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Antonio Cederna
1990, Unica soluzione la pianificazione
12 Febbraio 2007
Scritti di Cederna
Un articolo particolarmente attuale, dalla rivista Micromega, 1/1990. Il contesto è diverso, ma l’insegnamento è ancora valido

La degradazione delle città e del territorio può essere combattuta solo rifondando il piano, ciò che impone un radicale ripensamento nella sinistra. Alcune idee per il risanamento conservativo dei centri storici e per impedire l’ennesimo sacco di Roma

Gli anni Ottanta sono stati i peggiori per le nostre città, per il territorio e l’urbanistica in generale. Sono stati gli anni in cui si è smantellato quel tanto di strumentazione urbanistica che ci aveva dato il periodo della solidarietà nazionale (legge Bucalossi sul regime dei suoli, legge 457 sul piano decennale per la casa, equo canone): gli anni dell’abusivismo condonato, delle leggi per emergenze artificiose (mondiali di calcio) e per cementificare alla cieca le regioni colpite da calamità naturali, terremoti e alluvioni; gli anni della rinuncia a pianificare, della deregulation, dell’urbanistica «contrattata», quella cioè imposta dai privati ai comuni in nome della mappa catastale e della rendita fondiaria. Il caso più clamoroso è stato la variante Fiat-Fondiaria a Firenze, dove i due colossi pretendevano di costruire, a dispetto del piano regolatore, quattro milioni di metri cubi (tre volte la piramide di Cheope) nella piana a nord-ovest della città: operazione fortunatamente fallita per l’intervento della segreteria nazionale del Pci, con grave imbarazzo per la giunta comunale di sinistra che l’aveva approvata. Anni, infine, in cui è continuato il consumo del suolo e, nonostante l’arresto della crescita demografica, lo spreco edilizio, che ha ormai raggiunto dimensioni paradossali. Ci sono in Italia circa 100 milioni di stanze per 57 milioni di abitanti, per una media teorica di quasi 2 stanze per abitante, la più alta d’Europa: uno stock edilizio che si è triplicato nell’ultimo mezzo secolo (nel ‘36 le stanze erano 34 milioni per 42 milioni di abitanti). Solo che si è costruito per lo più l’inutile e il superfluo, seconde e terze case invece della prima per chi ne aveva bisogno: tra i censimenti del 1971 e del 1981 le stanze sono aumentate di 22 milioni mentre gli italiani sono aumentati solo di due (dal 1951 a oggi le seconde e terze case sono aumentate di sette volte, da 655 mila a 4 milioni e 750 mila). E questo, insieme al proliferare di strade e autostrade, zone industriali eccetera, ha contribuito in modo determinante a quell’altro fenomeno rovinoso che è lo spreco di territorio: nell’ultimo trentennio più di tre milioni di ettari (un decimo cioè dell’Italia) sono andati distrutti, da far temere che entro poche generazioni tutta l’Italia sarà consumata e finita, ricoperta da un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto.

Perché la degradazione di città e territorio non diventi irreversibile è dunque necessaria, in quest’ultimo decennio del secolo, un’autentica rifondazione della pianificazione: che metta fine alla crescita quantitativa e punti invece sulla riqualificazione-trasformazione delle città, sul ricupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato (e tutto questo presuppone, da parte della sinistra, un radicale ripensamento delle proprie posizioni).

Anni di esperienze, riflessioni e studi ci hanno insegnato che i centri storici (forse 15 milioni di stanze) sono un patrimonio che va conservato nella sua integrità e nel suo assetto unitario, e che ogni intervento basato su giudizi discrezionali va bandito: “Uno dei presupposti della modernità è appunto quello di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire”, questo era scritto in un documento pubblicato sul primo numero del bollettino di Italia Nostra, dell’aprile 1957, a firma di una ventina di architetti (assai giovani allora), tra cui Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Vittoria Calzolari, Carlo Melograni eccetera, che poi da illustri studiosi ed urbanisti si sarebbero sempre battuti per le giuste ragioni della pianificazione. L’unico trattamento legittimo per i centri storici è dunque il recupero, il restauro, il risanamento, basato sulla conoscenza scientifica delle antiche compagini edilizie.

