Il pericolo vero, di fronte al moltiplicarsi di appartamenti trasformati in strutture per turisti, è che l'amministrazione sia disposta a chiudere un occhio, come ha fatto finora, purché i proprietari paghino al Comune la tassa di soggiorno imposta per ogni cliente. Per quelle strutture si tratta di un euro e mezzo al giorno a persona. A nostro avviso i posti letto non dichiarati nel Comune sono circa diecimila (sui 27mila dell’intero Comune). Calcolando una media di occupazione di 200 notti all'anno, parliamo di circa due milioni di persone, che pagherebbero una tassa di tre milioni di euro.
«Venezia: continua l'operazione "Venice Journey" di Finanza e polizia municipale. Ostello con 20 letti ma con una igiene vergognosa. Scoperto anche un affittacamere abusivo. Nel timore dei controlli, ora i cittadini collaborano: incremento di nuove attività emerse dell’800% in un anno». La Nuova Venezia, 19 agosto 2016
L’operazione "Venice Journey" quindi continuerà anche nei prossimi mesi per salvaguardare gli imprenditori che operano nella legalità e che rispettano le regole, oltre che la sicurezza dei cittadini veneziani e dei turisti che soggiornano a Venezia.
«Ho agito d’impulso, ma non capiscono che possono finire tranciati da un’elica?». A parlare è Roberta Chiarotto, la signora che mercoledì pomeriggio alla vista di un gruppo di ragazzi e ragazze stranieri in mutandoni e bikini, che stavano per tuffarsi in Canal Grande dalla riva di campo San Vio - come fossero in una qualunque spiaggia - ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a riprenderli: ma a differenza dei tanti che riprendono e tacciono, sfogandosi poi solo sui social, la signora Chiarotto ha iniziato a richiamare all’ordine il gruppetto balneare (due ragazze e quattro ragazzi). In italiano, in inglese e anche in tedesco: «È proibito tuffarsi a Venezia. Questa non è Disneyland, è una città». E loro, mogi mogi, son tornati occhi bassi sui loro passi. «Siamo veramente al troppo che stroppia: sembravano sobri», prosegue la signora Chiarotto, «purtroppo temo che sia passato il messaggio che in Italia si possa fare ciò che si vuole».
«PORTO MARGHERA
ULTIMA OCCASIONE»
di Carlo Mion
Marghera. Le grandi fonderie e fabbriche siderurgiche nate all’inizio del seconolo scorso (dalla Sava, all’Alumix fino all’Alcoa) ormai è stata praticamente azzerata, lasciando capannoni vuoti e fatiscenti in aree abbandonate a se stesse e piene di veleni. Anche la parabola della chimica di base italiana che ha fatto la storia di Porto Marghera, qui è cominciata occupando decine di migliaia di lavoratori ai bordi della laguna e qui ora sta sparendo quasi del tutto, ancor prima della possibile rinascita in una nuova versione “green” che utilizza oli vegetali al posto deo derivati del petrolio. “E mo', e mo', Moplen!” diceva con il suo faccione da clown l'indenticabile Gino Bramieri pubblicizzando in televisione la rivoluzionaria plastica di propilene prodotta per dalla Montecatini sulla scia della scoperta di una nuova sostanza plastica polimerica fatta dal premio Nobel Giulio Natta.
«Automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città con gli sfratti e con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni. Occorre attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua». La Nuova Venezia, 12 agosto 2016 (m.p.r.)
Ormai da oltre vent’anni anni continuano le dichiarazioni che non vogliono farsi carico dell’esodo che sta portando alla morte la città d’acqua di Venezia e le isole minori della laguna. Hanno cominciato le giunte Cacciari-D’Agostino revocando e cambiando le norme in vigore del Piano regolatore della città storica adottato precedentemente, norme che hanno bloccato fino alla fine degli anni ’90 i cambi d’uso degli appartamenti. Le concessioni dei cambi d’uso sono poi sempre continuate fino all’attuale giunta Brugnaro che ha subito prontamente contraddetto gli impegni elettorali.
