le cariche dei carabinieri a cavallo a Porta San Paolo, rappresentano oggi nitidamente i luoghi in cui la «grande trasformazione» che aveva investito la struttura profonda del nostro paese si manifestò nelle forme più esplicite del conflitto ideologico e della partecipazione politica.

Senza il boom non ci sarebbe stato il luglio '60. Senza il boom non ci sarebbero stati «i giovani delle magliette a striscie» che ne furono i protagonisti e l'icona simbolica. In quei dieci anni erano diventati produttori (entrando tumultuosamente nel mercato del lavoro), erano diventati consumatori (ci fu allora per la prima volta una loro musica, il rock, un loro modo di vestire, i jeans, il loro percepirsi in una netta discontinuità rispetto alla frugalità delle generazioni precedenti); nelle piazze del luglio '60 scoprirono la politica e l'impegno. Lasciando tutti stupiti. I partiti politici e un'opinione pubblica quasi incredula nei confronti delle «rivelazione» di cosa era maturato nelle pieghe profonde di una «gioventù» che semmai si credeva orientata più verso i valori della destra. Tutti gli osservatori furono allora colpiti proprio da questo tratto della rivolta: «Non sono soltanto i figli che ripetono fedelmente e riprendono la tradizione lasciata dai padri - notava Carlo Levi- sono questi giovani degli uomini autonomi, con caratteri nuovi, differenziati, diversi, sono i ragazzi di Palermo, sono gli operai e gli studenti di Genova, sono i giovani di ogni parte d'Italia che danno un senso nuovo alla lotta sindacale, che affermano la necessità e il diritto dello sciopero politico, sono i giovani senza ricordi di servitù con la volontà di essere uomini».

Il luglio '60 cambiò la storia d'Italia almeno fino al 1992-1994. Fino ad allora, dal 1948 in poi, era stato l'anticomunismo il valore di riferimento della leadership politica del paese. La Costituzione era stata congelata. Codici, leggi, comportamenti politici erano ancora quelli dettati dal fascismo. Era la continuità dello stato che si rifletteva negli organigrammi delle forze dell'ordine, della magistratura, del blocco del potere economico. Con il luglio '60 l'antifascismo si ripropose come elemento fondante del nostro paradigma costituzionale. Non più un «patto sulle procedure» come era stato nel biennio che aveva portato all'approvazione della Costituzione; non ancora un'alleanza tra i partiti dell'«arco costituzionale» come sarebbe diventato dopo, ma un agente della trasformazione sociale, capace di intercettare e di dialogare con i nuovi fermenti alimentati dalla «grande trasformazione». «L'ipotesi più attendibile e più confortante - scrisse allora Passato e Presente - è che in luglio le masse si sono battute per la libertà: per una libertà minacciata, sì, ma certo più per una libertà da conquistare che da difendere. Si è lottato contro la cancrena diffusa nell'organizzazione sociale e politica attraverso l'insolente furfanteria dei politicanti, la corruzione del sottogoverno, la grettezza bigotta della censura, la tracotanza padronale nella fabbrica, l'avvilimento della scuola, l'istituto della raccomandazione sostituito al diritto al lavoro, la retorica nazionalistica sciorinata a coprire le piaghe sociali».

È impressionante notare oggi la vivacità culturale che si ritrova a cavallo delle giornate del luglio '60. Non solo una canzone (come quella di Fausto Amodei sui morti di Reggio Emilia) e l'esperienza liberatoria della musica dei «Cantacronache»; ma anche il cinema (dopo la glaciazione degli anni '50 - con un unico e solo film dedicato alla Resistenza, Achtung Banditi di Lizzani del 1954 - uscirono uno dopo l'altro Il generale Della Rovere, Le quattro giornate di Napoli, Tutti a casa..), la letteratura, l'arte e perfino la televisione che nel 1961, dopo 7 anni dalla sua nascita, mandò in onda per la prima volta un programma dedicato alla Resistenza. Un paese che si trasformava nella sua struttura economica e scopriva la strada della modernizzazione culturale si riconobbe allora pienamente e compiutamente nell'antifascismo.

