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L'opinione del vicepresidente Italia Nostra -sezione di Venezia- sull'abnorme trasformazione della città in "case-albergo". La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)

Il pericolo vero, di fronte al moltiplicarsi di appartamenti trasformati in strutture per turisti, è che l'amministrazione sia disposta a chiudere un occhio, come ha fatto finora, purché i proprietari paghino al Comune la tassa di soggiorno imposta per ogni cliente. Per quelle strutture si tratta di un euro e mezzo al giorno a persona. A nostro avviso i posti letto non dichiarati nel Comune sono circa diecimila (sui 27mila dell’intero Comune). Calcolando una media di occupazione di 200 notti all'anno, parliamo di circa due milioni di persone, che pagherebbero una tassa di tre milioni di euro.

Per un comune in perpetuo deficit di cassa, si può capire che la somma faccia gola. Forse per questo il sindaco Brugnaro, di fronte alle recenti scoperte di veri e finti bed and breakfast in nero ha dichiarato: dovranno mettersi in regola. Non ha detto: sono troppi, stravolgono il vivere cittadino, trasformano la città in un albergo. Ha parlato come se per lui la cosa più importante non fosse l'effetto che tutte quelle case-albergo provocano sulla vita veneziana. Ha parlato come se per lui contasse solo che gli occupanti pagassero il dovuto euro e cinquanta di tasse. Ma non è così.
Le case-albergo provocano una grave diminuzione di residenti. Le persone che lavorano a Venezia sono costrette (o spesso spinte dai loro stessi interessi) ad andare ad abitare in terraferma per lasciar posto ai turisti, che possono pagare molto di più. La città si svuota di residenti e non è più il luogo diverso e speciale in cui vivere. Le scuole non hanno più bambini, i luoghi di ritrovo cominciano a chiudere, le società di voga non hanno più iscritti, la cantieristica tradizionale scompare, gli spettacoli pubblici sono sempre diretti al turismo di massa (non si sente parlare di altro che di Casanova, magari spingendosi qualche volta fino a Vivaldi), le piccole aziende nuove si stabiliscono in terraferma, i palazzi diventano alberghi. Nelle stagioni morte la città si svuota, nelle altre diventa gremita di folla.
Io stesso ho ripreso delle "nostalgiche" foto di via Garibaldi in novembre, a fine gennaio o in febbraio, con i residui abitanti fermi in qualche crocicchio a scambiarsi un saluto, con la borse della spesa e con i bambini sui loro tricicli. Ma forse ho fatto male a usare l'aggettivo "nostalgiche". Non si tratta di far rivivere il passato, si tratta solo di potersi aspettare un futuro. Un futuro che non sia nella pur apprezzabilissima terraferma ma nella città in cui si vive meglio che in qualsiasi altra parte del mondo, pagando magari il prezzo di qualche disagio com'è sempre stato e come tutti facciamo ben volentieri (rinunciamo alla comodità della macchina per vivere qui).
I soldi della tassa di soggiorno aiuterebbero forse a sollevare in (piccolissima) parte il peso del deficit dei conti pubblici. Ma una città ben regolata troverebbe altri e più redditizi cespiti da fonti diverse, senza sacrificare la propria stessa natura ed essenza. Il sindaco precedente, Paolo Costa, era un economista e questo forse non poteva capirlo. Ma da quanto traspare finora sembra che anche il sindaco attuale, per quanto laureato in architettura e non in economia, sia molto più attratto dalle questioni di bilancio che da quelle che riguardano la qualità della vita. Forse perché a Venezia lui non ci ha mai abitato e non vorrebbe neppure abitarci. *

«Venezia: continua l'operazione "Venice Journey" di Finanza e polizia municipale. Ostello con 20 letti ma con una igiene vergognosa. Scoperto anche un affittacamere abusivo. Nel timore dei controlli, ora i cittadini collaborano: incremento di nuove attività emerse dell’800% in un anno». La Nuova Venezia, 19 agosto 2016

Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti internet. La locazione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, stimolata a spendere da servizi di lusso: vasca idomassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale. Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea.Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al fisco ed al Comune di Venezia. Per il proprietario e gestore, oltre all’irrogazione delle sanzioni amministrative per la violazione della normativa regionale e comunale in materia turistica, c’è stata la segnalazione al competente Reparto della Guardia di Finanza per l’esecuzione dei necessari approfondimenti, visto l’irregolare impiego dei lavoratori e l’esiguo reddito dichiarato al fisco.L’operazione “Venice Journey” prosegue e continua a riservare sorprese: oltre a locazioni di

lusso ed affitti turistici “fai da te”, in un caso gli operanti hanno anche individuato un vero e proprio ostello, nel sestiere Cannaregio, nel quale venivano ospitati fino a 20 turisti a notte in condizioni igieniche disastrose e con scarsa sicurezza.
In un altro caso, invece, un controllo documentale ha portato a denunciare un affittacamere abusivo. Scoperto dalle Fiamme Gialle che aveva controllato un cittadino pachistano mentre faceva alcune foto nei pressi del Ghetto ebraico a Venezia. Il cittadino straniero, risultato poi un tranquillo turista in visita alla città, ha spiegato di essere alloggiato in una struttura ricettiva trovata via internet: immediati i controlli con la segnalazione dell’affittacamere abusivo alla Procura della Repubblica per la mancata comunicazione degli alloggiati.
Negli ultimi due mesi di attività, sono stati scoperti 29 immobili abusivi gestiti da 24 persone, contestati circa 50.000 euro di sanzioni amministrative e denunciate 10 persone per la mancata comunicazione degli alloggiati alla Questura. L’attività di controllo economico del territorio ha anche permesso di acquisire numerosi elementi di interesse ai fini fiscali. E con i controlli aumenta la collaborazione dei cittadini: nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”. Ad agosto 2016 ne risultano inserite circa 1900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale.

L’operazione "Venice Journey" quindi continuerà anche nei prossimi mesi per salvaguardare gli imprenditori che operano nella legalità e che rispettano le regole, oltre che la sicurezza dei cittadini veneziani e dei turisti che soggiornano a Venezia.

Denunciati dai cittadini aspettiminori del massacro che il turismo sregolato di massa, affiancato al rapaceturismo di lusso, sta arrecando alla città nella Laguna ancora formalmente considerata parte rilevante del"patrimonio dell'umanità". La Nuova Venezia 19 agosto 2016

«Ho agito d’impulso, ma non capiscono che possono finire tranciati da un’elica?». A parlare è Roberta Chiarotto, la signora che mercoledì pomeriggio alla vista di un gruppo di ragazzi e ragazze stranieri in mutandoni e bikini, che stavano per tuffarsi in Canal Grande dalla riva di campo San Vio - come fossero in una qualunque spiaggia - ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a riprenderli: ma a differenza dei tanti che riprendono e tacciono, sfogandosi poi solo sui social, la signora Chiarotto ha iniziato a richiamare all’ordine il gruppetto balneare (due ragazze e quattro ragazzi). In italiano, in inglese e anche in tedesco: «È proibito tuffarsi a Venezia. Questa non è Disneyland, è una città». E loro, mogi mogi, son tornati occhi bassi sui loro passi. «Siamo veramente al troppo che stroppia: sembravano sobri», prosegue la signora Chiarotto, «purtroppo temo che sia passato il messaggio che in Italia si possa fare ciò che si vuole».

Il suo video pubblicato sul suo profilo Facebook è diventato subito virale: in 24 ore ha avuto quasi 100 mila visualizzazioni. Anche perché solo poche ore dopo il mancato tuffo a San Vio - mercoledì sera - i piloti Actv in transito davanti alla stazione hanno iniziato a mandare allarmate segnalazioni alla loro centrale operativa: «Ci sono delle persone che stanno attraversando a nuoto il Canal Grande. È pericoloso». Dalla riva di Santa Lucia a quella di San Simeon piccolo, come fossero in una piscina olimpica di Rio. In due sono stati intercettati da alcuni vigilanti, come mostra la foto di Marco Regalini, pubblicata sulla pagina Facebook del “Gabbiotto”.
Un maleducato sfidare la sorte per gusto della bravata che sconfina nell’inciviltà che si fa pericolosa, nel rischio di far male a sé stessi e agli altri, come dimostra il “tuffo” della scorsa settimana dal ponte di Rialto di un marinaio di uno yacht di passaggio a Venezia, che si è schiantato su un taxi di passaggio, finendo lui (il tuffatore) in Rianimazione, denunciato per attentato alla sicurezza della navigazione, dopo aver rischiato di travolgere il taxista. Ora l’amministrazione sta valutando un inasprimento del regolamento, per verificare la possibilità di estendere le denunce anche in caso di nuotate che creino intralcio alla navigazione.
Più turisti in città significa più maleducati, più pic-nic dove capita, più bagnanti nei rii o persone in costume a prendere il sole stesi a terra. E più “ciclisti” per le calli della città. L’ultima protesta arriva da Sant’Elena, dove il comitato dei residenti ha inviato ripetute segnalazioni alle forze dell’ordine, per protestare contro la noncuranza con la quale troppi diportisti che ormeggiano alla nuova darsena, inforcano la bicicletta per girare per Sant’Elena, quasi fossero in qualsiasi strada motorizzata della Croazia: «Ho visto con i miei occhi anche una piccola moto, ma non avevo il cellulare con me. Gli stessi dipendenti della marina vanno i bici».
Dalle vacanze, il sindaco Brugnaro si è fatto sentire via Twitter. Così a chi gli chiedeva conto delle troppe bici in città, ha scritto: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Con tanto di “smile” con lo sberleffo. Nei giorni scorsi aveva chiesto poteri speciali al governo, per poter far passare una notte in cella a ubriachi molesti. Ieri alle critiche di chi lo ha accusato di giocare allo sceriffo, ha riservato un altro tweet: «Le opposizioni in @comunevenezia non vogliono la cella di sicurezza per i disturbatori della serenità pubblica. I cittadini devono saperlo!». Fiocchetto rosso. Tant’è, prima della fine dell’estate, c’è da credere che la maleducazione di troppi farà ancora parlare di sé in città.
«Il “sogno” di una rivoluzione industriale permanente, grazie alla chimica italiana, è stato definitivamente sepolto a Porto Marghera e nei siti minori sparsi per l'italia, dalla Sicilia alla Puglia, fino alla Sardegna, lasciando un grande “buco nero”, con un’immane tragedia ambientale e sanitaria». L'intervista di Carlo Mion a Maurizio Don, l'articolo di Gianni Favarato, La Nuova Venezia, 17 agosto 2016 (m.p.r.)


«PORTO MARGHERA
ULTIMA OCCASIONE»
di Carlo Mion

Marghera. Del Petrolchimico di Porto Marghera che fu il più grande d'Europa, restano vecchi tubi arrugginiti, stabili dismessi e terreni da bonificare. La natura, come testimonia il reportage pubblicato sulla “Nuova” di lunedì, si sta riprendendo lo spazio che le era stato strappato un secolo fa. In occasione dei cento anni di vita, errori del passato, agonia del presente e speranze per il futuro nel botta e risposta con Maurizio Don, sindacalista nazionale della Uiltec e per decenni sindacalista al Petrolchimico.
A cento anni dalla nascita della grande area industriale di Porto Marghera cosa resta?
«I primi insediamenti furono quelli della zona industriale vicini al ponte della Libertà che comprendevano i fertilizzanti e l'alluminio della Sava. Oggi dell' industria a ridosso di Mestre e Marghera non è rimasto più nulla o quasi. È sparita Montedison Agricoltura e prima ancora la Sava, non c'è più la Vidal e nemmeno il Feltrificio Veneto. Sono state chiuse le vecchie centrali elettriche dell'Enel, Vinyls, il Clorosoda e la Pilkington è da tempo in brutte acque. Nella seconda zona industriale la chimica costruita dalla Montecatini in poi è in fase di trasformazione e quello che rimane lo stiamo difendendo con i denti».

In questo anniversario c'è il rischio delle celebrazioni permeate di retorica?
«Sono stati tanti anni di progresso e di emancipazione sociale per il territorio veneziano, e non solo, che hanno valorizzato fortemente l'economia di questi paesi e della sua gente. Quanto fatto, nel bene e nel male, va ricordato e va studiato con il raffronto fra la visione di sviluppo del primo dopoguerra e la coscienza ambientale di oggi. Se non vogliamo che sia soltanto una passerella di rappresentanza occorrerà che si lavori per una nuova ripartenza che non getti via il bambino con l'acqua sporca».

