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15 ottobre a Roma. L’anomalia italiana
16 Ottobre 2011
Articoli del 2011
Punti di vista diversi sul 15 ottobre romano: Scalfari, Piccolo, Monti, Parlato. Ma forse nel loro insieme chiariscono il (non)senso e le cause dell’anomalia italiana: del perché da noi, a differenza del resto del mondo, all’indignazione si sono accompagnate rabbia e insensata violenza. Dai giornali, 16 ottobre 2011

Eugenio Scalfari, la Repubblica

Francesco Piccolo, l’Unità

Mario Monti, Corriere della Sera

Valentino Parlato, il manifesto

la Repubblica

Lo Stato sconfitto da un pugno di teppisti

di Eugenio Scalfari

La notizia principale di oggi è la mobilitazione degli "indignati" in tutte le piazze dell´Occidente, da Manhattan a Londra a Bruxelles, a Berlino, a Parigi, a Madrid. Ma a noi preoccupa soprattutto ciò che è avvenuto a Roma. Mentre centinaia di migliaia di giovani tentavano di sfilare pacificamente nelle via della capitale poche centinaia di "black bloc" in tenuta da guerriglia hanno compiuto violenze e provocato la polizia tentando di forzarne i cordoni. Gli scontri hanno coinvolto la massa dei pacifici dimostranti, come è avvenuto in molte altre occasioni. Mentre scriviamo gli incidenti sono ancora in corso, molti manifestanti hanno tentato di isolare i facinorosi che hanno reagito picchiandoli a colpi di spranghe. È deplorevole che ancora una volta la polizia e i servizi di sicurezza non siano stati in grado di neutralizzare preventivamente i teppisti e i provocatori che dovrebbero esser noti e rintracciabili. Speriamo che le violenze non continuino in serata. Le nostre cronache ne daranno ampia informazione.

Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l´esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la "primavera araba" come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle "banlieue" parigine.

Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l´esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la "primavera araba" come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle "banlieue" parigine.ùLa vigilia è avvenuta alcuni mesi fa a Madrid, poi la fiaccola è sbarcata a New York al grido di "Occupy Wall Street". Adesso le dimensioni del movimento sono globali. D´altronde, è contro i danni provocati dalla globalizzazione che il movimento è nato, si è diffuso e si rafforza col passare del tempo.

Effimero? Non credo. Esprime la rabbia d´una generazione senza futuro e senza più fiducia nelle istituzioni tradizionali, quelle politiche ma soprattutto quelle finanziarie, ritenute responsabili della crisi e anche profittatrici dei danni arrecati al bene comune.

Gli "indignati" non sono né di sinistra né di destra, almeno nel significato tradizionale di queste parole. Ma certo non sono conservatori. Hanno obiettivi concreti anche se talmente generali da diventare generici: vogliono che i beni comuni siano di tutti; non dei privati, ma neppure dello Stato o di altre pubbliche autorità poiché non hanno alcuna fiducia nella proprietà privata e neppure in quella pubblica amministrata da caste politiche e burocratiche.

I beni pubblici debbono esser messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono e abitano in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d´uso nelle "agorà", nelle piazze di quel luogo. L´acqua è un bene d´uso comune, l´aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. Le banche? Non servono le banche, tutt´al più servono a render facili i pagamenti che avvengono sulla base del valore d´uso e non del valore di scambio.

C´è una dose massiccia di utopia in questo modo di pensare; c´è un´evidente reminiscenza di comunismo utopico; c´è anche una tonalità "francescana". E c´è - l´ho già scritto domenica scorsa e qui lo ripeto - un rischio estremamente grave: un contagio di populismo.

Esiste storicamente il populismo dei demagoghi, costruito per accalappiare i gonzi, e il populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole. Ma non esistono Città del Sole, almeno in questa terra. Chi crede che ce ne sia una ultraterrena fa bene a vagheggiarla ma qui, tra questi solchi, neppure il Redentore la portò perché - fu lui il primo a dirlo - il suo regno non era di questo mondo.

Certo le foreste non vanno abbattute. Certo l´aria non va inquinata. Certo le banche non debbono truffare i clienti e ingrassare sulla truffa. Certo i cittadini debbono partecipare alla gestione della cosa pubblica e non limitarsi a votare con pessime leggi elettorali una volta ogni cinque anni. E così via. Bisogna dunque fare buone leggi e farle amministrare da buona e brava gente e bisogna infine che vi siano efficaci e imparziali controlli su quelle gestioni.