«L’architetto D’Agostino interviene sullo spopolamento “Ho favorito gli alloggi turistici? No, il piano si poteva cambiare. Più controlli sui B&B”». Le responsabilità dell'ex assessore sono in verità considerevoli. La Nuova Venezia, 11 agosto 2016 , con postilla
Per qualcuno è uno dei «responsabili» della deriva turistica del patrimonio immobiliare veneziano, perché il suo piano regolatore del 2005, favorì l’accorpamento degli alloggi, le trasformazioni alberghiere e il proliferare dei bed & breakfast, ma l’architetto Roberto D’Agostino - per molti anni assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia e poi presidente di Arsenale Venezia spa, la società di gestione del complesso, poi disciolta dalla Giunta Orsoni - respinge l’accusa e rilancia, spiegando perché, a suo avviso, le politiche pubbliche sulla residenza negli ultimi dieci anni almeno sono fallite, accelerando lo spopolamento.
postilla
L'architetto D'Agostino è uno dei maggiori responsabili del degrado della città negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda le scelte della pianificazione urbanistica. In questa intervista ha riesposto sue tesi già espresse in passato. Segnaliamo qualche documento in proposito. Sulla questione della "liberalizzazione" in favore delle utilizzazioni turistiche si veda su eddyburg la puntuale risposta che gli diede a suo tempo Luigi Scano, nell'articolo "Prg di Venezia. e proliferazione di alberghi e affittacamere". Si veda anche di Edoardo Salzano Il piano D’Agostino-Benevolo per la città storica di Venezia, e di Alberto Vitucci. Osservatorio casa mandato a casa. Altri articoli ad abundantiam nelle cartelle dedicate a Venezia, nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg.
È da qualche decennio che chi governa Venezia (e il Veneto) fa ponti d'oro a chi lavora alacremente per aumentare la presenza dei turisti a Venezia. Turismo di lusso e turismo di massa tutto fa brodo. E anche la maggioranza dei veneziani acconsente: infatti, vota per loro. La Repubblica, 10 agosto 2016
Lo spopolamento è stato graduale ed è iniziato dopo la grande alluvione del 1966, quando moltissimi veneziani si sono spostati verso la terraferma. Nel 1861 Venezia aveva 128.787 residenti. All’epoca i numeri erano in crescita, tanto da arrivare nel 1901 a 146.682 cittadini residenti e nel 1951 a 167.069, il massimo storico. Poi, il lento ma progressivo svuotamento della città, mentre cresceva il turismo di massa, che oggi si attesta attorno ai 22 milioni di arrivi all’anno.
Una situazione paradossale, perché se la città è un sogno per il turista che ne rimane stregato, dall’altro lato è sempre più un incubo per chi vuole mettere radici nella laguna e si ritrova alle prese con affitti altissimi, botteghe di quartiere che chiudono, negozi di paccottiglia e di souvenir a un euro che proliferano e palazzi che si trasformano in un baleno in hotel di lusso. Se a questo si aggiunge che l’età media è di 47 anni e che la popolazione anziana è in continuo aumento, si capirà che per un veneziano restare a Venezia è diventata una vera battaglia.
Il risultato è un business selvaggio che ricade per primo sui veneziani e su quelle associazioni che chiedono una città a misura di residente e non del turismo di massa, come fa il Gruppo25Aprile con la campagna #Veneziaèilmiofuturo, o l’Associazione Poveglia, che chiede che l’omonima isola non sia ceduta ai privati, o ancora Venessia.com che denuncia da anni il calo degli abitanti.