Nell'ultimo quarto di secolo sul Petrolchimico quali sono stati gli errori maggiori?
«Il più grande petrolchimico d'Europa ha avuto il merito di essere stata una grande realtà industriale, pur con tutte le sue storture, ed il demerito di non essersi adeguato nel tempo ai cambiamenti richiesti dall'evoluzione produttiva e di mercato. La discussione dei primi anni '90 era basata su una questione: la chimica italiana deve restare privata in mano a Montedison o diventare pubblica dentro Eni? Questa diatriba con contorno di tangenti ha sviato l'attenzione dall'evoluzione di processo verso un interminabile balletto di posizioni politiche e istituzionali che hanno contribuito a soffocare ogni iniziativa di rilancio industriale».
E chi ha sbagliato maggiormente in questo senso?
«Hanno sbagliato tutti: le imprese che non hanno avuto il coraggio o la forza di fare quadrato a difendere le potenzialità enormi di un tessuto industrializzato senza pari. Ha sbagliato la politica nel trasformare la discussione sul recupero ed il rilancio di Porto Marghera in un ring elettorale inconcludente e forse, qualcosa ha sbagliato anche il sindacato che ha potuto solo difendere i posti di lavoro che si perdevano. Noi abbiamo cercato di rallentare le dismissioni per ridurre il disagio occupazionale di migliaia di lavoratori. In questo contesto abbiamo sbagliato, eccedendo con la fiducia verso imprenditori che hanno, tradendo le nostre aspettative, tentato di fare solo speculazione sui cadaveri delle imprese».
Solo errori o la volontà (politica?) di smantellare una realtà industriale che non poteva essere competitiva nel luogo dove era nata?
«La perdita di competitività delle produzioni chimiche di Marghera è figlia della mancanza di capacità di reazione alle evoluzioni del mercato. Ma era difficile farlo se la burocrazia ha soffocato ogni tentativo di riconversione, se una autorizzazione ambientale ha tempi straordinariamente lunghi rispetto ai nostri competitors mondiali. Alla fine degli anni 90 si fece il primo Accordo di Programma su Porto Marghera e già allora governatore Giancarlo Galan sosteneva che nel 2015 non ci sarebbe stato più un polo chimico. Nulla è stato fatto nella logica della programmazione alternativa, ma tutto è servito ad acuire lo scontro fra i sostenitori, pochi, del cambiamento accompagnato, e coloro, molti, che pensavano che il non fare nulla era già una decisione».

Nel momento in cui iniziò il declino, al posto di arroccarsi nella strenua difesa dei posti di lavoro, non si poteva pensare a reinventare quei posti pensando al recupero delle aree?
«Porto Marghera aveva e ha in sé tutte le condizioni esogene per essere un'area molto appetibile per le imprese: servizi, logistica, portualità ed enormi professionalità nelle sue maestranze, ma una gestione politica ignava ed imprese poco coraggiose non hanno voluto pensare ad una trasformazione di accompagno. I sindacati hanno sempre chiesto non lo status quo, ma un processo di trasformazione che creasse nuova occupazione prima di una dismissione. Ma questo non è mai avvenuto. La logica dell'occupazione attraverso le bonifiche è sempre stata effimera perché per bonificare dove lavoravano centinaia di persone stabilmente, bastano poche unità e a breve termine ed è per questo che è stata osteggiata dal sindacato».
Si sta perdendo ancora tempo in discussioni infinite?
«Le celebrazioni del centenario della nascita di Porto Marghera hanno questa responsabilità: analizzare gli errori, quali - quanti e perché sono stati fatti, valorizzare quanto ancora esiste, seguendo l'esempio della trasformazione della raffineria e sostenendo come detto la strada della chimica verde, non buttando cioè alle ortiche cento anni di storia perché non si ha il coraggio di ammettere che, anche se oggi nessuno farebbe un petrolchimico a bordo laguna, è solo per mancanza di senso di responsabilità che si preferisce lasciare tutto fermo. C'e un problema, lo stato non pagherà perché per bonificare Porto Marghera serve un finanziaria, e di conseguenza se non favoriamo un nuovo sviluppo produttivo, attraverso la chimica verde, avremo una nuova Bagnoli in laguna».


LA PARABOLA MORTALE DELLA CHIMICA ITALIANA AI BORDI DELLA LAGUNA
di Gianni Favarato
Cinquant’anni di storia, dall’Eni di Mattei e la Montedison di Raul Gardini alla nuova chimica verde promessa dall’Eni

Marghera. Le grandi fonderie e fabbriche siderurgiche nate all’inizio del seconolo scorso (dalla Sava, all’Alumix fino all’Alcoa) ormai è stata praticamente azzerata, lasciando capannoni vuoti e fatiscenti in aree abbandonate a se stesse e piene di veleni. Anche la parabola della chimica di base italiana che ha fatto la storia di Porto Marghera, qui è cominciata occupando decine di migliaia di lavoratori ai bordi della laguna e qui ora sta sparendo quasi del tutto, ancor prima della possibile rinascita in una nuova versione “green” che utilizza oli vegetali al posto deo derivati del petrolio. “E mo', e mo', Moplen!” diceva con il suo faccione da clown l'indenticabile Gino Bramieri pubblicizzando in televisione la rivoluzionaria plastica di propilene prodotta per dalla Montecatini sulla scia della scoperta di una nuova sostanza plastica polimerica fatta dal premio Nobel Giulio Natta.

Erano gli anni Sessanta e nell’Italia in pieno boom economico e in Italia nascevano due grandi società, il nascente Ente nazionale idrocarburi fondato da Enrico Mattei e la Montedison di Cuccia che poi passò alla famiglia Ferruzzi e infine a Raul Gardini e Gabriele Cagliari che si sono suicidati alla vigilia del primo interrogatorio dei magistrati di Mani Pulite. Eni e Montendison decisero di sancire un grande matrimonio per da vita ad Enimont, un sogno di grandezza industriale nazionale durato ben poco, per poi lasciare il terreno a multinazionali - come Dow Chemical, Evc, Ineos, Elf Atochem e Solvay - che negli ultimi anni, una dietro l'altra, dopo aver “spremuto” tutti i profitti possibili, l'hanno abbandonata chiudendo le produzioni o vendendole a improbabili imprenditori come il trevigiano Fiorenzo Sartor che ha rilevato la produzione di cvm e plastica in pvc della Ineos nel 2009 per poi portare i libri contabili in tribunale e decretare così la chiusura definitiva del ciclo del cloro.
Il “sogno” di una rivoluzione industriale permanente, grazie alla chimica italiana, è stato definitivamente sepolto a Porto Marghera e nei siti minori sparsi per l'italia, dalla Sicilia alla Puglia, fino alla Sardegna, lasciando un grande “buco nero”, con un’immane tragedia ambientale e sanitaria ancora da risanare, migliaia di posti di lavoro persi, per l'immane inquinamento di acque, suoli e falde ancora ben lungi dall'essere ripulito con le attese e ormai sempre più improbabili bonifiche e ha ingoiato migliaia di miliardi delle vecchie lire, finiti nelle tasche dei “boss” delle Partecipazioni Statali italiane e delle multinazionali chimiche. Oggi a Porto Marghera a tirare la ripresa è rimasto il porto passeggeri e commerciale con le connesse attività logistiche e industriali che piano piano stanno occupando parte delle aree abbandonate. Sono rimaste in esercizio solo due grandi stabilimenti chimici (oltre a quelli più modesti di Atochem, Sapio e Solvay) che fanno capo all’Eni e sono la raffineria di petrolio ai bordi della laguna, ora riconvertita al biodiesel e il vecchio impianto del cracking dell’etilene che doveva essere chiuso o venduto ma ora, stando alle ultime promesse - da verificare nei fatti - dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, dovrebbe veder rinascere la chimica italiana in versione “verde”.

«Automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città con gli sfratti e con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni. Occorre attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua». La Nuova Venezia, 12 agosto 2016 (m.p.r.)

Ormai da oltre vent’anni anni continuano le dichiarazioni che non vogliono farsi carico dell’esodo che sta portando alla morte la città d’acqua di Venezia e le isole minori della laguna. Hanno cominciato le giunte Cacciari-D’Agostino revocando e cambiando le norme in vigore del Piano regolatore della città storica adottato precedentemente, norme che hanno bloccato fino alla fine degli anni ’90 i cambi d’uso degli appartamenti. Le concessioni dei cambi d’uso sono poi sempre continuate fino all’attuale giunta Brugnaro che ha subito prontamente contraddetto gli impegni elettorali.

Dall’inizio degli anni Duemila sono state presentate numerosissime domande e progetti per i cambi d’uso, e così sono cresciuti molto velocemente gli alberghi, le pensioni e le loro espansioni negli appartamenti vicini. Contemporaneamente non solo le attività private ma persino anche le funzioni pubbliche hanno cominciato a essere spostate in terraferma e al Tronchetto per vendere le loro sedi in centro “valorizzate” con il cambio a funzione ricettiva. E prima si sono sempre più inglobati nel bilancio ordinario per le spese correnti gli oneri di urbanizzazione che dovrebbero finanziare la realizzazione dei servizi pubblici, poi è seguita la svendita del patrimonio pubblico, che continua con la nuova giunta, per far quadrare in questo modo il bilancio delle spese ordinarie; e ogni volta si attua il cambio d’uso preliminarmente alla vendita.
Nel frattempo dilagano i B&B e l’affitto turistico degli appartamenti, cosa conosciutissima da tutti ma senza alcun controllo pubblico da sempre. Da anni, con la semplice ricerca diretta sul campo di poche decine di studenti di urbanistica, quasi ogni porta del centro città risultava impegnata dalla ricezione turistica; questa situazione sempre più dilagante solo recentemente è stata denunciata grazie a ricerche private su Internet compiute con mezzi semplicissimi. Tutto questo è stato ulteriormente favorito e incentivato dai decreti emergenziali degli ultimi governi e dalle leggi regionali (che hanno devastato le normative urbanistiche) e dalla connivenza e omertà delle amministrazioni locali.
Da una decina d’anni ogni richiamo alla gravità della situazione viene eluso con la falsa o ignorante scusa che “succede in tutti i centri storici”, ignorando volutamente che Venezia non è un centro storico ma una città storica con molte aree centrali, altre periferiche e molte aree di servizio e produttive che con l’insieme delle isole minori della laguna costituisce un sistema urbano d’acqua, diverso dalla terraferma, che è sempre stato e ancora può essere per molte funzioni autonomo e autosufficiente. E si vuole ignorare che gran parte dei 90 mila pendolari giornalieri sono lavoratori, ma anche studenti e operatori culturali, che abitavano e ancora abiterebbero in città se la disponibilità e il mercato degli alloggi non fosse impraticabile e li spingesse all’esodo e al pendolarismo.
Anche senza fare nulla, automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città sia direttamente con gli sfratti sia indirettamente con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente quindi non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni che pur mancano e devono essere ripristinati e attivati. Occorre anche attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua. Politiche che rendano innanzitutto usabile tutto il patrimonio pubblico oggi non disponibile: con la riqualificazione pubblica (con risorse europee, nazionali e per le città metropolitane), con la locazione in cambio di restauri autogestiti, con lo scambio degli oneri degli interventi privati, con incentivi e contributi, ecc.
E se l’amministrazione pubblica non funziona correttamente o addirittura è connivente con l’operatore immobiliare privato anche le poche operazioni che dovevano rendere disponibili alcune decine di appartamenti (come i casi della Giudecca) sono andate a finire nel mercato dell’acquisto privato o si sono arenate. E comunque senza norme, controlli e politiche efficienti ed efficaci mentre si rendono disponibili poche decine di appartamenti il mercato ne fa perdere molte centinaia. Poco a poco in città anche la consapevolezza della necessità di non lasciar dilagare la monocultura turistica è venuta a mancare, anche gli amministratori si sono arresi alla comoda rendita di posizione: l’attività turistica rende più delle altre senza particolari capacità.
Anche per incentivare l’arrivo di nuove attività occorrono politiche attive per ridare incentivi, opportunità, forza ad attività innovative sia private che pubbliche non turistiche. Ricordo ad esempio che nel 1988/’90 con la giunta Casellati eravamo arrivati a un buon punto nella disponibilità dichiarata ad insediare a Venezia gli uffici e i laboratori sia dell’Agenzia europea dell’ambiente sia dell’Agenzia mondiale delle acque (l’Amministrazione aveva formalmente offerto la disponibilità degli spazi ed edifici necessari per le attività e per le abitazioni). Ma poi tutto è stato lasciato cadere. E molti spazi in disuso ai margini della città, per poter allocare nuove attività, sono sempre disponibili ma senza politiche attive ed efficienti non può succedere nulla. Anche per gli spazi dell’Arsenale occorre predisporre un progetto complessivo e unitario (chiesto e proposto inutilmente da anni dal Forum Arsenale), senza limitarsi a subire passivamente le iniziative della Biennale e del Consorzio Venezia Nuova, magari limitandosi a rendere disponibili singoli spazi al miglior offerente o per eventi unici a pagamento.
Nei secoli Venezia è stata ripopolata più volte dopo eventi calamitosi. Ma occorre ricostruire una fortissima convinzione e volontà politica sia livello nazionale sia a livello locale che costruisca piani, programmi, progetti e strumenti e sappia reperire risorse per poter contrastare le tendenze automatiche del “libero mercato”. Per questo, sapendosi muovere, potrebbero essere di stimolo e di aiuto anche le risoluzioni dell’Unesco, ma bisogna saperle riconoscere e valorizzare anziché denigrare.
* Già assessore all’Urbanistica, membro della Commissione di Salvaguardia, Venezia

