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Simonetta Fiori
1945, La notte italiana
30 Agosto 2007
Recensioni e segnalazioni
Un libro di Guido Crainz analizza con rigore una fase cruciale e drammatica della nostra storia. Da la Repubblica, 30 agosto 2007

Una biografia della nazione, la definisce l’autore. Il ritratto d’un paese "inselvato", feroce e arcaico, reso "antropologicamente" irriconoscibile prima dal fascismo, poi da una guerra "inespiabile". Il racconto che Guido Crainz ci consegna del 1945 italiano è destinato a rompere consolidati stereotipi su quella stagione ormai trionfanti nei media e in alcuni bestseller, ossia la nuova vulgata che tende a caricaturizzare un dopoguerra italiano lordo di sangue ad opera d’un partigianato asservito al Pci e a Mosca. Assai più drammaticamente polifonica appare la realtà tratteggiata in questo nuovo saggio, L’ombra della guerra, che evoca un’Italia imbarbarita finora rimossa o rimasta sullo sfondo: si tratta della ricostruzione a tratti inconsueta - fondata su documenti d’archivio, ma anche sulle testimonianze di scrittori, giornalisti e poeti - di un paese diseducato da vent’anni di dittatura e insanguinato da una guerra totale, un paese spaesato, ancora più fiaccato nelle sue tradizionali aree di povertà, travolto nei suoi orizzonti ideali e morali più di quanto siamo abituati a immaginarcelo (Donzelli, pagg. 158, euro 14). Una nazione incapace di fare i conti con la catastrofe e con se stessa. Ed è in questo contesto - efficacemente sintetizzato da un’immagine di Guido De Ruggiero: «Una dittatura in sfacelo, piuttosto che una democrazia in divenire» - che le violenze partigiane del dopoguerra trovano una più corretta collocazione, assai distante dall’enfasi caricaturale della nuova vulgata e sul versante opposto da tentazioni giustificazioniste.

Con lo stile sperimentato in precedenti lavori - Storia del miracolo italiano, Il paese mancato, Il dolore e l’esilio - Crainz attinge al prezioso serbatoio della letteratura e del giornalismo, fonti capaci di evocare con maggiore intensità la geografia mentale diffusa in quei mesi. Tra i versi dolenti di Quasimodo e Ungaretti, compare anche un giovanissimo Andrea Camilleri esordiente sulle pagine di Mercurio ("Un giorno si alzeranno/ neri morti/ dalle case bruciate che il vento/ ancora sgretola/ e avranno occhi per noi…"). Pagine che disegnano un paese smarrito nella sua identità, in preda a pulsioni primitive e crudeli, sostanzialmente diviso in due Italie estranee l’una all’altra: l’Italia liberata prima della Liberazione - Roma e il Mezzogiorno - e l’Italia del Nord ancora violentata dalle stragi naziste.

È l’Italia già liberata a sperimentare per prima le disillusioni del dopoguerra, con lo sfilacciamento dell’unità antifascista, il fallimento dell’epurazione, la riorganizzazione delle forze filofasciste. L’acuminata penna di Enzo Forcella tratteggia gli effetti devastanti della guerra nel Mezzogiorno, la patologia dei comportamenti sociali e morali nelle concentrazioni urbane ma anche nelle campagne colpite nella loro fragile economia. Fame, macerie, stracci, una nuova vita: è la sintesi narrativamente espressiva di Alberto Moravia ne La Ciociara. Reportages di miseria e violenza escono su Risorgimento Liberale con la firma di Arrigo Benedetti. L’ombra della guerra, commenta Crainz, sembra incrementare e quasi legittimare ovunque illegalità diffuse. Un "quotidiano eccezionale" ridisegna l’antropologia della violenza. Aggressioni, furti, rapine a mano armata: i rapporti dei carabinieri restituiscono un paese divorato dalla criminalità. L’"inselvamento" dell’uomo dopo cinque anni di guerra guerreggiata - così il quotidiano degli Alleati - affiora anche dalle cronache romane, con i tribunali in tumulto e i macabri rituali intorno all’omicidio Carretta, il direttore di Regina Coeli appeso cadavere all’inferriata del carcere. Ferocia allo stato puro, mentre l’Italia del Nord conosce la tragedia della guerra "inespiabile".