Gli "indignati" sono indignati perché tutto ciò manca e il futuro gli è stato rubato. Sono d´accordo con loro anche perché a me e a quelli della mia generazione è stato rubato il presente e la memoria del passato e vi assicuro che non si tratta d´un furto da poco. Ma so che non è con l´utopia che si risolve il problema.

L´utopia è una fuga in avanti alla quale subentra ben presto l´indifferenza.

Il vostro entusiasmo è sacrosanto come la vostra pacifica ribellione, ma dovete utilizzarlo per la progettazione concreta del futuro, altrimenti da indignati finirete in rottamatori e quando tutto sarà stato rottamato - il malfatto insieme al benfatto - sarete diventati "vecchi e tardi" come i compagni di Ulisse quando varcarono le Colonne d´Ercole e subito dopo naufragarono.

* * *

Domani comincia a Todi un incontro promosso da una serie numerosa di associazioni, comunità, sindacati, di ispirazione cattolica sulla scia dell´allocuzione pronunciata un paio di settimane fa dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. L´allocuzione era quella che propugnava un rilancio dell´etica pubblica capace di rinnovare "l´aria putrida" che aveva devastato le istituzioni e esortava i cattolici all´impegno civile e politico.

A Todi, secondo gli intendimenti dei promotori, dovrebbe prender vita un "soggetto pre-politico" che interloquisca con la politica, sia punto di riferimento dei cattolici impegnati ed anche centro di preparazione civile e sociale di una nuova classe dirigente d´ispirazione cristiana.

«Non è un partito» hanno ripetuto all´unisono i promotori dell´iniziativa «perché non è compito della Chiesa fondare e dirigere partiti».

I laici non cattolici (tra i quali mi ascrivo) prendono nota con interesse di questa iniziativa anche se alcune domande sorgono spontanee.

Prima domanda: la Chiesa non ha mai fondato un partito. Il partito è, per definizione, una parte e non un tutto, mentre la Chiesa cattolica è ecumenica per definizione. Quindi l´affermazione che non fonderà nessun partito è talmente ovvia da apparire alquanto sospetta. Del resto, un sacerdote con tanto di veste talare un partito lo fondò. Era il 1919, il partito si chiamò "Popolare", in Italia ha cessato di esistere una decina d´anni fa, nel Parlamento europeo esiste ancora, il fondatore si chiamava don Luigi Sturzo.

Seconda domanda: la Chiesa dispone dello spazio pubblico come ogni altra associazione, religiosa o no, sulla base della nostra Costituzione. Nessuno si è mai opposto all´uso di quello spazio del quale infatti la Chiesa, il Vaticano, le comunità cattoliche, i sacerdoti d´ogni genere e grado, si sono largamente serviti. Se il "soggetto" immaginato a Todi nascesse per usare lo spazio pubblico, sarà un´ennesima voce cattolica a farsi sentire e ben venga. Il rischio semmai è che sia un doppione della Cei. Niente di male, ma inutile. Oppure non sarà un doppione? Dirà cose diverse dalla Cei, dal Vaticano, dalla Gerarchia? Sarebbe molto interessante, potrebbe essere una forza di rinnovamento. In senso modernista oppure un richiamo all´ordine e alla tradizione? Comunque, in ciascuna di queste ipotesi, sarebbe rivolta alla comunità dei fedeli e non certo ai laici.

Terza domanda: se vuole essere invece un centro di preparazione della nuova classe dirigente cattolica, questa sì sarebbe un´ottima cosa. I cattolici impegnati in politica finora, salvo rare e importanti eccezioni, hanno avuto Cristo sulle labbra e Mammona nel cuore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è questo l´obiettivo di Todi, sarà benvenuto.

Quarta ed ultima domanda: oppure il nuovo soggetto sarà il Quartier generale di tutte le forze cattoliche variamente impegnate nei partiti, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, nelle istituzioni? Questo sarebbe alquanto preoccupante. In realtà questo Quartier generale c´è già ed è la Segreteria di Stato vaticana. Questo sarebbe un Quartier generale in sembianze laiche. Non mi sembra una grande idea e non credo che i veri cattolici socialmente impegnati la gradiranno. Per quanto so, la regola è questa: la Chiesa diffonde la sua etica, le sue richieste, i suoi valori; i cattolici politicamente impegnati cercano di sostenere quella dottrina tenendo tuttavia presente che le leggi riguardano tutti, cattolici e non cattolici, e che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge in uno Stato laico e non teocratico.

Non c´è bisogno di molti Quartier generali dunque, uno basta e avanza.