Tra gli antifascisti, Piero Caleffi parlò allora a proposito di Genova di «insurrezione legale». Era un ossimoro, ma oggi segnala quella che fu allora una percezione diffusa. Venti anni di fascismo avevano introdotto i germi di due fenomeni difficili da smaltire: la violenza era stata utilizzata vittoriosamente per prendere il potere e distruggere le istituzioni dello Stato liberale; l'unica forma di opposizione politica possibile era quella legata alla clandestinità e illegalità. Sviluppatosi contro la dittatura, l'antifascismo era nato nell'illegalità e nell'illegalità aveva trovato l'unico possibile antidoto all'oppressione, approdando alla concezione di una legalità fondata sui principi morali e contro le leggi dello Stato. Questa legalità superiore era diventata legalità tout court con la Carta Costituzionale che vietava la ricostituzione del partito fascista. Gli insorti di Genova si percepirono dentro quella legalità costituzionale e infransero le leggi con la coscienza di chi sa che quella disobbedienza è alimentata dai succhi della democrazia e della lotta per la libertà. Era tutto molto chiaro: «Da una parte - come scriveva allora Francesco Fancello - esiste un categorico divieto della nostra carta costituzionale alla ricostituzione del partito fascista....dall'altra parte l'aspetto giuridico formale del problema è soverchiato da quello derivante dalla carica morale-politica che ha trascinato tanti italiani nel campo dei fuorilegge...durante il tempo del fascismo dominante». Quel tempo era allora vicino, ancora troppo vicino.

CRONOLOGIA

L'avventura dc e nera del governo Tambroni

7 GENNAIO 1960: L'Osservatore Romano definisce inammissibile ogni apertura a sinistra.

21 FEBBRAIO: Il Partito liberale ritira il suo appoggio al governo Segni.

9 MARZO: Segni è incaricato di formare il nuovo governo.

21 MARZO: Segni rinuncia all'incarico.

25 MARZO: Tambroni presenta al presidente Gronchi il suo ministero.

4 APRILE: Tambroni presenta il governo alla Camera.

11 APRILE: Tambroni si dimette.

14 APRILE: L'incarico viene affidato a Fanfani.

22 APRILE: Fanfani rinuncia all'incarico.

23 APRILE: Gronchi invita Tambroni a presentarsi al Senato per completare l'iter costituzionale.

5 MAGGIO: Nasce il governo Tambroni. È un monocolore Dc che si regge con il sostegno preponderante dei voti dei monarchici e

dei fascisti missini

26 GIUGNO: Congresso provinciale del Msi a Genova.

28 GIUGNO: Pertini tiene un comizio a cui partecipano trentamila persone.

30 GIUGNO: Sciopero generale a Genova. Scontri tra cittadini e polizia in piazza De Ferrari.

1 LUGLIO: Sciopero generale a Milano, Livorno, Ferrara.

2 LUGLIO: Il congresso del Msi non viene più tenuto a Genova. I neofascisti lasciano la città protetti dalla polizia.

3 LUGLIO: Grande assemblea unitaria delle forze antifasciste al teatro Duse di Genova. Presenti tra gli altri Longo, Secchia, Terracini, Parri, Antonicelli, Peretti Griva.

5 LUGLIO: Il Senato approva per alzata di mano il bilancio del ministero degli Interni.

A Licata, il primo morto del governo Tambroni.

6 LUGLIO: La polizia carica deputati e manifestanti a Porta San Paolo a Roma. Sciopero generale in tutta Italia.

7 LUGLIO: Strage di Reggio Emilia: cinque morti e decine di feriti tra la popolazione.

8 LUGLIO: Scioperi di protesta in tutta Italia. Strage a Palermo: due morti e decine di feriti. Un morto a Catania.

9 LUGLIO: L'agenzia tambroniana Eco di Roma afferma che «l'ordine e la legalità sono stati ristabiliti in tutto il paese». Centomila persone partecipano a Reggio Emilia al funerale dei caduti.