Risanamento conservativo significa rigoroso rispetto del tessuto edilizio, mantenimento della residenza e delle attività tradizionali, allontanamento delle funzioni intollerabili. L’esempio nei primi anni Settanta fu Bologna (assessore Pier Luigi Cervellati), che nel 1974 ebbe il diploma del Consiglio d’Europa per il risanamento di alcuni complessi edilizi degradati usando i fondi di solito impiegati per la costruzione di quartieri-ghetto periferici: ma poi la stessa amministrazione rossa, spaventata dal dover attuare i necessari espropri, come racconta Vezio De Lucia nel suo lucido compendio del quarantennale fallimento urbanistico italiano (V. De Lucia, 1989), fece marcia indietro. E da allora quello che era il vero contributo italiano alla cultura urbanistica europea ha segnato il passo, anche se qualche altra operazione è stata poi avviata (centro storico di Taranto, inizio dopo decenni di contrasti del risanamento dei Sassi di Matera). Ma intanto a Napoli sono tornati alla carica gli sventratori di sempre: un progetto redatto dai costruttori prevede infatti di radere al suolo un terzo del centro storico (unico fatto positivo il piano particolareggiato del centro storico di Palermo redatto, per incarico della giunta “anomala” di Palermo, da Leonardo Benevolo, Pier Luigi Cervellati, Italo Insolera).

Risanare i centri storici significa rimuovere le cause della loro inabitabilità, soffocamento e congestione, mettendo fine alla terziarizzazione selvaggia che elimina le residenze e le sostituisce con uffici pubblici e privati. Per questo a Roma (dove gli abitanti del centro storico negli ultimi decenni sono stati ridotti da 420 mila a 130 mila), si impone la realizzazione del Sistema direzionale orientale – il famoso Sdo – quella complessa struttura viaria, edilizia e di servizi nel settore est, dove trasferire alcuni milioni di metri cubi di attività direzionali e terziarie, a cominciare dai ministeri: allo scopo di decongestionare il centro, nel quale ogni giorno entrano, per ragioni di lavoro, più persone di quante ancora ci abitano, e insieme arricchire di attività e quindi riqualificare la derelitta periferia.

Al recupero del centro storico deve accompagnarsi la ristrutturazione delle periferie, la trasformazione qualitativa di tutto quanto è stato edificato dal dopoguerra in poi, e che non ha il minimo interesse storico. L’intervento di ristrutturazione riguarderà quanto è stato edificato negli anni Cinquanta e Sessanta dall’edilizia legale di tipo speculativo col massimo sfruttamento dei suoli; l’edilizia economica e popolare costruita su aree pubbliche, dove verde e attrezzature sono rimaste in gran parte solo sulla carta; e nel Centro-Sud quanto è stato costruito dall’abusivismo (Roma in testa, con le sue ottanta borgate fuori legge e condonate). Essenziale, nelle periferie come nei centri storici, il rispetto rigoroso dei vuoti superstiti, e l’utilizzazione a fini pubblici degli impianti militari e industriali che non servono più e vengono dismessi. Terzo impegno della rinnovata politica di pianificazione dovrà essere l’arresto della crescita urbana indiscriminata, e la rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato: che corre il rischio di essere occupato e privatizzato da una disseminazione edilizia a bassa densità, trasformato in un sistema urbanizzato continuo, quello che viene detto “rur-urbanesimo”. A Roma negli ultimi vent’anni, oltre 20 mila ettari sono così andati perduti (circa 2-3 ettari al giorno), con l’irreparabile compromissione di territorio agricolo, oltre che di grande valore paesistico, storico, archeologico. Ora si tratta di creare sistemi e cinture di verde, indispensabili per impedire l’ulteriore soffocamento della città, per la salvaguardia dei valori culturali della campagna, per la pubblica ricreazione e quindi per la stessa salute pubblica: Roma è ancora ricca (ancora è l’avverbio su cui si regge la provvisoria topografia dell’Italia) di comprensori verdi che penetrano nelle maglie del costruito (campagne di Veio, Appia Antica, Litorale eccetera). Se venisse attuata la legge 431 del 1985, detta legge Galasso (unica legge di pianificazione in quarant’anni di Repubblica), potrebbe essere salvaguardata l’integrità fisica e l’identità culturale del nostro territorio.