Se al numero dei cittadini della laguna si somma quello degli degli abitanti delle isole, il calo non si arresta, perché si passa da 84.666 a 83.398 abitanti. «Lo spopolamento non si può risolvere in pochi mesi — dice Lucia Colle, vice sindaco e assessora al Patrimonio — Quello che sta facendo la nostra amministrazione è cercare di attirare gli under 40 con alcuni bandi per case a prezzi privilegiati. Vogliamo anche provare a portare lavoro in città, perché è quello che poi aumenta la residenzialità. Per quanto riguarda le strutture abusive, invece, stiamo aumentando i controlli».
Nonostante le università Ca’ Foscari e Iuav pullulino di giovani, dopo la laurea quasi tutti imboccano il Ponte della Libertà e tornano nella terraferma, dissuasi a restare dagli affitti da capogiro. Uffici e magazzini si trasformano in stanze da affittare e giorno dopo giorno si chiudono i palazzi. E in tutto questo a rimetterci sono quei residenti che non vogliono diventare comparse costrette a vivere in un luna park. Il luna park Venezia che, quando cala la sera, viene dimenticato da tutti.
Prosegue il cammino della privatizzazione del complesso delle isole di Sant'Andrea e Certosa, concesse in uso cinquantennale a una S.r.l dedita allo sviluppo del turismo di lusso. I cittadini tacciono, i loro rappresentanti e i media plaudono. Ora si aggiunge il peso di uno sponsor potente. La Nuova Venezia, 9 agosto 2016
Veicoli elettrici e stazioni per la ricarica, sistemi Ict per l’illuminazione pubblica e connettività a banda larga, interventi di efficienza energetica, impianti fotovoltaici, mini-eolici e batterie per l’accumulo dell’elettricità: grazie alla sperimentazione di una serie di soluzioni innovative, frutto dell’accordo firmato tra Vento di Venezia, società che persegue la riqualificazione dell’isola della Certosa in partenariato con il Comune di Venezia , e Terna Plus, la società del gruppo Terna che sviluppa e gestisce le Attività Non Regolate, l’Isola della Certosa diventa un laboratorio per le energie smart.
Il progetto, della durata triennale, si inserisce all’interno di un programma più ampio che ha come obiettivo il recupero, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico, dei 24 ettari di territorio dell’isola della Certosa. Grazie all’intervento di Terna Plus si innalzeranno gli obiettivi del progetto di rigenerazione urbana e l’Isola, che vanta un notevole patrimonio storico e paesaggistico, diventerà un modello di “Smart Energy Island” sostenibile e all’avanguardia a livello internazionale. Con la diffusione delle energie pulite e la loro integrazione in rete, lo sviluppo della mobilità elettrica e una più intelligente gestione dei consumi, l’Isola della Certosa - che attualmente è collegata elettricamente alla rete in terraferma – si orienta alla gestione energetica localizzata e, al contempo, alla riduzione delle emissioni inquinanti, grazie a un minor impiego di fonti di produzione tradizionale, con evidenti ricadute positive per il territorio e per le attività che verranno sviluppate sull’isola.
Per contenere gli impatti dell’intervento di riqualificazione ambientale,tutte le soluzioni individuate saranno studiate per coniugare le esigenze del servizio elettrico con quelle paesaggistiche, con strutture che occupino la minor porzione possibile di territorio, minimizzando l’interferenza con le zone di pregio naturalistico, storico e archeologico presenti sull’isola.
Il progetto per rendere Certosa un’isola a vocazione rinnovabile, smart, sostenibile, più autosufficiente dal punto di vista energetico e a basse emissioni, fa parte della più ampia strategia di Terna per l’ammodernamento delle reti elettriche delle isole minori, che si estende anche ad altri territori italiani: iniziative simili sono, infatti, già state avviate per le isole del Giglio e Giannutri, in Toscana, e Pantelleria, in Sicilia.