«L’architetto D’Agostino interviene sullo spopolamento “Ho favorito gli alloggi turistici? No, il piano si poteva cambiare. Più controlli sui B&B”». Le responsabilità dell'ex assessore sono in verità considerevoli. La Nuova Venezia, 11 agosto 2016 , con postilla

Per qualcuno è uno dei «responsabili» della deriva turistica del patrimonio immobiliare veneziano, perché il suo piano regolatore del 2005, favorì l’accorpamento degli alloggi, le trasformazioni alberghiere e il proliferare dei bed & breakfast, ma l’architetto Roberto D’Agostino - per molti anni assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia e poi presidente di Arsenale Venezia spa, la società di gestione del complesso, poi disciolta dalla Giunta Orsoni - respinge l’accusa e rilancia, spiegando perché, a suo avviso, le politiche pubbliche sulla residenza negli ultimi dieci anni almeno sono fallite, accelerando lo spopolamento.

Architetto D’Agostino, si è sbagliato sul cambio di destinazioni d’uso favorendo gli alloggi turisti?
«Premesso che quel piano è di più di vent’anni fa e volendo c’era tutto il tempo di cambiarlo, esso prevedeva la destinazione a residenza, sono state le leggi regionali e nazionali a favorire poi l’arrivo e la proliferazione di bed & breakfast, affittacamere e ora alloggi turistici. E lì che si dovrebbe intervenire, fermo restando che sono stati gli stessi veneziani a favorire queste trasformazioni, purtroppo, guardando ciascuno al proprio interesse».

Troppo tardi ora per invertire la tendenza?
«Secondo me no. Per i bed & breakfast basterebbe una squadra di vigili e tecnici dedicata che vada in perlustrazione costante per scoprire facilmente che la metà di quelli aperti non rispetta l’obbligo di un residente nell’esercizio e farli chiudere. E per gli alloggi turistici basterebbe rispettare il limite del soggiorno di almeno una settimana - anche qui con relativi controlli - per ridurre molto la tendenza».
Perché è fallita in questi anni la politica sulla residenza, a cominciare dai 5 mila alloggi promessi dalla Giunta Orsoni e mai realizzati?
«Perché dopo l’inizio degli anni Duemila non si è più “progettato”. Proprio gli interventi alla Giudecca sono una prova degli effetti positivi di un intervento pubblico. E molti progetti sono rimasti inspiegabilmente nel cassetto».

Quali?
«Penso al progetto per creare 70 alloggi in social housing alla Celestia, con il sì dell’Agenzia del demanio, a costo zero per l’amministrazione perché i fondi della Cassa Depositi e Prestiti per costruirli si sarebbero pagati con parte degli affitti. O ai 400 che avrebbero dovuto sorgere a Sant’Elena nell’area ex Actv. O ai 40 previsti nell’ex Caserma Sanguinetti all’Arsenale. Interventi pronti sulla carta, finanziabili appunto attraverso gli affitti, ma rimasti sulla carta».
Perché?
«Perché nessuna amministrazione ha voluto seriamente occuparsi, si è attrezzata per questo. Sull’Arsenale c’era poi il veto del Consorzio Venezia Nuova e il tacito accordo tra l’allora sindaco Giorgio Orsoni e l’allora presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati per lasciare che solo le imprese si occupassero di quelle aree. Così è stato per quelle lasciate alla Biennale, che almeno hanno una parziale ricaduta sul territorio. Non ci sono né idee né volontà e non a caso l’Arsenale è usato dal Comune per le feste di Vela. Senza una struttura dedicata che se ne occupi con autonomia gestionale - sia pure sotto lo stretto controllo del Comune - è difficile mandare avanti progetti, anche quando, come era avvenuto, i soldi erano stati trovati».
Intanto i prezzi delle case sul mercato libero sono diventati proibitivi per i residenti.
«I prezzi sono alti per le possibilità dei residenti attuali, ma non più alti di quelli di altre grandi città italiane, penso a Milano o a Roma. Il problema è che là c’è una potenziale base di acquirenti di milioni di persone, qui di poco più di 50 mila ed è anche per questo che gli alloggi sono venduti come seconde case o sono utilizzati a fini turistici dagli stessi veneziani che li possiedono, e che preferiscono guadagnarci sopra. Se non si riparte con gli alloggi in social housing, non può esserci ripresa demografica».

postilla

L'architetto D'Agostino è uno dei maggiori responsabili del degrado della città negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda le scelte della pianificazione urbanistica. In questa intervista ha riesposto sue tesi già espresse in passato. Segnaliamo qualche documento in proposito. Sulla questione della "liberalizzazione" in favore delle utilizzazioni turistiche si veda su eddyburg la puntuale risposta che gli diede a suo tempo Luigi Scano, nell'articolo "Prg di Venezia. e proliferazione di alberghi e affittacamere". Si veda anche di Edoardo Salzano Il piano D’Agostino-Benevolo per la città storica di Venezia, e di Alberto Vitucci. Osservatorio casa mandato a casa. Altri articoli ad abundantiam nelle cartelle dedicate a Venezia, nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg.

È da qualche decennio che chi governa Venezia (e il Veneto) fa ponti d'oro a chi lavora alacremente per aumentare la presenza dei turisti a Venezia. Turismo di lusso e turismo di massa tutto fa brodo. E anche la maggioranza dei veneziani acconsente: infatti, vota per loro. La Repubblica, 10 agosto 2016

La Venezia da cartolina attira sempre più turisti, ma quella dei veneziani rischia di sparire. Gli ultimi dati del Comune sul numero dei residenti rimasti in città sono preoccupanti. A oggi sarebbero soltanto 55.075 i cittadini che resistono allo spopolamento, ma il numero è destinato a scendere a 54 mila già dai primi di settembre, secondo le proiezioni. Un calo a picco che sembra irrefrenabile. Dal 2000, quando gli abitanti erano 66.386, Venezia ha perso in maniera sistematica mille abitanti all’anno, arrivando nel 2016 ai minimi storici con una media di 2,6 residenti in meno al giorno, 956 da gennaio.

Lo spopolamento è stato graduale ed è iniziato dopo la grande alluvione del 1966, quando moltissimi veneziani si sono spostati verso la terraferma. Nel 1861 Venezia aveva 128.787 residenti. All’epoca i numeri erano in crescita, tanto da arrivare nel 1901 a 146.682 cittadini residenti e nel 1951 a 167.069, il massimo storico. Poi, il lento ma progressivo svuotamento della città, mentre cresceva il turismo di massa, che oggi si attesta attorno ai 22 milioni di arrivi all’anno.

Una situazione paradossale, perché se la città è un sogno per il turista che ne rimane stregato, dall’altro lato è sempre più un incubo per chi vuole mettere radici nella laguna e si ritrova alle prese con affitti altissimi, botteghe di quartiere che chiudono, negozi di paccottiglia e di souvenir a un euro che proliferano e palazzi che si trasformano in un baleno in hotel di lusso. Se a questo si aggiunge che l’età media è di 47 anni e che la popolazione anziana è in continuo aumento, si capirà che per un veneziano restare a Venezia è diventata una vera battaglia.

Eppure, nonostante la Guardia di finanza abbia stanato nell’ultimo periodo circa duecento strutture ricettive abusive, il problema di Venezia sembra sia proprio rappresentato da una parte di veneziani. Quelli, sempre più numerosi, che hanno trasformato la propria città in un business di acchiappaturisti scegliendo di dare in affitto la propria abitazione. Affitti spesso irregolari, con una durata dichiarata di un mese che poi diventano quattro.

Il risultato è un business selvaggio che ricade per primo sui veneziani e su quelle associazioni che chiedono una città a misura di residente e non del turismo di massa, come fa il Gruppo25Aprile con la campagna #Veneziaèilmiofuturo, o l’Associazione Poveglia, che chiede che l’omonima isola non sia ceduta ai privati, o ancora Venessia.com che denuncia da anni il calo degli abitanti.

Se al numero dei cittadini della laguna si somma quello degli degli abitanti delle isole, il calo non si arresta, perché si passa da 84.666 a 83.398 abitanti. «Lo spopolamento non si può risolvere in pochi mesi — dice Lucia Colle, vice sindaco e assessora al Patrimonio — Quello che sta facendo la nostra amministrazione è cercare di attirare gli under 40 con alcuni bandi per case a prezzi privilegiati. Vogliamo anche provare a portare lavoro in città, perché è quello che poi aumenta la residenzialità. Per quanto riguarda le strutture abusive, invece, stiamo aumentando i controlli».

Nonostante le università Ca’ Foscari e Iuav pullulino di giovani, dopo la laurea quasi tutti imboccano il Ponte della Libertà e tornano nella terraferma, dissuasi a restare dagli affitti da capogiro. Uffici e magazzini si trasformano in stanze da affittare e giorno dopo giorno si chiudono i palazzi. E in tutto questo a rimetterci sono quei residenti che non vogliono diventare comparse costrette a vivere in un luna park. Il luna park Venezia che, quando cala la sera, viene dimenticato da tutti.

Prosegue il cammino della privatizzazione del complesso delle isole di Sant'Andrea e Certosa, concesse in uso cinquantennale a una S.r.l dedita allo sviluppo del turismo di lusso. I cittadini tacciono, i loro rappresentanti e i media plaudono. Ora si aggiunge il peso di uno sponsor potente. La Nuova Venezia, 9 agosto 2016

Veicoli elettrici e stazioni per la ricarica, sistemi Ict per l’illuminazione pubblica e connettività a banda larga, interventi di efficienza energetica, impianti fotovoltaici, mini-eolici e batterie per l’accumulo dell’elettricità: grazie alla sperimentazione di una serie di soluzioni innovative, frutto dell’accordo firmato tra Vento di Venezia, società che persegue la riqualificazione dell’isola della Certosa in partenariato con il Comune di Venezia , e Terna Plus, la società del gruppo Terna che sviluppa e gestisce le Attività Non Regolate, l’Isola della Certosa diventa un laboratorio per le energie smart.


Il progetto, della durata triennale, si inserisce all’interno di un programma più ampio che ha come obiettivo il recupero, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico, dei 24 ettari di territorio dell’isola della Certosa. Grazie all’intervento di Terna Plus si innalzeranno gli obiettivi del progetto di rigenerazione urbana e l’Isola, che vanta un notevole patrimonio storico e paesaggistico, diventerà un modello di “Smart Energy Island” sostenibile e all’avanguardia a livello internazionale. Con la diffusione delle energie pulite e la loro integrazione in rete, lo sviluppo della mobilità elettrica e una più intelligente gestione dei consumi, l’Isola della Certosa - che attualmente è collegata elettricamente alla rete in terraferma – si orienta alla gestione energetica localizzata e, al contempo, alla riduzione delle emissioni inquinanti, grazie a un minor impiego di fonti di produzione tradizionale, con evidenti ricadute positive per il territorio e per le attività che verranno sviluppate sull’isola.

Per contenere gli impatti dell’intervento di riqualificazione ambientale,tutte le soluzioni individuate saranno studiate per coniugare le esigenze del servizio elettrico con quelle paesaggistiche, con strutture che occupino la minor porzione possibile di territorio, minimizzando l’interferenza con le zone di pregio naturalistico, storico e archeologico presenti sull’isola.