* * *

Concludo queste mie note con quanto è accaduto durante e dopo le votazioni di venerdì scorso alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo. Le cronache ne hanno parlato diffusamente sicché mi soffermerò soltanto su alcune questioni non risolte.

1. Dopo la bocciatura di martedì scorso del Rendiconto generale dello Stato, tre questioni dovevano aver soluzione. Una era quella di risolvere quel problema estremamente complesso. Un´altra era verificare che il governo godesse ancora della fiducia del Parlamento. Un´altra ancora di constatare se la maggioranza avesse la credibilità e la compattezza necessaria ad affrontare i prossimi difficili appuntamenti politici ed economici. Tutti e tre questi obiettivi furono esplicitamente indicati dal capo dello Stato con pubbliche e chiarissime esternazioni.

2. La fiducia alla Camera è stata ottenuta e questa questione è quindi risolta.

3. La credibilità e la compattezza della maggioranza restano aperte e se ne avranno prove nei prossimi giorni e settimane soprattutto (ma non soltanto) su questioni economiche. Se i risultati richiesti dal Quirinale ci saranno il governo potrà andare avanti fino alla scadenza naturale della legislatura. Se non ci saranno il governo resterà egualmente in carica perché il Quirinale non ha gli strumenti necessari per farlo sloggiare senza un esplicito voto di sfiducia che finora non c´è stato anche a causa della compravendita di deputati e senatori che è avvenuta ed avviene sotto gli occhi schifati di tutto il Paese.

4. L´incidente (che non è affatto un incidente ma una questione di prima grandezza) del voto contrario dato dalla Camera sul Rendiconto generale non è stato ancora risolto. Il presidente della Repubblica, rispondendo l´altro ieri ad una lettera dei capigruppo di maggioranza, ha suggerito di ripresentare il Rendiconto al Senato dopo un ulteriore controllo della corte dei Conti. Così probabilmente avverrà sebbene esista una prassi secondo la quale quando una legge viene bocciata da una delle Assemblee, non viene ripresentata all´altra. Ma la prassi - quando è necessario - si può superare se non è esplicitamente vietata e questa non lo è.

5. Il Senato approverà certamente il Rendiconto e poi lo trasmetterà alla Camera affinché faccia altrettanto ma qui sorgerà un problema. Il regolamento della Camera prevede che una legge bocciata non possa essere ripresentata se non dopo sei mesi. Quindi, a rigor di logica, la Camera non dovrebbe mettere all´ordine del giorno il Rendiconto se non nel prossimo aprile con la conseguenza che il ministro del Tesoro sarebbe fino ad aprile sfiduciato su come ha gestito la pubblica finanza nell´esercizio 2010 e con lui l´intero governo di cui fa parte.

Debbo immaginare che gli uffici competenti del Quirinale conoscano questo problema e penso quindi di essere io in errore. Me lo auguro e mi farebbe piacere saperlo. Secondo me il solo modo per risolvere il problema erano le dimissioni del governo come insegnano i precedenti, anche perché la bocciatura del Rendiconto, cioè del consuntivo nell´esercizio 2010, è un voto estremamente politico. Significa che la Camera disapprova il modo con cui è stata amministrata l´economia in quell´esercizio. Più politico di così non ce n´è un altro.

Si obietterà che si tratta di questione procedurale. Obietto a mia volta che la procedura non è una formalità ma è la sostanza della politica, contiene le regole alle quali la politica deve conformarsi e affida alle autorità "terze" il compito di rispettarle e farle rispettare.

Vedremo come tutto questo finirà. Intanto abbiamo due viceministri e un sottosegretario in più ma non ho sentito che, a parte l´opposizione, questo vergognoso mercato sia stato censurato come si sarebbe meritato.

l’Unità

QUELLA VOGLIA DI FUTURO

di Francesco Piccolo

Uno dei compiti del giorno dopo, oltre alla cronaca dei fatti e della loro gravità, consiste nel continuare testardamente a tenere a fuoco tutti quei ragazzi che erano lì e che non c’entrano con gli scontri, che sono dovuti scappare e che hanno visto trasformare la loro giornata di rabbia composta, in uno sconforto. Quelli che non sono “gli altri”, ma la stragrande maggioranza, il cuore della manifestazione e la sua parte non soltanto sana, ma portatrice di idee. Quindi, bisogna tenerli a fuoco non solo per l’impegno nell’occuparsi dei problemi del mondo attraverso il loro disagio; ma soprattutto perché così spariscono - nella nebbia dei fatti orribili di ieri - i motivi della protesta, le idee, le proposte, gli slogan e i gesti simbolici. Sparisce non tanto il senso della protesta di ieri, ma sparisce addirittura il disagio concreto, e la reazione civile a questo disagio.