Il mercato immobiliare del lusso a Venezia è ormai in mano agli stranieri - il 70 per cento degli acquirenti - e a livello di prezzi non conosce cali particolari, nonostante il momento ancora delicato in Italia per il settore. È la fotografia scattata dal Market Report Venezia 2016 elaborata da Engel & Völkers, gruppo tedesco leader a livello mondiale nel settore dell’intermediazione di immobili di pregio. I prezzi degli immobili più esclusivi, particolarmente i palazzi che si affacciano sul Canal Grande, vanno dai 12 mila ai 20 mila euro a metro quadrato. In particolare, le zone più richieste per la compravendita di proprietà residenziali di lusso sono San Marco e San Polo e Dorsoduro.
L’85 per cento delle compravendite riguarda appartamenti, mentre il 15 per cento ville o case indipendenti. Il 14 per cento delle transazioni si riferisce a immobili sotto i 250 mila euro, il 60 per cento a proprietà con prezzo compreso tra 250 e 500 mila, il 3 per cento a immobili tra 501 mila e un milione di euro e ben il 23 per cento a immobili sopra il milione di euro, quasi un quarto del totale.
Il 75 per cento degli acquirenti compra per investimento, garantendosi un’ottima rendita economica derivante spesso da un affitto turistico che si attesta all’8-10 per cento lordo. Solo un quarto decide di comprare per uso privato. Esiste quindi già una speculazione esterna anche per quanto riguarda lo sfruttamento degli appartamenti a fini turistici
Una delle aree più richieste è Dorsoduro, dove i prezzi variano da circa 5.500 a 7 mila euro a metri quadrati fino ad arrivare a picchi di 12 mila per proprietà esclusive sul Canal Grande. Anche l’area di San Polo, pur essendo la meno estesa, è una delle più interessanti vista la sua centralità. I prezzi variano da circa 4 mila a 5.500 euro a metri quadrati, fino ad arrivare anche a 9 mila euro a metro quadro.
A San Marco, invece, il vero cuore della città, i prezzi oscillano tra 4.500 a 6 mila euro a metro quadro fino a un massimo di 10 mila euro per le proprietà più esclusive.
I prezzi sono leggermente più bassi nella zona di Cannaregio dove si possono trovare alcuni dei piani nobili più prestigiosi della città ma anche graziosi pied-a-terre. La zona dei Santi Apostoli viene apprezzata invece per la maggiore tranquillità. Qui i costi variano dai 4 mila ai 5 mila euro a metro fino a 9 mila per gli immobili più grandi affacciati sul Canal Grande.
La visione fallocratica della città, conveniente per gli affari, trova facili sponde nel governo della gronda lagunare di Venezia. La Nuova Venezia, 27 giugno 2016
Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione».
Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione.
Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness.
L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco nonc ambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre quattro di Metroter (Aev Terraglio).
Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. La Confesercenti si è già pronunciata contro.
Mentre in città proliferano residenze turistiche e b&b abusivi ed esentasse, il sindaco fa sgomberare la casa dei senza tetto. La Nuova Venezia, 1 maggio 2016 (p.s.)
Quattro tende da campeggio, una decina di materassi e tanti altri rifiuti da riempire un autocarro intero: la nuova operazione antidegrado è stata portata a termine tra giovedì e venerdì 29 aprile dalla sezione Pronto intervento della Polizia municipale, che ha smantellato cinque accampamenti di questuanti romeni, collocati sotto i cavalcavia di via Rizzardi e via della Pila, nella zona di Marghera.
Le operazioni sono state condotte da una squadra antidegrado, composta da quattro operatori della Polizia Municipale, da personale specializzato di Veritas e da una ditta di fabbri fatta intervenire dal Comune per ripristinare le barriere elettrosaldate anti intrusione.
Durante l’intervento sono stati rimossi giacigli, viveri, materassi e tanto altro materiale. Nella zona della ferrovia sono stati anche sgomberati, previa identificazione, quattro questuanti di nazionalità rumena e i loro giacigli.