Nel segno della vendetta e dell’annientamento procede l’occupazione nazista nel resto del paese, con il ripristino di rituali arcaici e sanguinari, quella barbarie sapientemente descritta dai libri di Zanzotto e Fenoglio. Si radicano odi, paure, disperazioni, speranze, ma anche prese di distanze dai conflitti che portano il disastro. È il tempo delle scelte, ma anche della "non scelta", della chiusura negli ambiti famigliari.

Il libro di Crainz allunga la lente d’ingrandimento su quel che accade oltre il confine orientale - con le espulsioni selvagge dei tedeschi dalla Cecoslovacchia, dalla Ungheria, dalla Jugoslavia, dalla Romania - e oltre quello occidentale, con la Francia già liberata, teatro di violenza verso chi è accusato di collusione con il nazismo. Colpiscono i versi di Eluard, poeta-simbolo della Resistenza francese, che piange per le sofferenze di una collaborazionista (Lo capisca chi può/ Io il mio rimorso fu/ l’infelice che restò sul lastrico/ lo sguardo di creatura finita). Ma in Francia - annota lo storico - le esplosioni di giustizia sommaria trovarono un argine nella giustizia istituzionale, rapida ed efficace. Non così in Italia, intorpidita dalla "morfina di una troppo cavillosa e formale legalità" (parole di Eugenio Montale).

Si apre qui l’ampia nebulosa delle vendette successive al 25 aprile, tragica rivelazione dei dolori della guerra e dell’occupazione nazista. Fondandosi sulle carte dell’Archivio Centrale dello Stato, sui rapporti di carabinieri e prefetti, ossia sulle fonti dello Stato italiano, Crainz ripristina alcune verità su quelle uccisioni, molte delle quali rinviano a stragi e rappresaglie nazifasciste, o comunque a gravi ferite lasciate dalla guerra, e solo una parte è riconducibile al riaccendersi di conflitti sociali e all’esplodere di antichi rancori. In alcune aree emiliane e romagnole i drammi del 1943-1945 si sovrappongono a una storia più lunga, che ha inizio con lo squadrismo fascista e talvolta affonda le radici in una stagione ancora precedente. I rapporti prefettizi descrivono aspre lotte mezzadrili che rimandano allo stretto rapporto intrecciatosi tra agrari e fascismo. In molti casi, l’attribuzione delle violenze appare incerta, frutto di disperazioni antiche che è difficile racchiudere sotto categorie certe. E se nel Reggiano - scrive Crainz - è chiamata direttamente in causa la responsabilità dei dirigenti provinciali del Partito Comunista Italiano, altrove le colpe si definiscono con maggiore difficoltà. Allora - sollecita lo storico - è il caso di interrogarsi sul ruolo del Pci nella società emiliana dell’epoca, nei suoi tratti contraddittori e ambigui, ma anche nella sua capacità di costruire democrazia in una regione attraversata da tensioni sociali acutissime. Una ricostruzione tra luci ed ombre, in sostanza, che si sottrae a sterili demonizzazioni.

Anche sulle cifre intorno al "sangue dei vinti", Crainz introduce una significativa correzione rispetto ai numeri elevati proposti da sempre dalla pubblicistica neofascista e più recentemente dai libri di Giampaolo Pansa. Alle fonti della Rsi - che accreditano intorno a ventimila le vittime - egli contrappone i documenti dello Stato italiano, un’indagine della Direzione generale di Pubblica sicurezza, svolta alla fine del 1946, che fissa a meno di diecimila le persone colpite "perché politicamente compromesse". Senza naturalmente stemperare la tragica rilevanza di quel fenomeno, lo studioso sembra animato dalla necessità di sottrarlo a una sorta di mitologia postuma per ricondurlo alle sue coordinate reali.

È un’Italia arcaica e barbara quella che sfila in queste pagine, con intere comunità per anni silenti e complici di carneficine (il delitto in casa dei conti Manzoni), un paese ancorato a rituali d’un passato remoto, a contrappassi feroci, al suono delle campane, all’accanimento sul corpo del nemico ucciso. Uno squarcio drammatico, non l’intera fotografia dell’Italia, attraversata nel dopoguerra anche da forti speranze, assai presto deluse. Ma questo tragico nodo - sembra dirci il volume di Crainz - non può essere più rimosso, se non a costo di semplificazioni di comodo.

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