Se questi sono, in breve, i criteri che dovrebbero ispirare nell’ultimo decennio del secolo la rinnovata urbanistica italiana, di tutt’altro genere è la strada su cui il nostro governo intende marciare: in direzione, ora e sempre, dell'ulteriore cementificazione delle città, dell’ulteriore violazione dei vincoli di piano regolatore, paesístici e culturali, della crescita insensata, della deroga da ogni principio ragionevole che assicuri un minimo di qualità abitativa. Il ministro dei Lavori pubblici Prandini ha presentato un disegno di legge che stanzia 8 mila miliardi per la costruzione di 53 mila alloggi nelle aree “ad alta tensione abítativa”: case nuove, dunque, e niente recupero né risanamento del patrimonio esistente degradato e sottoutilizzato, e niente riqualificazione, ma case nuove da immettere sul mercato in massima parte in vendita, quando l’Italia ha già la più alta percentuale di case in proprietà (oltre il 70 per cento rispetto alla media europea del 50 per cento).

Non pago di questo, il ministro ha presentato un altro provvedimento, uno schema dì disegno di legge, un “pacchetto” per 1’edilizia residenzìale ancora peggiore. Riduce gli spazi pubblici previsti dai piani regolatori, aumenta le cubature, “liberalizza” le destinazioni d’uso per cui ad esempio, senza bisogno di autorizzazioni o concessione, un convento può essere trasformato in albergo, un quartiere residenziale in un quartiere di uffici eccetera. Nelle zone vincolate, se le soprintendenze non si pronunciano entro quaranta giorni, il progetto è approvato (si sancisce così il deleterio principio del silenzio-assenso), e comunque ogni decisione finale è demandata al presidente della giunta regionale e al ministro dei Lavori pubblici. Si opera così (osserva Edoardo Salzano, presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica) il definitivo scardinamento della pianificazione: il potere passa dal pubblico al privato e si riporta in onore l’urbanistica “contrattata”.

Altro siluro contro le città italiane è il disegno di legge n. 1897 del governo che prevede l’alienazione, ossia la svendita al miglior offerente, delle proprietà demaniali dello Stato. Può anche darsi che, quando questo articolo sarà pubblicato, questo insano provvedimento, collegato alla legge finanziaria, sia stato accantonato, viste le proteste che ha suscitato. Ma, in fatto di provvedimenti che riguardano il territorio, quel che conta sono le intenzioni, e ad esse va fatto il processo: perché sono l’espressione di propensioni viziose ben radicate, pronte a rifarsi vive alla prossima occasione.

Questo disegno di legge dice che tutto il demanio e il patrimonio pubblico può essere alienato, ad eccezione (meno male) del demanio idrico (lido e spiaggia, rade e porti, laghi, fiumi e torrenti): per il resto, lo Stato è autorizzato a dìsfarsì di terreni e immobili, foreste demaniali, miniere e cave, beni del demanio militare, immobili destinati a pubblico servizio, e persino (poiché non è detto niente in contrario) dei beni culturali: se non del Colosseo o della Torre di Pisa, certo di ampie porzioni di musei e collezioni archeologiche, come da anni vanno proponendo le teste fine che giudicano esorbitante il patrimonio storico-artistico che la storia ha avuto il torto di lasciarci in eredità.

Una commissione istituita dal governo Craxi nel 1984 ha perfino calcolato quanto renderebbe allo Stato la svendita di quelli che con allegra metafora vengono chiamati “i gioielli di famiglia”. Comprendendo tutto, beni di Stato, comuni e regioni, l’introito sarebbe di 600 mila-2 milioni di miliardi, coi quali ridurre il debito pubblico. La mala intenzione è ricorrente: nel 1972 un altro governo Andreotti (ministro del Tesoro era Malagodi) propose di mettere all’asta 351 immobili del demanio militare, e poi sono seguite altre proposte di legge, anch’esse felicemente naufragate. Oggi il governo ci riprova, sempre in vista dell’ulteriore cementificazione e soffocamento delle città.

I primi ad essere sacrificati alla speculazione sarebbero gli immobili militari (circa 4 mila ettari), caserme, vecchi aeroporti, batterie, forti, magazzini, depositi, poligoni di tiro, terreni eccetera: immobili che spesso (come i forti e le batterie costiere) sorgono in zone di grande valore paesistico, oppure, come le caserme, sono situati nei centri urbani, il tutto finora scampato alla distruzione-ricostruzione speculativa proprio in virtù della loro appartenenza al demanio. Ebbene, sono proprio questi immobili che, quando vengono dismessi, non devono essere alienati, ma ceduti ai poteri locali per essere destinati a usi di esclusivo interesse pubblico.

