Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo un po' provocatorio, Il capitalismo ha i secoli contati, e presiede il Centro Europa ricerche (Cer). Di fronte a questa crisi che dici?
Dico che la conta si è accelerata. Continuo a non parlare di crollo, ma è certo che la crisi, la più grave dagli anni trenta del secolo scorso, segna un momento di profonda trasformazione.
Ma qualcosa è cambiato nel nostro capitalismo?
A tre quarti del secolo scorso c'è stata una vera e propria mutazione. Siamo passati dal capitalismo manageriale al capitalismo finanziario. Il primo aveva accettato di subordinare le prospettive di profitto a una politica dei redditi che sanciva un compromesso storico tra democrazia e capitalismo, con il passaggio dalla massimizzazione alla normalizzazione del profitto. Oggi siamo tornati a un regime di esasperata massimizzazione del profitto e nel più breve periodo, con la conseguenza di una mostruosa esplosione delle diseguaglianze. Le conseguenze devastanti di quelle diseguaglianze sulla compressione della domanda sono state evitate ricorrendo massicciamente all'indebitamento, come dire ai posteri. Con la conseguenza di uno sfrenato aumento della liquidità. Alla vigilia della crisi, nel 2007, la liquidità mondiale aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale, di qui la crisi che ha coronato la controffensiva capitalistica. La controffensiva capitalistica è iniziata negli anni '70 con il distacco del dollaro dall'oro ed è esplosa negli anni '80 con la liberalizzazione del movimento mondiale dei capitali, liquidando gli accordi di Bretton Woods, che garantivano, con le limitazioni al movimento dei capitali, le politiche macroeconomiche dei governi. Con la controrivoluzione tatcheriana e reaganiana sono stati ribaltati sia i rapporti di forza tra capitalismo e stati nazionali, sia quelli tra capitale e lavoro. E' finita quella che un grande storico marxista come Hobsbawn aveva definito l'età dell'oro.
Ma c'è qualche differenza tra questa crisi e quella del '29?
Certamente. A fronteggiare quella crisi ci fu l'intervento pubblico: il new deal rooseveltiano e a destra la crescita dello stato in Germania e in Italia, pensa solo all'Iri e alla nazionalizzazione delle banche. Non dimentichiamo il catastrofico ma risolutivo peso della seconda guerra mondiale. Oggi la situazione è molto diversa: dappertutto cresce il debito pubblico. Il peso di un gigantesco salvataggio è stato tutto posto sugli Stati, senza toccare minimamente i redditi e il potere della nuova plutocrazia finanziaria. E al danno si aggiunge anche la beffa: banchieri e finanzieri rimproverano duramente gli stati per un indebitamento che è in gran parte dovuto al loro salvataggio. Non solo: come ci avverte De Cecco, ci sono banche che si sono messe a speculare sul default dello Stato.
In questa crisi generale c'è uno specifico italiano?
Sì, l'incertezza e il teatrale e repentino cambio di marcia sulla manovra, messo in scena dal presidente del Consiglio e dal ministro dell'Economia, tradisce l'incertezza esistenziale di questo governo, ma non altera l'impostazione della manovra. Il suo punto critico non stava nell'entità e nei tempi (secondo i calcoli del Cer, 105 e non 80 miliardi di euro come si è detto, e non tutti concentrati alla fine, ma equamente distribuiti negli anni) e non si risolve con anticipazioni. I suoi punti critici stanno anzitutto nella credibilità di un governo, il cui presidente ha negato per anni la crisi, minimizzandone poi l'importanza fino all'altroieri e, soprattutto nell'impostazione iniqua e recessiva della manovra. Il fatto grave è appunto che la manovra è recessiva, non stimola ma frena la crescita. E ciò essenzialmente per effetto delle restrizioni fiscali, che costituiscono poco meno dei due terzi delle correzioni previste. Una grande manovra avrebbe richiesto (vedi la proposta di Giuliano Amato) un'imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca. Questo dovrebbe proporre la sinistra, che trema al solo pensarci.
Ma in tutto questo non c'è anche una crisi della politica e della cultura?
Quel che oggi rimane della sinistra appare piuttosto inquinato da una cattiva imitazione dai «valori» e dalle pratiche del mercato. Nessuna traccia di un progetto umano ideale alla Marx. Nessuna traccia di un riformismo pratico alla Keynes che fissi le regole di un'economia ecologicamente, socialmente e moralmente giusta.
A tanti anni di distanza che dici della caduta del Muro di Berlino?
Fatte tutte le considerazioni del caso mi verrebbe da dire che il socialismo reale (cosiddetto) che c'era prima era un disastro e che un altro disastro lo ha sostituito. Finito il socialismo reale c'è stato lo scatenamento, in economia, delle pulsioni speculative. Non c'era più il nemico e si poteva fare di tutto. E quel che è stato fatto ci ha portato alla condizione attuale.
Hobsbawm, che tu hai citato, dice che bisogna tornare a Marx. Condividi?
Non certo al suo programma, fallimentare, ma alla sua ispirazione ideale e al suo metodo di analisi storica certamente sì. Magari ci fosse. E magari ci fosse un Keynes che traducesse quella ispirazione in buon riformismo liberale e socialdemocratico. Io voterei per loro.
Politico e economista, Giorgio Ruffolo è presidente del Centro Europa ricerche, che realizza studi e analisi di economia applicata e fornisce ad autorità nazionali e internazionali valutazioni e commenti su prospettive economiche e tendenze della finanza pubblica. Il Cer svolge inoltre attività di ricerca, formazione e consulenza per istituzioni e amministrazioni pubbliche, aziende bancarie e assicurative, industrie, associazioni di categoria.