Vittime predestinate del nostro sistema numerico decimale, attribuiamo particolare rilevanza agli anniversari che finiscono con lo zero, come nel decennale dell'11 settembre 2001 che oggi cade. E meno male che non adottiamo una numerazione binaria come invece fanno i computer, altrimenti ci toccherebbe dare straordinario risalto a ogni bienniversario. Questi riti del ricordo sono intrinsecamente manierati (le inaggirabili esposizioni di disegni di bambini sul tema, le testimonianze in diretta dei superstiti, le immagini e le voci nei telefonini ripetute fino alla saturazione). Ma proprio il loro carattere codificato ci interroga sul ruolo (e sulla strumentalizzazione) della nostra memoria storica.
Perché nel lutto collettivo avviene come nei lutti privati con la dipartita dei nostri cari: lasciato a se stesso il dolore si attenua (per fortuna!), il ricordo impallidisce, la vita riprende a poco a poco il sopravvento. In questo caso specifico la funzione dell'anniversario (come di tanti stratagemmi) è quella di non lasciare elaborare il lutto collettivo, ma di spargere sale sulla ferita perché rimanga aperta e diventi difficile relegarla nell'oblio. Compito alla lunga impossibile perché tutti gli eventi umani - checché se ne dica - cadono nel dimenticatoio. Chi ricorda che tra il 1914 e il 1918 la prima guerra mondiale (35 milioni di morti) fu combattuta come «la guerra per finirla con la guerra»? Bastarono 21 anni perché il ricordo di quegli orrori sbiadisse e nel 1939 scoppiasse una guerra ancora più sanguinosa (più di 60 milioni di esseri umani uccisi), che anch'essa sta ormai dissolvendosi nel regno delle ombre (i ragazzi di oggi non ne sanno quasi più nulla).
Subito dopo l'attentato, il presidente George Bush jr. paragonò l'11 settembre all'attacco di Pearl Harbour (7 dicembre 1941), e all'«inizio di una nuova guerra». Oggi in realtà nessuno più ricorda Pearl Harbour (nonostante i molti film allora girati da Hollywood sul tema), e nessuno si sognerebbe di boicottare i prodotti giapponesi a causa di quell'attacco, né i viaggiatori nipponici vengono perquisiti a fondo a causa di quel raid.
La storia è costellata di eventi che hanno suscitato (e susciteranno in futuro) il ritornello «Niente sarà più come prima», tesi sempre vera, poiché la storia è un processo irreversibile, ma anche sempre falsa perché nessun evento ha mai un tale primato. Da questo punto di vista l'11 settembre 2001 è particolarmente insidioso, poiché è sì rilevante nella storia del mondo (in parte a causa dell'abnorme reazione che ha suscitato), ma non è quella cesura storica che la vulgata statunitense ci invita (anzi ci ingiunge) ad adottare: come c'è una cesura prima e dopo Cristo, così vi sarebbe uno spartiacque tra a.9/11 e d.9/11.
Se la storia del mondo non si è divisa tra prima Hiroshima e dopo Hiroshima (80.000 morti subito e altri 90.000 per le ricadute) che segnò l'inizio dell'era atomica, è dubbio che ciò avvenga per le 2.977 vittime del World Trade Center (e connessi). Ma in realtà la prima lotta politica è per la definizione, poiché ciò che sembra descrivere in realtà prescrive: quando ci si impone di considerare l'11 settembre una cesura epocale, è perché la si vuole rendere tale. Noi comuni terrestri non possiamo fare a meno di considerare la disparità del peso che hanno i morti nella storia. Quelle quasi 3.000 vite vengono messe sullo stesso piatto della bilancia di centinaia di migliaia di giapponesi, ma addirittura eclissano le decine di migliaia di cileni uccisi in un altro 11 settembre, quello del golpe di Pinochet nel 1973.
L'11 settembre 2001 fu eccezionale non di per sé (malgrado la sua straordinaria spettacolarità), ma perché colpì una «nazione eccezionale»: la sua abnorme importanza s'inserisce perciò nel- (è dovuta a, e contribuisce a rafforzare) l'eccezionalismo americano. Non a caso, un effetto collaterale di quest'atteggiamento è la nascita del Tea Party che proprio sull'eccezionalismo Usa si fonda.