Un’analoga destinazione va riservata agli impianti industriali che vengono abbandonati, che vanno strappati ai privati che vorrebbero trarne il massimo profitto utilizzandoli per destinazioni lucrose: si tratta di milioni e milioni di metri quadrati (3 milioni a Genova, 3,3 a Torino, 700 mila a La Spezia, 4 milioni a Milano, pari a 170 piazze del Duomo). Le nostre città congestionate hanno un disperato bisogno di spazi pubblici, quindi gli impianti militari e industriali devono essere trasformati in centri sociali e culturali, piazze, attrezzature, servizi collettivi, giardini, scuole, musei e via dicendo, e così gli spazi ancora esistenti. Perché la difesa dei vuoti, delle pause urbane, l’utilizzazione nell’interesse generale di quanto non serve più agli scopi per cui fu costruito dev’essere l’impegno di fondo di una pianificazione urbanistica che renda meno invivibili le nostre città.

Perché l’urbanistica possa essere rifondata nell’interesse generale, una cosa soprattutto è necessaria: che finalmente sia varata la legge sul regime dei suoli e degli immobili di cui l’Italia, unico paese in Europa, è ancora vergognosamente priva; la legge che consenta ai comuni di espropriare, senza svenarsi, terreni e immobili per fini di pubblica utilità. Ne siamo ancora privi per l'opposizione delle forze politiche reazionarie, per un esasperato culto della proprietà privata di cui si è fatta interprete anche la Corte costituzionale, che ha così contribuito in modo decisivo all'affondamento della pianificazione. “Un giorno maledirete la Corte costituzionale”, esclamò una volta (sarebbe bene sapere quando e dove) Francesco Saverio Nitti.

Delle sue numerose, micidiali sentenze ricordiamo la n. 55 del 1968, che ha definito illegittimi i vincoli espropriativi a tempo indeterminato(facendo quindi un passo indietro rispetto alla legge urbanistica fascista del 1942), e ha sostenuto che il diritto di edificare è “connaturale”, ovvero insito, inerente, connaturato col diritto di proprietà (come se la terra, fu osservato, producesse “naturalmente” cemento armato, oltre a ortaggi e piante); la sentenza n. 5 del 1980, che negava che la legge Bucalossi del 1977 avesse separato (com’era giusto) il diritto di proprietà dal diritto di edificare, e considerava illegittimo il criterio dell’esproprio che quella legge aveva basato sul prezzo agricolo aumentato di determinati coefficienti; la sentenza n. 223 del 1983, la quale annullava un’altra legge varata nel frattempo dal parlamento, che dava ai proprietari espropriati un acconto da assoggettare in seguito a conguaglio. Il risultato è che oggi tutti i vincoli espropriativi di destinazione pubblica sono decaduti, e le aree destinate a esproprio dai piani regolatori sono relegate in una specie di limbo, da considerarsi prive di qualunque destinazione urbanistica. Di qui la completa paralisi dei comuni e un inestricabile contenzioso che si risolve di regola a vantaggio dei privati. Va ricordato il caso di Modena, che aveva pagato un esproprio 90 milioni e, dopo anni di contenzioso, ha dovuto liquidare, per scandalosa sentenza della Cassazione, un prezzo quattordici volte superiore a quello richiesto dall’espropriato.

Il nostro paese non è dunque in grado di praticare la via maestra dell'urbanistica moderna, quella politica fondiaria che consiste nell’acquisizione pubblica preventiva dei terreni da destinare sia ai nuovi insediamenti sia alla realizzazione di parchi, e degli immobili da destinare ad attrezzature e usi pubblici: ponendosi così fuori del consorzio civile. La politica fondiaria è infatti pratica costante di ogni altra nazione avanzata. La Gran Bretagna nel ‘46, subito all’indomani della guerra, demanializzò oltre centomila ettari per la costruzione di una trentina di new towns, e quella che allora venne giudicata una socialist madnessè oggi una splendida realtà (due milioni di abitanti insediati, 400 mila alloggi costruiti, 3.500 industrie, 700 scuole). Il costo dei terreni (un sesto dell'investimento pubblico globale), nonostante inflazione eccetera, è stato mediamente di 2-300 lire al metro quadrato. I fondi prestati dallo Stato sono stati tutti rimborsati, le nuove città si sono autofinanziate, il loro bilancio è in pareggio.