Il progetto per rendere Certosa un’isola a vocazione rinnovabile, smart, sostenibile, più autosufficiente dal punto di vista energetico e a basse emissioni, fa parte della più ampia strategia di Terna per l’ammodernamento delle reti elettriche delle isole minori, che si estende anche ad altri territori italiani: iniziative simili sono, infatti, già state avviate per le isole del Giglio e Giannutri, in Toscana, e Pantelleria, in Sicilia.

Riferimenti

Vedi sull'argomento l'articolo di Lidia Fersuoch, presidente di Italia nostra -Venezia, a proposito del complesso Sant'Andrea-Certosa
Un mercato immobiliare in mano ai ricchi stranieri (ovviamente del Primo mondo), che in maggioranza investono per far quattrini affittando ai turisti. Sempre meno spazio per i veneziani, nella loro riserva indiana. La Nuova Venezia, 2 agosto 2016

Il mercato immobiliare del lusso a Venezia è ormai in mano agli stranieri - il 70 per cento degli acquirenti - e a livello di prezzi non conosce cali particolari, nonostante il momento ancora delicato in Italia per il settore. È la fotografia scattata dal Market Report Venezia 2016 elaborata da Engel & Völkers, gruppo tedesco leader a livello mondiale nel settore dell’intermediazione di immobili di pregio. I prezzi degli immobili più esclusivi, particolarmente i palazzi che si affacciano sul Canal Grande, vanno dai 12 mila ai 20 mila euro a metro quadrato. In particolare, le zone più richieste per la compravendita di proprietà residenziali di lusso sono San Marco e San Polo e Dorsoduro.

I prezzi degli immobili, a Venezia, hanno subito variazioni di prezzo decisamente inferiori rispetto alla media nazionale, appunto a causa della forte domanda da parte della clientela estera. Il 25 per cento dei nuovi acquirenti sono britannici - anche se l’effetto Brexit sulla sterlina potrebbe in futuro farsi sentire - seguiti da francesi (20 per cento) e tedeschi (10 per cento). Il 15 per cento di tutte le compravendite infine riguarda compratori che arrivano da Olanda, Belgio, Stati Uniti e Svizzera.

L’85 per cento delle compravendite riguarda appartamenti, mentre il 15 per cento ville o case indipendenti. Il 14 per cento delle transazioni si riferisce a immobili sotto i 250 mila euro, il 60 per cento a proprietà con prezzo compreso tra 250 e 500 mila, il 3 per cento a immobili tra 501 mila e un milione di euro e ben il 23 per cento a immobili sopra il milione di euro, quasi un quarto del totale.

Il 75 per cento degli acquirenti compra per investimento, garantendosi un’ottima rendita economica derivante spesso da un affitto turistico che si attesta all’8-10 per cento lordo. Solo un quarto decide di comprare per uso privato. Esiste quindi già una speculazione esterna anche per quanto riguarda lo sfruttamento degli appartamenti a fini turistici

Una delle aree più richieste è Dorsoduro, dove i prezzi variano da circa 5.500 a 7 mila euro a metri quadrati fino ad arrivare a picchi di 12 mila per proprietà esclusive sul Canal Grande. Anche l’area di San Polo, pur essendo la meno estesa, è una delle più interessanti vista la sua centralità. I prezzi variano da circa 4 mila a 5.500 euro a metri quadrati, fino ad arrivare anche a 9 mila euro a metro quadro.

A San Marco, invece, il vero cuore della città, i prezzi oscillano tra 4.500 a 6 mila euro a metro quadro fino a un massimo di 10 mila euro per le proprietà più esclusive.

I prezzi sono leggermente più bassi nella zona di Cannaregio dove si possono trovare alcuni dei piani nobili più prestigiosi della città ma anche graziosi pied-a-terre. La zona dei Santi Apostoli viene apprezzata invece per la maggiore tranquillità. Qui i costi variano dai 4 mila ai 5 mila euro a metro fino a 9 mila per gli immobili più grandi affacciati sul Canal Grande.

La visione fallocratica della città, conveniente per gli affari, trova facili sponde nel governo della gronda lagunare di Venezia. La Nuova Venezia, 27 giugno 2016

Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione».

Riparte il dibattito. Un tema, quello della cittàche cresce in altezza, che affascina anche se non è nuovo: già nel 2008 con lademolizione dell’ex ospedale di Mestre l’aveva lanciato l’allora sindacoCacciari. In gioco è la città che vogliamo.

Le aree indicate. Brugnaro, laureato in architettura,nel suo piano indica un futuro di densificazione e incremento volumetrico peril centro di Mestre. Dove? Si fa generico riferimento al centro (piazzaFerretto verso via Piave, via Cappuccina e la stazione ferroviaria), poil’ambito di via Torino e via Ca’ Marcello e la prima zona industriale di PortoMarghera, quella più vicina a Mestre alla Città Giardino.

Il Quadrante cambia confini? Rientra nellosviluppo in altezza anche il Quadrante di Tessera, l’area per il divertimento ei nuovi impianti sportivi (leggi stadio). Pare di intuire che la giuntaBrugnaro andrà a modificarne confini e previsioni visto che nel piano si leggeche «le previsioni localizzate del precedente accordo di programma potrannoessere riviste, interessando anche le aree poste in adiacenza o alternative alperimetro iniziale». Vedremo se il piano si rivelerà decisivo per rilanciare lacittà o rimarrà un libro dei sogni: intanto in Consiglio comunale è scontropolitico sui "terreni d'oro".

Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione.

Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness.

L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco nonc ambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre quattro di Metroter (Aev Terraglio).

Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. La Confesercenti si è già pronunciata contro.

postilla
Chissà quando hanno smarrito la capacità di ragionare le persone che propongono, discutono e raccontano i demenziali progetti che questo articolo diligentemente allinea. Chissà come mai a tutti sfugge che, per ogni metro quadrato di superficie calpestabile che si aggiunge a quelli esistenti, bisognerebbe averne una quantità considerevole (almeno doppia) di spazi liberi a terra. Ma la vivibilità è qualcosa che serve solo alla retorica che si adopera per imbellettare gli affari immobiliati.

Mentre in città proliferano residenze turistiche e b&b abusivi ed esentasse, il sindaco fa sgomberare la casa dei senza tetto. La Nuova Venezia, 1 maggio 2016 (p.s.)

Marghera. Al "lavoro" accasciati per ore sui masegni di Venezia o lungo le strade di Mestre e poi a "casa", in tante approntate sotto il cavalcavia di Marghera: sono decine i mendicanti che affollano la città nelle ultime settimane, storie di degrado e miseria. Sulla base di un'ordinanza firmata dal sindaco Brugnaro, i vigili urbani sono intervenuti per sgomberare il campo abusivo.

Quattro tende da campeggio, una decina di materassi e tanti altri rifiuti da riempire un autocarro intero: la nuova operazione antidegrado è stata portata a termine tra giovedì e venerdì 29 aprile dalla sezione Pronto intervento della Polizia municipale, che ha smantellato cinque accampamenti di questuanti romeni, collocati sotto i cavalcavia di via Rizzardi e via della Pila, nella zona di Marghera.

Le operazioni sono state condotte da una squadra antidegrado, composta da quattro operatori della Polizia Municipale, da personale specializzato di Veritas e da una ditta di fabbri fatta intervenire dal Comune per ripristinare le barriere elettrosaldate anti intrusione.

Durante l’intervento sono stati rimossi giacigli, viveri, materassi e tanto altro materiale. Nella zona della ferrovia sono stati anche sgomberati, previa identificazione, quattro questuanti di nazionalità rumena e i loro giacigli.

Le operazioni di sgombero, sono state effettuate sulla scorta di un’ordinanza di rimozione firmata dal sindaco ed emanata sulla base dei rapporti redatti dagli operatori della Sicurezza urbana incaricati dell'attuazione del programma di rigenerazione urbana "Oculus".

I dati sulle presenze dei senza tetto accampati nella zona industriale tra Mestre e Marghera sono stabili da anni e l'esecuzione di frequenti sgomberi da parte della Polizia Municipale ha finora efficacemente contrastato l'insorgere di stabili e vasti accampamenti abusivi. Il programma Oculus proseguirà con intensità anche nelle prossime settimane.

Due piccole storie che gettano un po' di luce sulla faccia nascosta della città, sempre più ridotta ariserva per i ricchi del mondo e artefatta vetrina dei residui di una bellezza che fu. La Nuova Venezia, 11 marzo 2016

IL COMUNE DI VENEZIA DICE "STOP"
AGLI AIUTI AI SENZA FISSA DIMORA

Contratto scaduto, ieri ultimo giorno per gli operatori delle cooperative Caracol e Gea: cancellati 34 posti letto al Rivolta

MESTRE. Giovedì è stato l'ultimo giorno di lavoro per il progetto “Senza dimora” degli operatori delle cooperative Caracol e Gea: una quindicina di operatori della Caracol sono andati per l’ultima volta in strada tra i senza fissa dimora della stazione di Mestre. Hanno distribuito bevande e coperte e salutato tutte le persone che hanno collaborato in questi anni per l’emergenza “inverno”. Sono scaduti i cento giorni, previsti da contratto e il futuro servizio sarà affidato con un bando pubblico, promette la giunta Brugnaro. Nel frattempo al posto delle cooperative si utilizzeranno i comunali.

Ultimo giorno ieri anche per la cooperativa Gea al centro diurno alla mensa di Ca’ Letizia, in via Querini «dove il servizio viene dimezzato», denuncia il consigliere comunale Nicola Pellicani (Lista Casson) che ha portato la questione in discussione in commissione con un’interpellanza: «Anche il servizio di assistenza legale, assicurato dagli avvocati volontari che si appoggiavano a Gea ora rischia di scomparire», spiega. Tra i primi contraccolpi di questa riorganizzazione c’è la riduzione del servizio docce. Il servizio veniva garantito ai clochard cittadini al Drop-In di via Giustizia due giorni la settimana, il mercoledì mattina e il venerdì pomeriggio. Ora un cartello avvisa che le docce sono aperte solo il mercoledì mattina, il giorno meno utilizzato dai clochard cittadini. A qualcuno può sembrare un problema di poco conto ma garantire una vita decorosa a chi vive in strada è il primo passo per evitare situazioni di degrado ben peggiori.

«È scaduto il contratto ma i senza fissa dimora hanno il diritto di lavarsi, che costituisce il minimo di solidarietà che un Comune deve saper garantire», avverte Pellicani. «Un servizio di assistenza tra l'altro che se non assicurato finirà per alzare i costi sociali del problema. «L'assessore alle politiche sociali aveva« garantito che gli stessi servizi sarebbero stati assicurati dal personale interno del Comune, ma come volevasi dimostrare ciò non è avvenuto. Iniziamo così tristemente a vedere gli effetti dei tagli al sociale applicati dalla giunta Brugnaro».

L'assessore Simone Venturini non ci sta a passare per un politico “senza cuore”. E rigetta ogni critica: «Sarà finalmente il Comune a gestire i servizi programmando attività di riscatto sociale e di uscita dalla strada», dice, prevedendo «collaborazioni con altri servizi dell’inclusione sociale. L’attività sulla strada sarà potenziata per far emergere dalla strada la gente e ci sarà anche un occhio di riguardo per gli abitanti delle zone che vivono situazioni di degrado. Il nuovo bando pubblico verrà pubblicato nel giro di due mesi».

Ma le Politiche sociali del Comune sono in subbuglio: ci sono altri tagli in corso, come quelli ai mediatori linguistici e culturali. «Nessun contraccolpo significativo ma piccoli risparmi sugli appalti in essere per evitare di intaccare sensibilmente i servizi», tranquillizza Venturini. Il Comune resta senza i 34 posti letto dell’accoglienza attivati dalla Caracol al centro Rivolta di Marghera e messi a disposizione in questi anni del Comune. E la Riduzione del danno, che si occupa di tossicodipendenza, ha ridotto le uscite degli operatori in strada».

PALAZZO DONÀ, “SFRATTATO”
LO SPORTELLO IMMIGRATI

Dopo la vendita per farne albergo, non c’è ancora una sede alternativa Il servizio segue 2 mila badanti. L’assessore Venturini: «Non lo smantelleremo»

VENEZIA. Che fine farà lo “Sportello Immigrazione” del Comune, apertura il giovedì pomeriggio negli spazi storici di palazzo Donà, in campo Santa Maria Formosa e centinaia di stranieri seguiti ogni anno, in particolare tra le badanti che lavorano a Venezia?