12 LUGLIO: Dibattito alla Camera: Nenni, Saragat, Togliatti chiedono che Tambroni se ne vada.

14 LUGLIO: Tambroni difende alla Camera l'operato del suo governo e accusa i comunisti di aver mobilitato la «piazza» contro la legalità.

17 LUGLIO: Manifestazioni in tutta Italia contro il governo.

19 LUGLIO: Ultimo Consiglio dei ministri del governo Tambroni.

21 LUGLIO: A Porta San Paolo, grande comizio antifascista di Ferruccio Parri.

28 LUGLIO: Nasce il governo Fanfani.

18 FEBBRAIO 1963: Tambroni muore d'infarto a Roma.

(da «Il luglio 1960», P. G. Murgia, Sugar edizioni»)

TAMBRONI

Un dc «borghese, maschio, virile, antimarxista»

Chi era Fernando Tambroni? Così lo presentava una nota del suo ufficio stampa: «L'onorevole Tambroni appartiene a quella borghesia maschia e virile che si affaccia sui problemi sociali e politici senza infingimenti, ma soprattutto senza paura. È un lavoratore efficiente e metodico in un mondo di pigri, un solutore di problemi legislativi, un difensore strenuo e implacabile di quella invalicabile linea che distingue la nostra etica politica dal marxismo della estrema sinistra». 59 anni, originario di Ascoli Piceno, è cresciuto alla scuola del partito cattolico. Nel '25 è segretario del Partito popolare di Ancona. Chiamato davanti al federale, firma un umiliante atto di sottomissione, riconoscendo «Benito Mussolini come l'uomo designato dalla provvidenza di Dio a forgiare la grandezza di un popolo». Così svolge indisturbato la sua professione di avvocato. Appena si delinea la caduta del fascismo, torna a farsi notare in ambienti cattolici. È sottosegretario alla Marina Mercantile nel governo De Gasperi. Ma è il ruolo di ministro degli interni quello che più gli si confà. Nel 1955 è ministro degli interni del governo Segni, è ancora agli Interni con il governo Zoli e poi nel secondo governo Fanfani nel 1958. Nel suo ruolo crea un «Uffico psicologico», un «Ufficio speciale di polizia politica», impiegando il primo apparato per raccogliere indiscrezioni sulla vita privata di parlamentari, prelati, giornalisti, ministri, finanzieri. Nella sua conduzione Tambroni adopera la maniera forte. Da subito si presenta come difensore delle istituzioni contro la minaccia social-comunista: «Ogni tentativo - dichiara - di minaccia alle istituzioni (l'ho già detto, ma mi pare che nel nostro Paese vi sia molta gente con l'ovatta nelle orecchie), e quindi di pericolo per la libertà, sarà decisamente contenuto e, ove sia necessario, senza esitazioni, e per il bene della collettività decisamente represso».

COLONNA SONORA

La cantata colta di Amodei sui morti di Reggio Emilia

di Alberto Piccinini

«Compagno cittadino, fratello partigiano/ teniamoci per mano in questi giorni tristi». Ha scritto Umberto Eco che Per i morti di Reggio Emilia è l'unica canzone che può stare, «per forza di trascinamento, alla pari con la Marsigliese». A cominciare dal quel termine, «cittadino» («Aux armes, citoyens»). «Di nuovo a Reggio Emilia di nuovo giù in Sicilia/ son morti dei compagni per mano dei fascisti». Fausto Amodei compose Per i morti di Reggio Emilia nel 1960, a 25 anni. Faceva parte del gruppo torinese Cantacronache, culla della canzone impegnata italiana. Musicalmente coltissimo, era innamorato pazzo di Brassens e Brel. Indossò le vesti dell'autore «straniato» alla Kurt Weil e alla Hans Eisler per cantare la cronaca dell'eccidio di Reggio Emilia. Scelse un tema in minore, senza le modulazioni cabarettistiche che amava, ispirato ai momenti cantabili di Quadri di un esposizione di Mussorgsky.