Le operazioni di sgombero, sono state effettuate sulla scorta di un’ordinanza di rimozione firmata dal sindaco ed emanata sulla base dei rapporti redatti dagli operatori della Sicurezza urbana incaricati dell'attuazione del programma di rigenerazione urbana "Oculus".
I dati sulle presenze dei senza tetto accampati nella zona industriale tra Mestre e Marghera sono stabili da anni e l'esecuzione di frequenti sgomberi da parte della Polizia Municipale ha finora efficacemente contrastato l'insorgere di stabili e vasti accampamenti abusivi. Il programma Oculus proseguirà con intensità anche nelle prossime settimane.
Due piccole storie che gettano un po' di luce sulla faccia nascosta della città, sempre più ridotta ariserva per i ricchi del mondo e artefatta vetrina dei residui di una bellezza che fu. La Nuova Venezia, 11 marzo 2016
IL COMUNE DI VENEZIA DICE "STOP"
AGLI AIUTI AI SENZA FISSA DIMORA
Contratto scaduto, ieri ultimo giorno per gli operatori delle cooperative Caracol e Gea: cancellati 34 posti letto al Rivolta
MESTRE. Giovedì è stato l'ultimo giorno di lavoro per il progetto “Senza dimora” degli operatori delle cooperative Caracol e Gea: una quindicina di operatori della Caracol sono andati per l’ultima volta in strada tra i senza fissa dimora della stazione di Mestre. Hanno distribuito bevande e coperte e salutato tutte le persone che hanno collaborato in questi anni per l’emergenza “inverno”. Sono scaduti i cento giorni, previsti da contratto e il futuro servizio sarà affidato con un bando pubblico, promette la giunta Brugnaro. Nel frattempo al posto delle cooperative si utilizzeranno i comunali.
Ultimo giorno ieri anche per la cooperativa Gea al centro diurno alla mensa di Ca’ Letizia, in via Querini «dove il servizio viene dimezzato», denuncia il consigliere comunale Nicola Pellicani (Lista Casson) che ha portato la questione in discussione in commissione con un’interpellanza: «Anche il servizio di assistenza legale, assicurato dagli avvocati volontari che si appoggiavano a Gea ora rischia di scomparire», spiega. Tra i primi contraccolpi di questa riorganizzazione c’è la riduzione del servizio docce. Il servizio veniva garantito ai clochard cittadini al Drop-In di via Giustizia due giorni la settimana, il mercoledì mattina e il venerdì pomeriggio. Ora un cartello avvisa che le docce sono aperte solo il mercoledì mattina, il giorno meno utilizzato dai clochard cittadini. A qualcuno può sembrare un problema di poco conto ma garantire una vita decorosa a chi vive in strada è il primo passo per evitare situazioni di degrado ben peggiori.
«È scaduto il contratto ma i senza fissa dimora hanno il diritto di lavarsi, che costituisce il minimo di solidarietà che un Comune deve saper garantire», avverte Pellicani. «Un servizio di assistenza tra l'altro che se non assicurato finirà per alzare i costi sociali del problema. «L'assessore alle politiche sociali aveva« garantito che gli stessi servizi sarebbero stati assicurati dal personale interno del Comune, ma come volevasi dimostrare ciò non è avvenuto. Iniziamo così tristemente a vedere gli effetti dei tagli al sociale applicati dalla giunta Brugnaro».
L'assessore Simone Venturini non ci sta a passare per un politico “senza cuore”. E rigetta ogni critica: «Sarà finalmente il Comune a gestire i servizi programmando attività di riscatto sociale e di uscita dalla strada», dice, prevedendo «collaborazioni con altri servizi dell’inclusione sociale. L’attività sulla strada sarà potenziata per far emergere dalla strada la gente e ci sarà anche un occhio di riguardo per gli abitanti delle zone che vivono situazioni di degrado. Il nuovo bando pubblico verrà pubblicato nel giro di due mesi».