Gli operatori del servizio - tutti dipendenti comunali - sono in allerta da quando l’amministrazione ha annunciato la vendita del palazzo alla sua società Ive-Immobiliare veneziana per 4 milioni di euro, perché poi lo metta sul mercato con cambio di destinazione d’uso ad albergo. Tempi stretti, tanto che ai 17 assistenti sociali ospitati nello stesso edificio - sinora gestiti in autonomia dalla Municipalità, ma da qualche settimana avocati a sé dall’amministrazione - le Politiche sociali hanno già fatto sapere che entro giugno dovranno liberare gli uffici e trasferirsi negli spazi di campo Santa Margherita (non rinnovando l’affitto ad associazioni che avevano qui da anni la loro sede, come Il Granello di Senape e Ambiente Venezia). Agli operatori dello Sportello Immigrazione, sinora, nessuna comunicazione: silenzio. E loro temono la chiusura dello sportello in centro storico.

Il servizio ha un nome complesso - "Servizio immigrazione e Promozione dei diritti di cittadinanza e di asilo" - che si traduce in un'attività precisa: uno sportello al quale gli stranieri che vivono, lavorano, studiano nel Comune si rivolgono per avere informazioni sul rinnovo del permesso di soggiorno, il riconoscimento dei titoli di studio, l'inserimento scolastico dei bambini, l'assistenza sanitaria, i contributi. Mille gli accesi ogni anno. Due le sedi: in via Verdi 36 a Mestre (apertura il martedì) e, sinora, a Venezia a palazzo Donà, sin dagli anni Novanta, apertura il giovedì pomeriggio dalle 14.30. Orario della pausa pranzo delle badanti (2 mila nella città storica) che a Venezia sono le utenti principali del servizio.

Dal Comune arrivano rassicurazioni. «Non c’è nessuna volontà di smantellare un servizio», la risposta dell’assessore Simone Venturini, «in questi giorni i tecnici dell’Ufficio Patrimonio sta individuando alcune soluzioni per vedere quali sono gli immobili disponibili. Il passo successivo sarà quello di valutare che tipo di servizio svolgono i dipendenti. Ovviamente, nel caso in cui venisse fuori che è strettamente legato al territorio, come quello delle badanti, si farà in modo di non spostarlo. Noi stiamo riorganizzando finalmente la macchina comunale per migliorarla. Teniamo presente che il sociale è completamente frammentato quindi questa è un’occasione per fare meglio e non per peggiorare. Fino a una nostra comunicazione, tutto prosegue come prima in modo da non creare confusione tra le persone». (r.d.r.-v.m.)

C'è da vergognarsi di essere cittadini di una città che di fronte alla privatizzazione, mercantilizzazione, stravolgimento totale di un bene come il Fòntego dei Tedeschi discetta oggi sul colore delle finiture, ma ha rinunciato a scendere in piazza quando il fatto é accaduto. La Nuova Venezia, 3 febbraio 2016

Si comincia a scoprire il nuovo Fontego dei Tedeschi e fanno già discutere i nuovi infissi dorati delle finestre del cinquecentesco edificio destinato a essere riaperto il primo ottobre come un grande magazzino del lusso gestito dal gruppo francese Dfs. In questi giorni è iniziata infatti la scopertura delle facciate del palazzo e sono apparsi così i nuovi serramenti che assomigliano per il colore all’alluminio anodizzato vietato a Venezia ma che sono invece di ottone brunito, autorizzato dalla Soprintendenza. Lo stesso tipo di materiale è stato già infatti utilizzato dall’architetto Alberto Torsello - che dirige i lavori di ristrutturazione per l’impresa Sacaim, con la committenza di Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria del palazzo e in base al progetto di Rem Koolhaas per lo Studio Oma - anche per i grandi finestrini nella nuova ala delle Gallerie dell’Accademia e per quelli della Scuola Grande della Misericordia. Infissi che secondo i progettististi si armonizzerebbero perfettamente con lo spazio circostante e presenterebbero il vantaggio di resistere nel tempo alle aggressioni dell’ambiente marino tipico della laguna veneziana.

L’effetto di queste decine di serramenti nuovi e dorati sui quattro lati del Fontego, desta però più di una perplessità, ad esempio anche su Facebook secondo quanto registrato dal sito Venessia.com. Molti li hanno appunto scambiati per infissi in alluminio anodizzato, perché l’effetto visivo è molto simile. È perplesso anche il professor Amerigo Restucci, già rettore dell’Iuav e storico dell’architettura e del paesaggio. «In effetti il confine tra l’alluminio anodizzato e l’ottone brunito sul piano visivo è molto labile » commenta -«e mentre nel caso delle Gallerie dell’Accademia e della Misericordia era usato per pochi finestroni e molto grandi, qui compare in decine e decine di finestre, influendo pesantemente sull’effetto complessivo dell’edificio. Proviamo a pensare se in tutta Venezia gli infissi venissero sostituiti progressivamente con questo tipo di materiale, cambierebbe l’aspetto della città. Forse anche la Soprintendenza dovrebbe riflettere meglio su questo aspetto».

L’altra novità comparsa sul Fontego è il ballatoio metallico, anch’esso dorato e quindi probabilmente anch’esso in ottone brunito comparso sul tetto, con la ringhiera che delimierà quindi l’area della terrazza-belvedere che tanto aveva fatto discutere prima del via libera definitivo. Anch’essa, naturalmente, destinata a suscitare molte discussioni. Il cantiere del Fontego dei Tedeschi per la ristrutturazione proseguirà sino a fine marzo. Poi subentreranno alla Sacaim e a Edizione, gli architetti e le maestranze di Dfs, per gli allestimenti, in vista dell’apertura di ottobre.

Riferimenti
Sulla vicenda si veda su eddyburg di Paola Somma La lezione del Fontego dei tedeschi, di Francesco Erbani L’odissea veneziana del Fontego dei Tedeschi tra pubblico e privato, di Paolo Lanapoppi Fontego dei Tedeschi, accettati tutti gli oltraggi, di Salvatore Settis Quel centro commerciale che ferisce Venezia. La strategia di occupazione concertata (con i sindaci veneziani, da Massimo Cacciari a Giorgo Orsoni) è documentatamente raccontata da Paola Somma nel saggetto Benettown, un ventennio di mecenatismo, edito da Corte del fontego editore, nella collana "Occhi aperti su Venezia". La vicenda del Fontego dei Tedeschi è narrato, nella medesima collana, dal libretto di Lidua Fersuoch, Il nostro Fontego dei Tedeschi.

Dove le pietre e il popolo sopravvissuti raccontano (per quanto ancora?) storie antiche dove segregazione e integrazione, repressione e convivenza, potere e pubblica utilità s'intrecciano. La Repubblica, 24 gennaio 2016

UNA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Cannaregio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, gelida, galleggia sui tetti sul lato dell’isola di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Guglie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un sotopòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una locanda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristiani. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il campo disseminato di coriandoli di Carnevale.

Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a raccontare la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagonale che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaramantico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.

Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esistevo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano “ Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla tedesca, con la “ Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofobico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a confronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di promissione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di profondamente diverso da ciò che divenne quando l’idea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’antigiudaismo della Chiesa, producendo lo sterminio.

In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei reticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Venezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Serenissima, sia pure attraverso una maniacale separazione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Parlarne solo come segregazione non è corretto», osserva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Boringhieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo attraverso i legami millenari della Diaspora, ed è anzi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Europa, Nord Africa e Medio Oriente.

Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che girassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhominevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 marzo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di mandare “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un castello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandiva i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’isolotto “per garantirne la sicurezza”.

Detto e fatto; Le case dell'isola furono svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i confini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.

Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano.

Il Ghetto era dunque un modello di costrizione, ma condiviso in misure diverse anche da tedeschi, armeni e in particolare dai turchi. Accusati di fare “cose turche” (qualcosa di simile alla recente aggressione delle donne di Colonia), il loro fondaco era sigillato da guardiani di provata discendenza cristiana, e addirittura diviso fra albanesi e costantinopolitani. «I medici ebrei erano apprezzati più degli altri», ricorda Riccardo Calimani, discendente di abitanti del Ghetto e storico dell’ebraismo italiano. Se gli chiedi perché, ti risponde con un lampo azzurro ironico dietro palpebre a fessura. «Non attingevano alla teologia come gli altri — ghigna — guarivano il corpo e non l’anima», e spiega che per questo essi avevano una deroga sulle ore di “coprifuoco”, e potevano uscire dal Ghetto a qualsiasi ora per le chiamate d’emergenza.
E che dire dell’ebreo Daniel Rodriguez che, pochi anni dopo il 1516, venne incaricato dalla Repubblica di costruire la dogana di Spalato, base commerciale sulla costa dalmata sotto controllo veneziano. O di Jakob Sarava, che nel Settecento può andarsene in missione ad Amsterdam per conto della comunità. Il Ghetto di Venezia non era quello di Varsavia del Novecento. Praticamente, una repubblica nella repubblica.

C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono sistemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall’impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marrani”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conservarono, si dice, l’alterigia degli “ Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.

« Šnaim yeudin shalosh batei a kneset », due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombelico di un mondo — la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.

A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. « Orsài », commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. « Zuca baruca », zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela — un po’ come a Trieste — l’intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. “ Fare un Tananàì”, fare un Quarantotto. “ No darme Giaìn”, non darmi vino scadente. “ No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “ Tevinà”, il sesso femminile, la quale “ ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “ El traganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.

La vita di Calimani è segnata dall’Olocausto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.

«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un’esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue...». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, “ Chatzer”, che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.

«Dopo gli arresti per il Mose, nel 2014, tutto si è fermato: ne fanno le spese gli abitanti della laguna. Tutti i dati nel report della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti: area senza "cintura di sicurezza", "varchi" nei terreni fanno passare il percolato inquinante». Il manifesto, 24 gennaio 2016

Oltre un miliardo di euro: è la rigenerazione, ancora incompiuta, di Portomarghera. L’emblema dell’inquinamento criminale della laguna, ma soprattutto il simbolo di un sistema che metabolizza risorse a senso unico e paralizza Venezia.

Le bonifiche si sono impantanate fra eredità del Consorzio Venezia Nuova, intoppi istituzionali o burocratici, opere cruciali inesistenti, controlli a vuoto e contabilità infinita. Sintetizza Gianfranco Bettin, ex assessore all’ambiente ora presidente della municipalità di Marghera: «Purtroppo da giugno 2014, quando scoppiò lo scandalo Mose con i primi arresti, tutto si è fermato. E non si è pensato nemmeno di trovare tecnici preparati, come Giovanni Artico arrestato ma poi assolto con formula piena. Ora è più che mai necessaria un’azione di Comune e Regione per far uscire dallo stato di paralisi in cui si trova il processo di risanamento ambientale e di rigenerazione economica e occupazionale di Porto Marghera. Altrimenti non si avranno argomenti per far investire, come Eni sulla chimica verde».

L’istantanea spietata quanto inquietante è contenuta nelle 54 pagine della relazione stilata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. In sostanza, la maxi-operazione di risanamento ambientale effettuata a Portomarghera diventa inutile senza la “barriera protettiva” con palancolati e marginamenti delle macroisole. I terreni inquinati necessitano di una “cintura di sicurezza” per proteggere la laguna, ma l’anello della bonifica è infarcito di «buchi». Proprio dove spuntano le tubature di Edison, Syndial, Sapio-Crion o l’oleodotto e l’impianto antincendio della Ies di Mantova. Segmenti dai 20 agli 80 metri quadri tuttora non censiti in funzione dell’ultima fase di lavori.

“Varchi” che mettono a repentaglio quanto già realizzato, perché non bloccano il percolato con sostanze come arsenico, mercurio, nichel. È il “colabrodo” lungo i 50 chilometri di palancole metalliche, conficcate fino a 22 metri di profondità: l’indispensabile isolamento di Portomarghera per trasferire gli inquinanti fino al depuratore di Fusina.

Nicola Pellicani, di fatto il portavoce del centrosinistra in consiglio comunale, sottolinea: «Ho appena presentato una mozione al sindaco Brugnaro per convocare in tempi rapidi un tavolo di confronto. Partendo dal definitivo marginamento di tutta l’area industriale. Sono già stati spesi 781 milioni. Per la conclusione mancano circa 3,5 km di rifacimento sponde, pari al 6%: un investimento di altri 256 milioni. Se non sarà completato, sarà tutto inutile».