Perciò la frase «Niente sarà mai più come prima dell'11 settembre» contiene una verità, ma parziale.
È vero che quell'attentato ebbe successo al di là di ogni immaginabile speranza di al Qaida. Se lo scopo del terrorista è terrorizzare, ebbene l'America e l'Occidente hanno vissuto nel terrore da allora. Un terrore alimentato, curato: perché è assai curioso che da 10 anni a questa parte negli Stati uniti non sia scoppiato nemmeno un petardo, neanche un misero scoppio, niente. Ma ogni tanto viene lanciato un allarme attentati, più spesso in coincidenza con l'anniversario: è avvenuto anche ieri. E il rituale sempre più umiliante delle perquisizioni e radiografie aeroportuali è mirato a non permettere a nessun viaggiatore di dimenticare la minaccia. È vero che al Qaida ha fatto abrogare articoli ed emendamenti essenziali della Costituzione americana, ha revocato il quasi millenario Habeas corpus, ma solo perché - come scriveva Mike Davis nell'Alias di ieri - c'è stata collusione tra attaccanti e attaccati.
Da un altro punto di vista però, l'11 settembre ha ribadito una continuità. Da tempo infatti gli statunitensi vivevano in quello che, dopo il film di Peter Weir del 1998, possiamo chiamare il Truman Show, vivevano cioè ignari in uno spettacolo, senza mai uscire nel mondo reale là fuori. L'ingresso nel Truman Show non era avvenuto di botto ma gradualmente, con i primi passi compiuti dalla dottrina del «destino manifesto» all'espansionismo Usa (coniata nel 1845), e acceleratosi drammaticamente dopo gli anni '70 del secolo scorso. Ora, noi tutti - noi cittadini del mondo o noi statunitensi di sinistra - avevamo sperato che l'11 settembre facesse infine uscire gli Stati uniti dal Truman show, mostrasse loro che il resto del mondo non li considera come si vedono loro (e cioè come nice guys, come boy scouts che aiutano gli altri paesi ad attraversare la strada per raggiungere la democrazia). E in realtà per qualche giorno, forse per un mese, gli Usa uscirono dal Truman show, il segretario di Stato Colin Powell dichiarò persino che bisognava riconoscere lo stato palestinese (quello stato al cui riconoscimento oggi, dieci anni dopo, gli Usa di Barack Obama hanno già dichiarato di voler apporre il veto). Ma nel pianeta reale i dirigenti americani ci resistettero pochissimo e si precipitarono a rientrare nel loro mondo immaginario di unici difensori della libertà e della democrazia, per quanto a suon di bombe, intelligenti o meno.
E questo ci porta al ruolo della memoria volutamente intrattenuta: nell'ultimo numero di Harper's David Rieff scrive che non tutte le memorie storiche sono buone e ricorda la guerra jugoslava, una guerra alimentata soffiando proprio su memorie storiche intrattenute ad arte (un po' come i nazisti intrattennero accuratamente il ricordo de «l'umiliazione di Versailles» dopo la Grande Guerra). Versare il sale sulle ferite può non essere buono, e lo si vede dall'islamofobia cresciuta all'ombra delle Due Torri. Rieff si chiede se non sia il caso di cominciare a dimenticare, per esempio celebrare un po' meno gli anniversari.
Non solo è il caso, ma succede già. In tutto quello che è uscito sull'11 settembre negli Usa e nel mondo si sente una certa stanchezza, come un pranzo con la famiglia riunita, qualcosa che non si può evitare ma di cui si farebbe volentieri a meno. Altri timori ben più concreti agitano gli statunitensi: disoccupazione, crisi, mutuo in ritardo sulla casa. La stessa «guerra al terrore», quel mostro giuridico ideato da Bush, è una parola non più usata da quando Barack Obama è presidente ed è una guerra combattua con sempre minore convinzione, una guerra che tutti sanno che non sarà mai vinta. Perciò l'augurio più sentito per questo decennale è che non dovremo celebrare il ventennale.