E invece quel senso non si può perdere. Sia perché i giovani italiani sono accomunati ad altri di tanti Paesi, sia perché le loro richieste specifiche alla politica di casa hanno una sensatezza impossibile da sottovalutare.

Fanno politica, coloro che si definiscono indignati? Certamente, ma soprattutto chiedono alla politica. Come accade sempre, in gruppi di persone che decidono in modo istintivo e netto di prendere posizione, di incontrarsi, di manifestare, stanno insieme la parte razionale e quella irrazionale. Né l’una né l’altra hanno come compito, come finalità, quello di fare politica attiva, ma di generare un allarme, un’attenzione viva che porti poi la politica a prendere provvedimenti. Nella sostanza, coloro che si definiscono indignati fanno delle richieste che, sfrondate degli estremismi e delle rigidità tipiche della protesta di piazza, sono le basi su cui si dovrebbe costruirsi un principio di governo di sinistra: cioè cambiare le priorità di politica economica che sta attuando l’Italia in questo momento, e l’Europa intera. La semplicità della proposta consiste nel fatto che non si chiede un’alternativa al capitalismo, ma un capitalismo alternativo. Non si chiede quello che spesso si chiede in piazza, e cioè un cambiamento di tutto, astratto e per questo facile da chiedere e difficile da ottenere. Ma ciò che questi giovani chiedono - o intendevano chiedere ieri, pacificamente - è una direzione politica concreta all’interno delle regole del mondo in cui siamo. Chiedono di scegliere quale tipo di sistema capitalistico si vuole vivere nella pratica quotidiana. Chiedono insomma che non si identifichi più - perché è un errore, è un falso - il capitalismo con le banche, i tassi, il sistema finanziario, le salite e le discese in Borsa.

L’altro aspetto molto interessante è che si tratta già di una protesta che riguarda la vita futura. Non solo dei giovani, e delle loro aspettative così ristrette - non solo cioè, di un futuro lontano; ma anche del futuro prossimo. Infatti, si ha la netta percezione di una richiesta di politica post-berlusconiana. Ci si immagina già un mondo senza di lui, che non viene considerato più di tanto. In qualche modo questi giovani che sono scesi in piazza in sincronia con quelli di altri Paesi, si pongono dei problemi di politica sociale che scavalcano ciò che sta occupando la scena in questo Paese da venti anni, che lo ha tenuto bloccato, e che ha avuto dei risultanti deludenti (non per gli antiberlusconiani, ma per i berlusconiani). Si pongono dei problemi che scavalcano le prime dieci pagine dei nostri quotidiani. Che non ritengono di dover nominare nemmeno uno dei politici che vediamo ogni sera in televisione.

Il lungo tramonto dell’era Berlusconi, sembra essere stato già digerito. Si guarda avanti. Si chiede una politica solidale attiva. La politica dovrebbe trasformare queste richieste in progetto. La sinistra ha il compito di farlo. Ma invece di ascoltarli per poi mettere in pratica, preferisce inseguirli, fino al piano dell’irrazionalità e dell’emotività. E invece la questione è più elementare: se i ragazzi sono in piazza, se sono arrabbiati o, come si autodefiniscono, indignati, è perché chi li dovrebbe rappresentare, chi li potrebbe rappresentare, non li rappresenta.

È il momento di farlo.

Corriere della sera

L’ITALIA, I MERCATI E L’EUROPA

False illusioni, sgradevoli realtà

di Mario Monti

Silvio Berlusconi ha spesso sostenuto che, grazie alla personale autorevolezza riconosciutagli dagli altri capi di governo, l’Italia ha acquisito un peso maggiore, a volte determinante, nelle decisioni europee e internazionali.

In questi giorni, ciò rischia di essere vero. Ma è una verità amara. Nelle riunioni dell’Unione europea e del G20 che cercano di arginare la crisi dell’eurozona e di invertire le aspettative, l’Italia avrà il ruolo cruciale. Cruciale come fonte di problemi, purtroppo; non certo come influenza sulle decisioni da prendere, tanto più che siamo già oggetto di «protettorato » (tedesco-francese e della Banca centrale europea).