Ma le Politiche sociali del Comune sono in subbuglio: ci sono altri tagli in corso, come quelli ai mediatori linguistici e culturali. «Nessun contraccolpo significativo ma piccoli risparmi sugli appalti in essere per evitare di intaccare sensibilmente i servizi», tranquillizza Venturini. Il Comune resta senza i 34 posti letto dell’accoglienza attivati dalla Caracol al centro Rivolta di Marghera e messi a disposizione in questi anni del Comune. E la Riduzione del danno, che si occupa di tossicodipendenza, ha ridotto le uscite degli operatori in strada».
PALAZZO DONÀ, “SFRATTATO”
LO SPORTELLO IMMIGRATI
Dopo la vendita per farne albergo, non c’è ancora una sede alternativa Il servizio segue 2 mila badanti. L’assessore Venturini: «Non lo smantelleremo»
VENEZIA. Che fine farà lo “Sportello Immigrazione” del Comune, apertura il giovedì pomeriggio negli spazi storici di palazzo Donà, in campo Santa Maria Formosa e centinaia di stranieri seguiti ogni anno, in particolare tra le badanti che lavorano a Venezia?
Gli operatori del servizio - tutti dipendenti comunali - sono in allerta da quando l’amministrazione ha annunciato la vendita del palazzo alla sua società Ive-Immobiliare veneziana per 4 milioni di euro, perché poi lo metta sul mercato con cambio di destinazione d’uso ad albergo. Tempi stretti, tanto che ai 17 assistenti sociali ospitati nello stesso edificio - sinora gestiti in autonomia dalla Municipalità, ma da qualche settimana avocati a sé dall’amministrazione - le Politiche sociali hanno già fatto sapere che entro giugno dovranno liberare gli uffici e trasferirsi negli spazi di campo Santa Margherita (non rinnovando l’affitto ad associazioni che avevano qui da anni la loro sede, come Il Granello di Senape e Ambiente Venezia). Agli operatori dello Sportello Immigrazione, sinora, nessuna comunicazione: silenzio. E loro temono la chiusura dello sportello in centro storico.
Il servizio ha un nome complesso - "Servizio immigrazione e Promozione dei diritti di cittadinanza e di asilo" - che si traduce in un'attività precisa: uno sportello al quale gli stranieri che vivono, lavorano, studiano nel Comune si rivolgono per avere informazioni sul rinnovo del permesso di soggiorno, il riconoscimento dei titoli di studio, l'inserimento scolastico dei bambini, l'assistenza sanitaria, i contributi. Mille gli accesi ogni anno. Due le sedi: in via Verdi 36 a Mestre (apertura il martedì) e, sinora, a Venezia a palazzo Donà, sin dagli anni Novanta, apertura il giovedì pomeriggio dalle 14.30. Orario della pausa pranzo delle badanti (2 mila nella città storica) che a Venezia sono le utenti principali del servizio.
Dal Comune arrivano rassicurazioni. «Non c’è nessuna volontà di smantellare un servizio», la risposta dell’assessore Simone Venturini, «in questi giorni i tecnici dell’Ufficio Patrimonio sta individuando alcune soluzioni per vedere quali sono gli immobili disponibili. Il passo successivo sarà quello di valutare che tipo di servizio svolgono i dipendenti. Ovviamente, nel caso in cui venisse fuori che è strettamente legato al territorio, come quello delle badanti, si farà in modo di non spostarlo. Noi stiamo riorganizzando finalmente la macchina comunale per migliorarla. Teniamo presente che il sociale è completamente frammentato quindi questa è un’occasione per fare meglio e non per peggiorare. Fino a una nostra comunicazione, tutto prosegue come prima in modo da non creare confusione tra le persone». (r.d.r.-v.m.)