In Olanda, Rotterdam rinasce dalle ceneri della guerra grazie agli espropri decisi dai suoi amministratori riuniti nelle cantine mentre cadono le bombe tedesche. Sono demaniali le terre prosciugate dell’ex Zuidersee, ad Amsterdam l’ottanta per cento del territorio comunale è demanio pubblico, in parte concesso in diritto di superficie ai costruttori, in parte trasformato in parco. L’esproprio avviene a valore di mercato, ma agricolo.

Stupefacente il caso della Svezia: a Stoccolma (che è grande come Milano, 18.000 ettari) oltre diecimila ettari sono di proprietà comunale. La lungimiranza è stata tale che si è man mano provveduto all’acquisizione di estensioni di terreno nei comuni vicini, così che oggi Stoccolma possiede un demanio di 55 mila ettari: il prezzo di acquisizione è stato mediamente di poche centinaia di lire al metro quadrato. E la politica fondiaria cominciò nel 1904 quando la maggioranza al comune era dei conservatori (!).

L’esempio più recente è la Francia dove, nel quarto di secolo tra de Gaulle e Mitterrand, sono stati espropriati o acquisiti 30 mila ettari, di cui 20 mila nella regione di Parigi (a un costo medio di cinque-dieci franchi il metro quadrato), dove sono state costruite cinque villes nouvelles, grazie a un ammirevole meccanismo amministrativo. Protagonisti gli Etablissements publiques d’aménagement (Epa), composti pariteticamente di rappresentanti dello Stato e dei comuni, che hanno provveduto all’urbanizzazione dei terreni e alla dotazione dei servizi essenziali: e hanno poi riceduto i terreni così urbanizzati agli operatori a prezzi maggiorati delle spese sostenute, e differenziati a seconda delle destinazioni urbanistiche. Così, il plusvalore creato dagli investimenti pubblici torna alle casse pubbliche anziché, come da noi, finire nelle tasche dei privati. E sono città completamente funzionanti (già costruiti 200 mila alloggi, aree industriali per 1.800 ettari, 170 mila i posti di lavoro): superfluo, qui, come negli esempi inglesi, olandesi, scandinavi, dilungarsi sull’eccelsa qualità urbanistica e ambientale (aree pedonali, dotazione di centri culturali, biblioteche, teatri all’aperto, impianti sportivi, parchi e verde in generale eccetera). La proprietà pubblica del suolo ha consentito una pianificazione ispirata finalmente ed esclusivamente alla cultura urbanistica e quindi all'interesse pubblico. E se errori sono stati fatti saranno quelli inseparabili dall’agire umano, non certo quelli imposti dalla taglia della rendita fondiaria. Qualcosa va pur detto, anche sommariamente, sull’aspetto che più colpisce chi visita queste realizzazioni straniere, la dotazione, la qualità, la distribuzione del verde pubblico e poi fa un confronto con i quartieri costruiti nelle nostre città, che sono, come è noto, le più povere di verde pubblico d’Europa. Nonostante i servizi giardini calcolino anche le aiole spartitraffico, Roma e Milano non superano, ad essere generosi, i 5-6 metri quadrati per abitante, con Palermo e Napoli si precipita a 1-2: mentre, ad esempio, Monaco di Baviera supera i 40, Amsterdam i 50, Stoccolma i 100. Ma quel che più conta è che il verde a Roma, essendo composto in buona parte da ville storiche, decresce man mano che si procede verso la periferia, costruita negli ultimi decenni con particolare sadismo urbanistico, dove il verde pubblico pro capiteassume spesso le dimensioni di una foglia d’insalata o di prezzemolo: al contrario di quanto succede ad Amsterdam o a Stoccolma o dovunque gli sviluppi urbani sono stati preceduti dall’acquisizione pubblica del suolo.

A Roma, non un solo metro quadrato di campagna dell’Appia Antica è stato ancora espropriato, nonostante che per 2.500 ettari sia vincolato da un quarto di secolo a verde pubblico (quanto alle aree archeologiche del resto d'Italia, solo un terzo dell’antica Paestum è demaniale, mentre l’abusivismo invade la Valle dei Templi di Agrigento). E nei quartieri romani di edilizia popolare, pur costruiti su terreno pubblico, gli spazi destinati a verde superano gli 800 ettari, ma solo un decimo è sistemato dal comune, il resto è sterpaglia abbandonata: a dimostrazione dell’inettitudine, dell’incapacità, da noi, anche semplicemente di gestire l’ordinario.