Finanziamenti che spettano al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche (100 milioni), Regione (80 milioni) e dell’Autorità portuale di Venezia (altri 70). Ma c’è da controllare bene il capitolo delle spese. A cominciare dai collaudi che potrebbero lievitare fino a due milioni, per di più un’uscita senza senso: «rappresentano un mero sperpero di danaro pubblico» sentenzia la commissione parlamentare d’inchiesta.

Tutti collaudi cantiere per cantiere: perfettamente inefficaci «se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita». Ma rappresentano ghiotti benefit per i dirigenti regionali Roberto Casarin o Mariano Carrarto, ex capi di gabinetto del ministero dell’ambiente come Luigi Pelaggi o direttori generali dello stesso ministero come Mauro Luciani, dirigenti del Magistrato alle acque di Venezia (Maria Adelaide Zito), ex del ministero dell’Ambiente (Ester Renella) e membri della Commissione Via (Monteforte Specchi Guido e Fernanda D’Alcontres Stagno).

Del resto, anche gli appalti della maxi-bonifica meriterebbero più attenzione. Il Provveditorato interregionale, come conferma il dossier della commissione parlamentare, «non ha mai esercitato né esercita tuttora alcun effettivo controllo sia sul sistema di assegnazione da parte del Consorzio dei subappalti relativi al Mose e alle bonifiche, sia sulla congruità dei corrispettivi dati alle ditte subappaltatrici».

Dunque, il “sistema Cvn” continua a funzionare come prima. Il deus ex machina del Mose Giovanni Mazzacurati è a San Diego; il “doge” Galan e l’ex assessore Chisso sono alle prese con la magistratura; l’ex ministro Clini tace da mesi travolto da un altro faldone giudiziario; Piergiorgio Baita è stato sostituito alla Mantovani Spa dall’ex questore Carmine Damiano; il “giro” di Legacoop ha rimodulato le referenze nel Pd. Tuttavia, in laguna la lobby delle grandi e piccole opere pubbliche sembra inossidabile grazie all’omesso controllo di legalità, che non riguarda solo la Procura della Repubblica…

Arduo consolarsi con gli annunci sull’iter dei 23 progetti che valgono 153 milioni in base all’accordo di programma sottoscritto l’8 gennaio 2015 da Mise, Regione, Comune e Porto. Quest’anno dovrebbe scattare la bonifica dell’area Syndial (107 ettari), almeno così promette l’assessore regionale Roberto Marcato: «Si sta procedendo con la appena costituita società Mei Spa partecipata al 50% da Regione e Comune, entrambi attraverso società in house. Il rogito è datato 11 dicembre 2015 e la prima attività sarà la stesura — indicativamente nel prossimo quadrimestre — del business plan che indichi i termini finanziari e procedurali della manovra. A ruota, dovrà ottenere la volturazione dei decreti ministeriali di approvazione delle attività di bonifica (intestati a Sindyal): c’è di mezzo il ministero dell’Ambiente. Auspicalmente nella seconda metà del 2016, Mei Spa potrà iniziare ad attivare le operazione di bonifica e recupero funzionale delle aree».

A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. Il Fatto quotidiano, blog di Manlio Lilli, 18 gennaio 2016

“Ca’ Corner della Regina, costruito tra il 1723 e il 1728 da Domenico Rossi per conto della famiglia dei Corner di San Cassiano, è un palazzo veneziano situato nel sestiere di Santa Croce e affacciato sul Canal Grande. Dal 2011 diventa la sede veneziana della Fondazione Prada che ha presentato finora in questi spazi cinque mostre di ricerca, in concomitanza con il restauro conservativo del palazzo che si sta attuando in più fasi”.

La Fondazione Prada sul suo sito non spende molte parole per una questione che si è protratta per anni. Una questione, come troppo spesso accade, nella quale le risorse (ottenute da più che discutibili alienazioni) e gli interessi (del presunto mecenate) hanno giocato un ruolo fondamentale. Fin dagli inizi. Chiare le condizioni poste nell’offerta di acquisto da parte della società Petranera srl, una controllata del gruppo Prada. Utilizzo immediato a destinazione residenziale “degli spazi del sottotetto, del piano terzo e del piano secondo, quali unità autonome e indipendenti dalle restanti porzioni dell’immobile, con la possibilità di accesso indipendente anche mediante utilizzo/completamento delle attuali strutture poste nella parte retrostante dell’immobile (scala e ascensore)” e “utilizzo del piano terra, del piano primo ammezzato, del piano secondo ammezzato e del piano primo nobile a destinazione residenziale”. Chiedersi come Prada potesse avanzare queste proposte per unpalazzo dichiarato di interesse culturale dal 2009 è un semplice esercizio retorico. Una domanda pleonastica. La risposta sta, evidentemente, nei 40 milioni offerti a un’amministrazione comunale in affanno a far quadrare i bilanci.
Comincia il sindaco Orsoni

“Sono soldi essenziali per il nostro bilancio”, dicevaGiorgio Orsoni, sindaco di Venezia, alla fine di dicembre 2011, con la delibera sulla Variante urbanistica appena approvata dal Consiglio Comunale. Il vincolo sull’immobile posto dagli uffici della Soprintendenza, annullato, almeno in parte, dal direttore regionale Ugo Soragni. Al posto di divieti assoluti una serie di prescrizioni. A partire dal rispetto della compatibilità residenziale e dell’uso pubblico, soprattutto nell’utilizzo del sottotetto, del mezzanino e parzialmente dei piani secondo e terzo dell’edificio. E la possibilità per il pubblico di visitare gli spazi restaurati fino a un massimo di 80 giorni l’anno con un calendario preciso. Deciso e approvato nonostante le diverse criticità denunciate dalla sede veneziana diItalia Nostra(file:///C:/Users/Orange%20Eyes/Downloads/Corner%20Alienazione.pdf). Quel che succede dopo lo si può leggere ancora sul sito della Fondazione.

“Il restauro conservativo di Ca’ Corner della Regina, promosso dalla Fondazione Prada dalla fine del 2010 in linea con le direttive della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e della Laguna, si sta attuando in più fasi. La prima, conclusasi nel maggio 2011, ha previsto interventi di messa in sicurezza delle superfici di pregio artistico e architettonico, il rilievo di tutte le parti impiantistiche incoerenti, la manutenzione dei serramenti lignei, l’eliminazione delle partizioni non originarie e il recupero degli spazi destinati a uffici e servizi. Per quanto riguarda gli apparati decorativi, sono stati messi in sicurezza affreschi, stucchi e materiali lapidei che ornano il portego e le otto sale del primo piano nobile del palazzo. Questi lavori consentono nel giugno 2011 l’apertura al pubblico del piano terra, del primo e secondo mezzanino e del primo piano nobile di Ca’ Corner della Regina”.

Evviva, verrebbe da dire. La lente del pregiudizio ha viziato la lettura iniziale. Venezia acquista uno spazio per l’arte internazionale. Ed è così. Ma accanto alle sale attraversate dai visitatori, ci devono essere anche parti “riservate”. Insomma appartamenti. E’ stabilito nel contratto. Per questo rimangono a lungo in sospeso 8 dei 40 milioni di euro. Miuccia Prada deve avere certezza di poter riposare nel palazzo che dal 1975 al 2010 è stato sede dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee. La Direzione Generale dei Beni Culturali si oppone alla destinazione residenziale ritenendola incompatibile con le caratteristiche storiche del Palazzo e con il mantenimento di un suo uso pubblico. E’ così fino a ottobre 2015.

Prosegue la soprintendente Codello

Poi cosa succede? Al Ministero ci si accorge che il pregio del palazzo non è in fondo così grande? Certo che no! Semplicemente cambia il Direttore generale per i Beni culturali del Veneto. Al posto di Ugo Soragni ecco Renata Codello. Et voilà! L’architetto, prima di beneficiare del trasferimento a Roma, alla Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio della Capitale, autorizza la destinazione residenziale. Riconfermata con l’autorizzazione definitiva del Ministero dei Beni Culturali a fine novembre. Così il Comune rilascia alla Petranera srl il permesso di costruire. Il secondo piano nobile resterà ad uso museale fino alla fine del dicembre 2019. Dopo diventerà ad uso residenziale. Il terzo piano, accanto alla destinazione museale, avrà quella residenziale, mentre nella mansarda verrà ricavato un appartamento. In aggiunta, l’attuale ascensore che serve i frequentatori delle esposizioni verrà sostituito da uno nuovo, interno, a servizio esclusivamente dell’appartamento.

A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. A Ca’ Corner, dove si sperimenta da anni l’alienazione del patrimonio pubblico, il nuovo modello-Italia sembra giunto al suo epilogo. Finalmente, svelandosi in maniera completa. Dopo alcuni tentativi falliti. Lo Stato è un moribondo da sostituire e non da affiancare. Quindi spazio ai nuovi mecenati. Poco importa se esigono un appartamento nel palazzo restaurato. I nuovi Signori sono loro.

«Villa Hèrion alla Giudecca, Palazzo Donà, la Poerio e la Favorita. A Mestre l’ex scuola Manuzio, l’ex terminal di Fusina e il parcheggio Candiani. Una mappa per navigare tra le vendite degli ultimi 10 anni». Nella mappa dinamica tutte le immagine degli immobili già sottratti ai beni pubblici e comuni, 23 novembre 2015

VENEZIA. Un piano che vale, su tre anni, dal 2015 al 2017, 82 milioni di euro. Valore economico orientativo visto che i precedenti piani delle passate amministrazioni non hanno fruttato granché.

Ma anche la giunta Brugnaro punta sulle alienazioni con varie novità inserite nell’assestamento di bilancio triennale di cui si discute in queste ore. Nel piano ci sono novità che allarmano. La Municipalità di Venezia si è già messa di traverso con Andrea Martini perché nel piano si chiede di mantenere l'alienazione per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo ma vengono aggiunti anche Palazzo Donà a S.Maria Formosa e soprattutto villa Herion alla Giudecca e scatta il timore, dice Martini, che l’operazione apra la strada, in cambio di un temporaneo beneficio di bilancio, all’apertura di nuovi alberghi. Entro fine anno dovrebbe essere venduta la vendita dell’ex palazzina Telecom del Lido di Venezia.

Negli ultimi dieci anni sono decine i palazzi già sedi di scuole, uffici pubblici, aule universitarie venduti per fare cassa, con operazioni anche molto discusse: dal Fontego dei Tedeschi all'ospedale al Mare, da Ca' Corner della Regina all'ex Pilsen, come racconta questa mappa attraverso la Venezia messa in vendita pezzo a pezzo (qui il link diretto alla mappa , da sviluppare con le segnalazioni dei lettori)

«La polemica non si placa. Crovato (Lista Brugnaro): “Atto dovuto, il Tar ci darebbe torto”. L’urbanista Stefano Boato: “È una scelta politica, le norme in vigore consentono di dire di no”» La Nuova Venezia, 29 ottobre 2015 (m.p.r.)

Venezia. I cambi d’uso non si fermano. E in consiglio comunale stanno per arrivare due nuove delibere proposte dalla giunta che consentono di trasformare in pezzi di hotel appartamenti finora abitati da famiglie di residenti. La municipalità di Venezia-Murano-Burano ha dato parere negativo. La commissione urbanistica ha dato il via per la discussione in consiglio comunale, nonostante il parere negativo delle opposizioni (Lista Casson, Pd e Movimento Cinquestelle).

«Atto dovuto», si sono giustificati i consiglieri di maggioranza, in testa il capogruppo della Lista Brugnaro Maurizio Crovato e il vice Renzo Scarpa. «Dal punto di vista etico la Municipalità ha ragione», dice, «ma il Tar non avrà la nostra visione politica e le carte danno ragione ai richiedenti. E poi sono accorpati da anni agli alberghi. Dal 2010 al 2014 il Comune ha concesso 2950 cambi d’uso».

«Ma non è vero», replica l’ex assessore all’Urbanistica e capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi, «la gran parte di quegli atti non c’entrano con questo discorso. Sono errori tecnici che sono stati corretti». Fatto sta che i primi due atti portati in commissione Urbanistica dall’amministrazione Brugnaro riguardano la trasformazione di due appartamenti in hotel o loro depandance. Uno al ponte delle Guglie, secondo piano di un palazzetto dove ha sede l’hotel Biasin. L’altro in calle delle Rasse, tre appartamenti adiacenti all’hotel Danieli. Davvero un atto dovuto? L’articolo 21 delle norme Tecniche di Attuazione allegate alla Variante del Piano regolatore prevede che gli appartamenti con superficie inferiore ai 120 metri quadrati siano vincolati a residenza. Ma la stessa norma prevede anche la «scappatoia». «Nelle unità edilizie dove i due terzi della superficie abbiano destinazione diversa da quella abitativa può essere eccezionalmente autorizzato il mutamento d’uso delle parti restanti dell’edificio». Serve il parere della Commissione scientifica e il parere favorevole del Consiglio comunale.