È ormai convinzione comune — in Europa, in America e in Asia — che non sarà la Grecia a far saltare l’eurozona, con le possibili conseguenze: disintegrazione dell’Unione europea, crisi finanziaria globale, grave depressione, crisi sociale drammatica. Potrebbero esserlo, per la loro dimensione, la Spagna o a maggior ragione l’Italia. La Spagna è più avanti nel processo di ripartenza politica ed economica volto a padroneggiare la crisi. L’Italia è più indietro. Lo mostrano anche i tassi di interesse sul debito pubblico: più alti per l’Italia che per la Spagna. (E ora, più alti per l’Italia che per la Polonia, benché questa, non facendo ancora parte dell’euro, presenti un esplicito rischio di cambio).

L’Italia è più indietro perché non c’è stato neppure il minimo riconoscimento di responsabilità da parte del governo. In Spagna, invece, il governo ha addirittura lasciato il campo e indetto nuove elezioni e, intanto, ha chiesto e ottenuto una collaborazione con l’opposizione per alcune misure essenziali. In Italia il governo e la maggioranza, pur avendo mancato di visione strategica sulla politica economica e avere indulto a lungo a un ottimismo illusionistico, preferiscono scaricare su altri le responsabilità. L’opposizione avrebbe «impedito al governo di lavorare» (accusa che peraltro accredita le opposizioni di un’identità politica e di un’efficacia di cui si stenta a vedere traccia). I magistrati avrebbero «costretto» il capo del governo a occuparsi soprattutto di loro, piuttosto che dell’economia o dei giovani senza futuro. La «sinistra », così evanescente come forza di opposizione, eserciterebbe però un’influenza assoluta sui corrispondenti a Roma della stampa estera; sarebbe per questo, solo per questo, che vengono scritti nel mondo tanti commenti critici sul presidente del Consiglio e sul governo.

Devo riconoscere che, spesso richiesto all’estero di giudizi sul presidente Berlusconi e sul suo governo, non ho mai assecondato le colorite espressioni usate dai miei interlocutori nel formulare la domanda e ho sempre sottolineato che, se c’è un «problema Berlusconi», deve essere un problema di noi italiani, che l’abbiamo democraticamente eletto tre volte. La prima volta, posso aggiungere, nella speranza di molti che emergesse anche in Italia una forza liberale.

Oggi, mi pare però importante che il presidente del Consiglio — al quale forse fanno velo un’ovattata percezione della realtà e una cerchia di fedelissime e fedelissimi che, a giudicare dalle apparizioni televisive, toccano livelli inauditi di servilismo — si renda personalmente conto di alcune sgradevoli realtà. In Europa e negli Stati Uniti (mi sembra anche in Asia, dove però non ho fonti dirette altrettanto esaurienti):

1) pur riconoscendo all’economia italiana punti di forza e un notevole potenziale, si nutre grande preoccupazione per un’Italia che, in mancanza di crescita economica e di riforme vere nel settore pubblico e nei mercati, potrebbe essere vittima (non innocente) di forti attacchi nei mercati finanziari;

2) si identifica proprio nell’Italia il possibile fattore scatenante di una crisi nell’eurozona di dimensioni non ancora sperimentate e forse non fronteggiabili. Il mondo, non solo l’Europa, potrebbe subirne gravi conseguenze;

3) le principali responsabilità di questa situazione vengono attribuite al governo italiano in carica da tre anni e mezzo;

4) la permanenza in carica dell’attuale presidente del Consiglio viene vista da molti come una circostanza ormai incompatibile con un’attività di governo adeguata, per intensità e credibilità, a sventare il rischio di crisi finanziaria e a creare una prospettiva di crescita;

5) queste valutazioni, comprese quelle riportate ai punti 3 e 4, vengono formulate anche —e con particolare disappunto e imbarazzo—da personalità politiche europee, inclusi alcuni capi di governo, appartenenti alla stessa famiglia politica (il Partito popolare europeo) del presidente Berlusconi e del suo partito.

A questo quadro di preoccupazione internazionale sull’Italia e di sfiducia nel governo in carica fa riscontro la recente riconfermata fiducia da parte del Parlamento. Solo quest’ultima, ovviamente, è rilevante per la legittimità del governo. Ma in un’Europa e in un mondo sempre più interdipendenti, sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (e riesce davvero difficile immaginarne uno diverso, nel quadro attuale) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l’Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell’Unione europea, di rendere ancora più precario il futuro e la stessa dignità dei giovani italiani. Hanno salvato il presidente del Consiglio. In cambio, lo incalzino perché risparmi all’Italia, se non il ludibrio, almeno il biasimo per aver causato un disastro.

il manifesto

UNA NUOVA EPOCA

di Valentino Parlato

Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d'epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un'inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.

A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.

La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale - più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 - non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell'Iri, fondamentale nell'economia anche dopo la caduta del fascismo?

Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all'inizio di una nuova epoca.

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