Ma a Roma capita anche dell’altro, che cioè un privato si comperi pezzi di parco pubblico. È successo con Villa Ada ex Savoia, lo splendido parco di 150 ettari di cui solo una parte (64 ettari) sono passati allo Stato e quindi al comune: il resto è andato agli eredi di Vittorio Emanuele III, che due anni fa l'hanno venduto a un intraprendente imprenditore, per quanto Villa Ada sia vincolata a parco fin dal piano regolatore del 1962. Chi si compra per svariati miliardi un pezzo di parco pubblico, non lo fa certo per destinarlo alla ricreazione all'aria aperta di bambini, ragazzi e anziani: lo fa sperando in qualche variante di piano a proprio favore o per ottenere dal comune lucrose contropartite, sempre in danno dell’interesse generale. E per quel che riguarda i beni culturali è pure capitato che un privato, Alessandro Torlonia, abbia trasformato in novantatre miniappartamenti le settantasette sale del museo che i suoi avi avevano costruito un secolo fa, accatastando 600 sculture greche e romane, ossia la più importante collezione privata d'arte antica del mondo, negli scantinati, come rifiuti di magazzino (e amnistia e prescrizione lo hanno benignamente mandato assolto).

Questi i misteri, gli scandali di Roma. Eppure, un apporto decisivo alla sua riqualificazione può venire proprio dalla valorizzazione del suo più illustre patrimonio storico e paesistico. Una proposta di legge (n. 3858) della Sinistra indipendente prevede la realizzazione del parco storico-archeologico dei Fori Imperiali e dell’Appia Antica: smantellamento graduale dell’ex via dell'Impero per riportare integralmente in luce le antiche piazze di Cesare, Traiano, Augusto, Nerva (ricavando così il maggior vantaggio possibile dagli sciagurati sventramenti degli anni Trenta) e quindi creazione di un parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano; riassetto ambientale e pedonalizzazione di gran parte della zona prestigiosa tra il Colosseo e le Mura (Celio, Circo Massimo, Terme di Caracalla eccetera, zona salvata con l’esproprio di una quarantina di ettari dall'Italia giolittiana); fino alla realizzazione extra moenia del gran parco della campagna romana lungo la via Appia Antica. Questa la grande prospettiva urbanistica per il Duemila: il patrimonio storico, culturale, paesistico, che diventa la struttura portante (complementare allo Sdo) della nuova Roma, da piazza Venezia ai piedi dei Castelli. Il progetto è stato commissionato a un’équipe di esperti coordinata da Leonardo Benevolo dalla Soprintendenza archeologica di Roma, ed è stato pubblicato (cfr. L. Benevolo e F. Scoppola, a cura di, 1988).

Sia per le aree del Sistema direzionale orientale che per una buona parte del parco dell’Appia Antica si impone ovviamente l’esproprio (e testi di legge sul regime dei suoli e l’indennità di espropriazione sono stati predisposti dal governo e dal Senato), cioè quella politica fondiaria che è stata finora ignorata. Ignorata a tal punto che solo ora, grazie a un’accurata indagine di tre giovani architetti, conosciamo chi sono i proprietari del più grande comune d'Italia (R. Persieri, G. De Vito, G. L. Goletta, 1989). Due o tre cifre sono sufficienti: dei 120 mila ettari esaminati, circa 93 mila sono di proprietà privata, persone fisiche e giuridiche, e di questi 63 mila sono in mano al 2,9 per cento dei proprietari; mentre il comune possiede solo 4 mila ettari. Un abisso dunque ci separa dai paesi stranieri che abbiamo citato. E quel che è peggio, da qualche anno i terreni e gli immobili di Roma sono oggetto di uno spietato accaparramento da parte dei più noti speculatori d’Italia e dei più grossi gruppi finanziari pubblici e privati, coi prezzi che vanno alle stelle (l’Italstat si è comprata terreni della periferia sud-orientale a circa 200 mila lire il metro quadrato!). Se le cose non cambiano radicalmente, e tutto sta a dimostrare che non cambieranno, un nuovo Sacco è in vista, e sulla Roma del Duemila cala la tela.

OPERE CITATE:

L. Benevolo e F. Scoppola (a cura di), (1988), Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, Roma: De Luca.

V. De Lucia, (1989), Se questa è una città, Roma, Editori Riuniti.

R. Persieri, G. De Vito, G. L. Coletta, (1989), La proprietaria fondiaria a Roma, “Urbanistica informazioni”, n. 106.

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