Ma si tratta comunque di una “possibilità”, non di un obbligo. La prova è che non è un provvedimento firmato dai tecnici ma di una delibera. «È così», dice Stefano Boato, urbanista ed ex assessore all’Urbanistica, «volendo quella norma può essere cambiata in due minuti. Fino al 1997 vincolava tutti gli immobili usati come residenza, non solo quelli affittati. Poi le cose sono cambiate, ma la possibilità di intervenire c’è ancora. È una scelta politica, e stiamo parlando del problema più importante per la città storica: fermare l’esodo degli abitanti. Lo diciamo a parole da anni, ma non si fa».

Un momento cruciale per garantire alla collettività la tutela e la fruizione, aperta all'universo mondo, di un eccezionale bene, che oggi rischia di tessere trasformato in un ghetto per ricchi. In calce un dossier da non perdere, e un appello cui aderire.

Il dossier introdotto da queste note vuole far conoscere le vicende attuali dell’isola veneziana di Poveglia, che l’Agenzia del Demanio ha inserito tra i beni dello Stato da dismettere per essere dati in concessione o venduti a privati. Al fine di impedire tale privatizzazione e nel contempo riscattare l’isola dall’abbandono e dall’incuria in cui l’hanno lasciata gli enti che avrebbero dovuto amministrarla, si è costituita l’Associazione Poveglia per tutti: un coraggioso tentativo di cittadini interessati alla difesa dei beni comuni che ha avuto grande risonanza in Italia e all’estero.

Già il nome definisce completamente gli obiettivi della Associazione: mantenere l’isola aperta e disponibile alla fruizione di tutti, ovvero dei cittadini che già oggi la frequentano e anche di coloro che amano Venezia e possono conoscere, attraverso Poveglia, le straordinarie risorse della sua Laguna. Dunque né privatizzazione né gestione “pubblica”, entrambe fallimentari perché finalizzate unicamente a far cassa. Si tratta di perseguire davvero una via diversa: quella della comunità che si riappropria del territorio e torna a viverlo come bene collettivo, uno straordinario terreno di rafforzamento del potere dei cittadini.

I fatti sono questi. L’Associazione, si è data uno statuto fondato sulla sostenibilità e la partecipazione, radicalmente innovativo ed interessante, in brevissimo tempo l’Associazione ha ricevuto un notevole numero di iscrizioni (circa 5000 persone) e ha raccolto in un fondo di scopo una somma ragguardevole (circa 450.000 euro) vincolata agli interventi di riqualificazione e manutenzione delle aree verdi di Poveglia. Se entro il 2015 l’Associazione non avrà ragionevoli prospettive di poter intervenire su Poveglia il fondo di scopo sarà restituito ai soci. Con evidente danno per Poveglia e per la collettività tutta.

Al fine di poter intervenire nell’isola l’Associazione ha avanzato alla Agenzia regionale del demanio una domanda di concessione per un periodo di sei anni durante i quali realizzare un programma di sistemazione delle aree verdi, miglioramento degli approdi, pulizia e manutenzione delle aree scoperte e messa in sicurezza con divieto di accesso delle aree costruite a rischio di crolli. Si tratta di un programma serio, nel quale impegnare i fondi raccolti ma soprattutto il lavoro volontario dei moltissimi soci che hanno messo a disposizione le loro competenze, il loro tempo e la loro voglia di trovarsi insieme. Ad oggi la risposta dell’Agenzia è stata dilatoria e sostanzialmente negativa.

Dunque il momento è assolutamente cruciale: occorre convincere l’Agenzia a dare in concessione le parti verdi dell’isola entro il 2015. L’Associazione si è mobilitata su molti fronti: dalla campagna “Ocio che rivo” dove una giraffa (animale che nel 1828 effettivamente soggiornò in quarantena a Poveglia sulla strada verso l'imperatore d'Austria e che destò grande stupore ed entusiasmo nella Venezia dell'epoca) catalizza l’attenzione sui fatti di Poveglia, alla raccolta di firme, alla informazione capillare sui social network e sui mezzi di comunicazione, alla sollecitazione dell’Agenzia del demanio perché consideri tutti i lati positivi, anche nelle logiche dell’Agenzia, della concessione a Poveglia per tutti.

Abbiamo bisogno della simpatia e del sostegno di tutti. Il dossier aiuta a far conoscere la vicenda, racconta i momenti essenziali della formazione dell’Associazione e dei suoi difficili rapporti con il Demanio. Il caso di Poveglia è inquadrato nel più generale problema delle isole veneziane, strette nella morsa tra privatizzazione e abbandono. Un quadro fatto dalla storia delle isole della Laguna già passate in mano a privati, per lo più trasformate in alberghi di lusso e sottratte all’uso pubblico, e dalla storia delle moltissime altre isole demaniali abbandonate all’incuria e al degrado. Compresa Poveglia da decenni consegnata all’ammaloramento, al saccheggio e allo sviluppo incontrollato della vegetazione dei rovi e delle specie invasive.

Se tutti insieme riusciremo a fare in modo che l’Associazione abbia la titolarità di una concessione dell’isola sarà un vantaggio per Venezia e per l’Italia, dove si vanno moltiplicando le iniziative dei cittadini per il mantenimento dei beni demaniali all’uso pubblico, al quale sono strutturalmente destinati. Tutti i livelli di governo a parole dichiarano, oggi, di voler promuovere le iniziative a favore dell’interesse pubblico che partono dal basso, dai cittadini e dalla loro voglia di coesione sociale. Poveglia è una occasione straordinaria per passare dalle parole ai fatti.

Se potremo realizzare gli interventi, la solidarietà collettiva, le iniziative culturali di cui è fatto il progetto di Poveglia per tutti saremo riusciti a non disperdere un prezioso capitale sociale, a costruire un rapporto tra cittadini e istituzioni all’altezza dei tempi e a realizzare concretamente la sola autentica valorizzazione economica e sociale dei beni pubblici: quella messa in atto dai cittadini e dalle loro relazioni.

Riferimenti

Questo collegamento vi permette di scaricare il dossier riccamente illustrato, prodotto dall'Associazione. Vi invitiamo inoltre a votare il progetto "Poveglia per tutti” che è tra i 40 progetti selezionati tra 700 presentati in tutt’Italia dal bando “CheFare”. Qui trovate il progetto, qui potete votarlo, e vi invitiamo a farlo.
Potete anche firmare qui la petizione “Perché l'Isola di Poveglia rimanga pubblica e ritorni fruibile a tutti”
Su eddyburg abbiamo raccolto numerosi articoli sull'isola di Poveglia. Potete raggiungerli facilmente digitando la parola "Poveglia" nella cella sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente d'ingrandimento.

Sarebbe ora che l'Unesco assumesse le sue responsabilità. Ma: 1) Mose e grandi navi hanno amici all'Unesco. 2) a Brugnaro non glie ne può fregà di meno. La Nuova Venezia, 18 ottobre 2015

Lascia oggi Venezia la delegazione dei commissari dell’Unesco con esperti del Centro del patrimonio mondiale, dell’Icomos e della Convenzione Ramsar, che per cinque giorni è stata impegnata in un intenso programma di sopralluoghi e incontri, per valutare lo stato di salute della città dal punto di vista ambientale e monumentale, ai fini del suo mantenimento tra i siti Patrimonio mondiale dell’umanità. La missione terminerà nella redazione di un report che contribuirà alle successive valutazioni degli organismi Unesco.

Il prossimo appuntamento in cui, presumibilmente, si discuterà del caso, sarà infatti l’annuale riunione del Comitato del patrimonio mondiale che si svolgerà in Turchia nell’estate 2016. Sarà in quella sede - dopo il preoccupato documento dello scorso anno, sui problemi ambientali, turistici e legati alle grande navi - che l’Unesco prenderà le sue decisioni sul caso Venezia, e c’è da temere.
L’area Unesco di Firenze ad esempio è stata appena messa “sotto osservazione”, per la mancata piena applicazione del piano di gestione del sito. Una decisione che è già stata presa per Venezia. La messa sotto osservazione è il primo dei tre livelli di “attenzione” previsti dall’Unesco». Il secondo step è la messa in mora, il terzo, l’espulsione dai luoghi sotto tutela. Uno degli ultimi incontri della delegazione Unesco è stato quello all’Archivio di Stato di Venezia su “Pressione turistica, conservazione e tutela”. promosso dal segretariato generale dei Beni culturali.

Grande feeling con Brugnaro, un’ora di faccia a faccia a porte chiuse. Il sindaco: "Ho grande fiducia, non ha fatto promesse ma ci aiuterà"». Dio prima li fa e poi li accoppia: in comune anche la cultura. La Nuova Venezia, 17 ottobre 2015

VENEZIA Il governo salverà Venezia. E il rilancio dell’Italia ripartirà dalla cultura [sic]. Il premier Matteo Renzi sbarca in laguna e offre l’assist al sindaco Luigi Brugnaro. «Non ci fa velo il risultato elettorale», dice, «il nostro ruolo istituzionale è di essere pronti e disponibili. Il governo farà la sua parte». Prima volta a Venezia dopo la campagna elettorale di primavera, in cui il Pd aveva sostenuto Felice Casson. Ma è andata diversamente da quello che il centrosinistra si augurava. E a Ca’ Farsetti adesso governa l’imprenditore Luigi Brugnaro. Che è riuscito dove non erano riusciti i suoi predecessori. E ha portato a Ca’ Farsetti, sede del municipio veneziano, il presidente del Consiglio per spiegargli l’emergenza Venezia. Oltre un’ora di incontro a porte chiuse. Poi Renzi affronta i giornalisti.

«Per risolvere il deficit del Comune lavoreremo insieme al sindaco. Non entro nel merito, per i dettagli c’è tempo». Brugnaro incassa e si apre in un grande sorriso: «Sono più fiducioso di ieri», dice, «il premier era molto preparato sulla nostra vicenda, ci ha ascoltato con attenzione. Non ha fatto promesse ma siamo molto soddisfatti». Il dossier consegnato dal sindaco di Venezia la settimana scorsa a palazzo Chigi nelle mani del sottosegretario Claudio De Vincenti prevedeva un pacchetto di richieste per affrontare la crisi del Comune e il rischio default.
Finanziamenti e modifiche del Patto di Stabilità ma provvedimenti strutturali come la possibilità di mettere tasse locali e di sbloccare crediti e burocrazia per il rilancio di Marghera. E i quadri che Brugnaro vuol vendere? «C’è una bella discussione tra Brugnaro e Franceschini, non mi voglio intromettere». «Cosa ci darà il governo? Non importa il colore del gatto, basta che prenda i topi», scherza Brugnaro visibilmente soddisfatto. Il saluto alla giunta schierata, poi oltre un’ora di colloquio nello studio rosso di Ca’ Farsetti con foto di rito sul balcone. Un fatto che non ha precedenti negli ultimi anni. L’ultimo premier a visitare Ca’ Farsetti era stato Romano Prodi ai tempi del sindaco Paolo Costa.
Renzi era arrivato a Tessera intorno alle 17 di ieri pomeriggio, mezz’ora di ritardo sulla tabella di marcia. In motoscafo a San Giobbe, accompagnato dal prefetto Cuttaia e dal sindaco, per visitare il nuovo «campus» universitario realizzato da Ca’ Foscari. Strutture industriali dismesse come l’ex Macello e il Molino Passuello che adesso vivono nuova vita. Il premier sbarca sulla riva e si offre per un selfie con gli studenti. «Ho incontrato un sangiobbino», racconta, «mi ha detto che qui c’era la sua casa. C’era in lui l’atteggiamento giusto: rimpianto, ma anche orgoglio per quello che questa zona è diventata».
«Ca’ Foscari è un esempio a livello mondiale», ha detto Renzi davanti ai professori schierati, in testa il rettore Michele Bugliesi, «l’Italia può diventare una superpotenza mondiale in fatto di cultura». Il sindaco parla del rilancio di una città in crisi. Cita il modello Boston, dove gli studenti vengono da tutta l’America e poi diventano i «nuovi abitanti» della città. «Così dovrà succedere per Venezia». «Che avrà sempre», gli fa eco il premier, «un valore straordinario ed evocativo. Non è soltanto lo scrigno del passato ma l’identità del nostro futuro». Renzi parla e scherza, riscuote consensi. Cita le riforme («Nessuno ci credeva e siamo all’ultimo miglio)», rassicura i docenti. «L’Università avrà risorse aggiuntive e non sostituive». Applausi. Poi a visitare il nuovo campus. Non soltanto aule ma verde, biblioteca e residenza universitaria. In prima fila anche i rettori che negli ultimi anni hanno contribuito a realizzare l’opera. Carlo Carraro, Pierfrancesco Ghetti, Paolo Costa, Giovanni Castellani.
Renzi si ferma ad ascoltare un professore che gli spiega come recuperare ore di insegnamento «a costo zero». Lo conosceva bene il premier? «No», risponde il professore, ma mi ha ascoltato con attenzione». È il Renzi style, che il presidente applica anche ai veneziani e agli studenti che incontra a San Giobbe. In serata il presidente si è spostato a palazzo Ducale per partecipare alla cena di gala nella Sala del Maggior Consiglio con i quaranta ambasciatori e ministri del’Onu. Tema, l’ambiente e l’innalzamento del livello dei mari.