«Di nuovo come un tempo sopra l'Italia intera/ fischia il vento infuria la bufera». Dicono le cronache che la sera del 6 luglio 1960, 300 operai delle Officine Reggiane si fermarono a manifestare davanti al Monumento ai Caduti di Reggio, cantando canzoni di protesta. Fu qui che la polizia caricò armi in pugno, lasciandone cinque uccisi a terra. I più anziani di loro, Afro Tondelli, Marino Serri, Emidio Reverberi, erano stati partigiani, e per questo la canzone non solo traccia una linea di continuità tra vecchi e nuovi partigiani, ma mostra in maniera teatrale, brechtiana, la piccola folla che canta prima di essere attaccata dalla polizia. «Uguale è la canzone che abbiamo da cantare» - è il terzo ritornello - Scarpe rotte eppur bisogna alzare». Come un gioco di scatole cinesi Per i morti di Reggio Emilia è perciò una canzone che ne contiene molte altre. Fischia il vento, Bandiera rossa, persino l'Inno di Garibaldi del 1858, che cominciava così: «Si scopron le tombe, si levano i morti/ i martiri nostri son tutti risorti». «A 19 anni è morto Ovidio Franchi/ per quelli che son stanchi o sono ancora incerti» Uno dei motti dei Cantacronache recitava così: «Evadere dall'evasione». Contro le canzonette sanremesi, la musica gastronomica. Amodei incrocia in quel luglio 1960 il soprassalto della prima generazione dei ventenni post-Resistenza, gli stanchi e gli incerti, tentati dalle seduzioni del boom economico. Un'aria di noia e rassegnazione che lo stesso Amodei aveva appena fotografato in una canzone splendida: Qualcosa da aspettare, ambientata in certe domeniche che piove con gli operai e le loro ragazze «dentro i cinema e a ballare», successivamente interpretata da Enzo Jannacci.

«Lauro Farioli è morto per riparare al torto/ di chi si è già scordato di Duccio Galimberti/ Son morti sui vent'anni per il nostro domani/ son morti come vecchi partigiani». Il soprannome di Lauro Farioli era «Modugno», per vaga somiglianza col cantante, la faccia più popolare della nuova canzone italiana. A proposito dei vent'anni, per i Cantacronache Italo Calvino aveva scritto Oltre il ponte, una elegiaca canzone sulla Resistenza che iniziava così: «Avevamo vent'anni e oltre il ponte, oltre il ponte che è in mano nemica, vedevam l'altra riva la vita...». «Marino Serri è morto, è morto Afro Tondelli...». L'elenco dei cinque morti di Reggio Emilia, come se lo leggessimo nella stele del Monumento ai Caduti dove l'azione si svolge, è incompleto per motivi metrici. Il nome di Emidio Reverberi si può ascoltare soltanto nella strofa finale (e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli...), che porta all'ultimo ritornello: morti di Reggio Emilia uscite dalla fossa/ tutti a cantar con noi bandiera Rossa. Nella versione originale di Amodei la canzone fu interpretata dal solo autore, con lieve arpeggio di chitarra e i vezzi alla Brassens. Furono gli Stormy Six e il Canzoniere delle Lame, più di dieci anni dopo, a consegnarci la versione militante in cui il ritornello è cantato in coro. Fausto Amodei, com'è giusto, lasciò la sua Morti di Reggio Emilia alla tradizione, continuando a scrivere canzoni contro il (neo)fascismo e la Resistenza dimenticata. Una di queste era la parodia del fascistissimo Canto degli Arditi, e si intitolava Se non li conoscete (1972). Curioso che la stessa melodia fosse già stata scelta nel 1960 per raccontare le giornate genovesi delle magliette a strisce in piazza contro il governo Tambroni. «E piazza de Ferrari in un attimo fu presa - recitavano quelle strofette - fascisti e celerini chiedevano la resa/ Poi poi poi ci chiamavano teddy boys». Una voce, forse solo una suggestione, sostiene che le avesse composte nientemeno che Fabrizio De Andrè. Un altro innamorato di Brassens, come Fausto Amodei.

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