Difficile tener conto delle prodezze di Luigi Brugnaro, sindaco pro-tempore di Venezia. L'ultima, la riprendiamo dal sito di Italia Nostra, 14 ottobre 2015, con postilla

Ispettori Unesco: le associazioni ammesse all’ultimo momento

Gli ispettori inviati dal dipartimento dell’Unesco dedicato ai siti Patrimonio dell’Umanità devono valutare se “Venezia e la sua laguna” (questo è il nome corretto del sito) siano gestiti in modo consono ai requisiti necessari per essere inseriti nella lista e mantenuti in essa, ossia se non vi siano “pericoli o minacce, imminenti o potenziali, che potrebbero avere effetti negativi sull’area dichiarata Patrimonio dell’Umanità” (citiamo dalle pagine Unesco World Heritage in Danger). In quel caso un’apposita commissione può “proporre e adottare un programma d’interventi protettivi e in seguito monitorare la situazione del sito”. Era stata la sezione di Venezia di Italia Nostra, preoccupata per i progetti di scavare la laguna per le grandi navi e per l’effetto sulla città di un turismo non regolato, a scrivere all’Unesco che il sito poteva considerarsi in pericolo per la sua integrità sia fisica sia culturale. L’Unesco aeva accolto la richiesta e deciso di inviare un’ispezione.

All’arrivo dei tre ispettori cominciò a circolare una lista delle visite e degl’incontri che avrebbero effettuato. Ma, sorprendentemente, né Italia Nostra (origine prima dell’ispezione) né alcuna associazione di cittadini erano nella lista. Si apprese che l’Unesco aveva come interlocutore ufficiale il Comune e che ad esso si era rivolto per stabilire i dettagli dell’ispezione. E il Comune aveva inserito tra gli impegni soltanto incontri con enti, istituzioni e categorie economiche interessati a mostrare che tutto andava benissimo (se ne trova un elenco in un nostro post precedente).

E’ stata necessaria una giornata di ricerche e di telefonate affannose, culminate con l’ intervento di un ministero da Roma, perché un minimo di equilibrio venisse ristabilito. Martedì 13 ottobre, alle 16.58, una lettera del Mibact informava quattro associazioni veneziane (Italia Nostra, WWF, Fai, Lipu) che un’audizione era stata organizzata, e che doveva tenersi il giorno dopo, alle 17, nel palazzo Unesco di Ruga Giuffa, in coda alle altre audizioni concesse alle”categorie” di operatori economici. Per ognuna delle quattro associazioni era previsto un incontro di cinque minuti!

La nostra sezione ha così messo a punto rapidamente il materiale che già aveva disposto, corredandolo di altri brevi documenti ad hoc, e si è presentata. Le audizioni si sono svolte in un ufficio separato dagli altri, in forma che si potrebbe definire segreta (ci è stato comunicato che non vi erano stanze più grandi disponibili).

Sul luogo abbiamo incontrato anche rappresentanti di associazioni come il Comitato no Grandi Navi, sempre agguerrito e documentatissimo, e Ambiente Venezia, che aveva preparato un corposo dossier. Abbiamo visto professori universitari e gloriosi combattenti dell’ambientalismo veneziano. I commissari sono stati gentili e corretti e ci sono parsi in fondo molto interessati, ma i tempi erano strettissimi, la giornata era stata lunga anche per loro (trasportati come pacchi da un ambiente all’altro sin dal mattino) e la situazione era quanto meno anomala.

Italia Nostra è entrata per prima, seguita dal WWf. Poi le altre associazioni sono state ricevute tutte assieme, anche perché si stava facendo tardi (i cinque minuti assegnati a noi erano diventati più di trenta, un tempo comunque insufficiente per presentare le nostre osservazioni e proposte). Alla fine delle riunioni i tre ispettori hanno suggerito che le associazioni producano un documento unico, sintetico, con dati affidabili e citazioni di studi scientifici che riassumano le comuni preoccupazioni per il Sito Patrimonio dell’Umanità e contengano anche delle proposte concrete.

Sarà ora nostro compito redigere quel documento, che posteremo subito su questo sito. Intanto e fino a domenica 18 ottobre continua il lavaggio del cervello degl’ispettori a opera di Sindaco, Autorità portuale, Consorzio Venezia Nuova, Corila, Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Aepe. Mai come ora ci rendiamo conto di quanto potenti siano gli operatori economici in questa città, anche se rappresentano solo una minoranza dei residenti.

Postilla

Gli "operatori economici" (rectius, i parassiti sfruttatori del patrimonio comune costituito dalla città e dalla sua laguna) rappresentano, è vero, una minoranza dei cittadini, ma sono riusciti a conquistare il rappresentante ufficiale della malaugurata città.
Qualcuno che si oppone alle bestialità del sindaco di Venezia c'è. La Nuova Venezia, 13 ottobre 2015
«Questo sindaco incapace e parolaio, che si è attribuito addirittura il referato della Cultura(sic!), cerca di coprire il suo fallimento e la sua inerzia attraverso una cortina fumogena di dichiarazioni estemporanee e provocatorie. Anziché metter mano nella selva di partecipate, razionalizzare un'elefantiaca macchina comunale, tagliare consulenze e quadri dirigenziali, ritrattare i contratti derivati capestro, smontare il carrozzone della Fondazione Musei Civici che divora ogni anno milioni di incassi provenienti da Palazzo Ducale, rivalorizzare uno dei patrimoni immobiliari più cospicui di Italia, cerca di accattivarsi la simpatia dei cittadini buttando l'idea, come se fossero suoi, di vendere i più preziosi beni pubblici (nostri, dei cittadini stessi) a favore, egli dice, del mantenimento degli asili o della ristrutturazione delle scuole».
Le frasi che riportiamo sono l'attacco diretto al sindaco di Venezia dal Movimento Cinque stelle di Venezia, all'opposizione in consiglio comunale che martedì mattina ha diffuso un durissimo comunicato stampa di risposta alla proposta di Brugnaro di vendere quadri di Klimt e Chagall per ripianare il debito del bilancio comunale.
I cinque stelle ricordano anche la vicenda dell'annuncio della vendita dei terreni del Quadrante vicino all'aeroporto, il cui valore, dichiarano, «una volta che vengano resi edificabili, risulta superiore a 100 milioni di euro (per "aiutare il Casinò" che, a nostra memoria, in realtà era stato costituito per “aiutare Venezia”), minimizzando sull’impatto ambientale e affossando definitivamente il progetto di un nuovo stadio».
I vincoli di legge impediscono la vendita di capolavori come i due quadri finiti sotto l'esame del primo cittadino ma l'uscita ha scatenato la polemica in città. E i cinque stelle attaccano frontalmente Brugnaro: "Questo sindaco non arriva nemmeno a capire che, togliendo le opere di maggiore attrazione dal museo di Ca' Pesaro, il museo stesso, già in progressivo calo di visitatori per il disinteresse strategico e uno sconcertante nuovo allestimento voluto dalla direttrice scientifica dott.ssa Belli, finirà ulteriormente per perdere quote di mercato e chiudere".
E il messaggio finale è chiaro. «Diffidiamo Brugnaro dal voler perseguire un pareggio di bilancio attraverso vendite indiscriminate. O vuole svuotare Ca’ Pesaro di senso fintantoché, a "furor di popolo", non venga venduto per essere trasformato nell'ennesimo albergo?».
«Berengo Gardin torna a parlare della mostra sulle grandi navi, la censura del Comune, le parole del sindaco. La mostra si inaugura il 22 ottobre in uno spazio gestito dal Fai: le Officine Olivetti». Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2015 (m.p.r.)

Non mi è simpatico, ma Luigi Brugnaro mi ha fatto un grande piacere. Grazie a lui della mia mostra si è parlato in tutto il mondo: Guardian, El Paìs, New York Times. Senza di lui, l’avrebbero vista al massimo duecento persone”. Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin torna a parlare delle sua mostra Venezia e le grandi navi, della censura del Comune, delle parole del sindaco. Lo fa nel giorno in cui è stata ufficializzata la rinuncia a Palazzo Ducale, lo spazio pubblico cui aveva offerto i propri scatti. Una rottura dovuta proprio all’opposizione di Brugnaro. La mostra, che verrà inaugurata il 22 ottobre, si terrà in uno spazio poco distante gestito dal Fai: le Officine Olivetti [si tratta in realtà del negozio Olivetti in Piazza San Marco, l'eccezionale opera di Carlo Scarpa n.d.r.]. «Il sindaco - racconta Berengo Gardin - mi ha definito sfigato, intellettuale da strapazzo, perfino intoccabile. Quasi mi ha lusingato, non sapevo di essere un intoccabile. Dopo la sua opposizione alla mostra mi hanno chiamato in tanti, anche da fuori Venezia. Ringrazio chi, come Roberto Koch e Alessandra Mauro della Fondazione Forma, hanno affrontato questa situazione difficile. E tutti quelli che si sono spesi per la mia mostra: Adriano Celentano, certo, ma anche centinaia di cittadini”.


Perché ha scelto di raccontare le Grandi Navi?
La molla è scattata circa tre anni fa, quando ne ho vista una per la prima volta. Ero in Piazza San Marco di sera, al tramonto. Ho visto questa cosa enorme e sono inorridito: sembrava un cartone animato, Disneyland, tutto ma non Venezia. Anche se per caso sono nato in Liguria, mi sento veneziano. Il sindaco dice che ho denigrato la città, ma è lì che ho vissuto trent’anni e su Venezia ho fatto otto libri.
Come si fotografa una nave da 90 mila tonnellate?
Il sindaco ha detto pure che avrei usato un teleobiettivo (lente fotografica che fa apparire gli oggetti più grandi, ndr), ma non è vero. Al contrario, la maggior parte le ho scattate con un grandangolo: quelle navi sono talmente grandi che altrimenti non sarebbero entrate. In vita mia ho fatto 1,5 milioni di foto e non ho mai usato trucchi.
Intanto il Comune, con l’appoggio del Pd cittadino, sembra avere scelto un nuovo percorso: il canale Vittorio Emanuele. Così le navi da crociera non passeranno dal centro, ma resteranno in laguna.
Io ho fatto delle foto di denuncia, non sta a me trovare una soluzione. Non sono contro le navi in sé, ma l’inquinamento e il rischio che producono passando in centro, per il canale della Giudecca e San Marco, sono enormi. So però che tutti gli amici del comitato No grandi navi sono preoccupati delle ricadute per la laguna.
L’anno scorso Venezia è stata visitata da 27 milioni di turisti, eppure si continua a cercarne di nuovi. Che città è diventata?
Mi sembra evidente che c’è un inquinamento da eccesso di turismo. Ci sono troppi turisti che arrivano la mattina e ripartono la sera: alla città non portano nulla se non confusione. Ecco, ho un progetto un nuovo libro su Venezia, ma totalmente diverso rispetto a questa mostra. Non posso svelare molto, ma racconterà una Venezia positiva, bella. Una Venezia che non c’è più.
Se il sindaco la chiamasse, cosa gli direbbe?
Buongiorno, per educazione. Ma subito dopo dovrei aggiungere: “Non ho piacere di parlare con lei”.
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