Si comincia a scoprire il nuovo Fontego dei Tedeschi e fanno già discutere i nuovi infissi dorati delle finestre del cinquecentesco edificio destinato a essere riaperto il primo ottobre come un grande magazzino del lusso gestito dal gruppo francese Dfs. In questi giorni è iniziata infatti la scopertura delle facciate del palazzo e sono apparsi così i nuovi serramenti che assomigliano per il colore all’alluminio anodizzato vietato a Venezia ma che sono invece di ottone brunito, autorizzato dalla Soprintendenza. Lo stesso tipo di materiale è stato già infatti utilizzato dall’architetto Alberto Torsello - che dirige i lavori di ristrutturazione per l’impresa Sacaim, con la committenza di Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria del palazzo e in base al progetto di Rem Koolhaas per lo Studio Oma - anche per i grandi finestrini nella nuova ala delle Gallerie dell’Accademia e per quelli della Scuola Grande della Misericordia. Infissi che secondo i progettististi si armonizzerebbero perfettamente con lo spazio circostante e presenterebbero il vantaggio di resistere nel tempo alle aggressioni dell’ambiente marino tipico della laguna veneziana.
L’effetto di queste decine di serramenti nuovi e dorati sui quattro lati del Fontego, desta però più di una perplessità, ad esempio anche su Facebook secondo quanto registrato dal sito Venessia.com. Molti li hanno appunto scambiati per infissi in alluminio anodizzato, perché l’effetto visivo è molto simile. È perplesso anche il professor Amerigo Restucci, già rettore dell’Iuav e storico dell’architettura e del paesaggio. «In effetti il confine tra l’alluminio anodizzato e l’ottone brunito sul piano visivo è molto labile » commenta -«e mentre nel caso delle Gallerie dell’Accademia e della Misericordia era usato per pochi finestroni e molto grandi, qui compare in decine e decine di finestre, influendo pesantemente sull’effetto complessivo dell’edificio. Proviamo a pensare se in tutta Venezia gli infissi venissero sostituiti progressivamente con questo tipo di materiale, cambierebbe l’aspetto della città. Forse anche la Soprintendenza dovrebbe riflettere meglio su questo aspetto».
L’altra novità comparsa sul Fontego è il ballatoio metallico, anch’esso dorato e quindi probabilmente anch’esso in ottone brunito comparso sul tetto, con la ringhiera che delimierà quindi l’area della terrazza-belvedere che tanto aveva fatto discutere prima del via libera definitivo. Anch’essa, naturalmente, destinata a suscitare molte discussioni. Il cantiere del Fontego dei Tedeschi per la ristrutturazione proseguirà sino a fine marzo. Poi subentreranno alla Sacaim e a Edizione, gli architetti e le maestranze di Dfs, per gli allestimenti, in vista dell’apertura di ottobre.
Dove le pietre e il popolo sopravvissuti raccontano (per quanto ancora?) storie antiche dove segregazione e integrazione, repressione e convivenza, potere e pubblica utilità s'intrecciano. La Repubblica, 24 gennaio 2016
UNA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Cannaregio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, gelida, galleggia sui tetti sul lato dell’isola di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Guglie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un sotopòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una locanda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristiani. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il campo disseminato di coriandoli di Carnevale.
Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a raccontare la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagonale che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaramantico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.
Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esistevo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano “ Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla tedesca, con la “ Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofobico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a confronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di promissione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di profondamente diverso da ciò che divenne quando l’idea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’antigiudaismo della Chiesa, producendo lo sterminio.
In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei reticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Venezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Serenissima, sia pure attraverso una maniacale separazione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Parlarne solo come segregazione non è corretto», osserva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Boringhieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo attraverso i legami millenari della Diaspora, ed è anzi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Europa, Nord Africa e Medio Oriente.
Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che girassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhominevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 marzo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di mandare “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un castello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandiva i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’isolotto “per garantirne la sicurezza”.
Detto e fatto; Le case dell'isola furono svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i confini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.
Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano.
C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono sistemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall’impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marrani”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conservarono, si dice, l’alterigia degli “ Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.
« Šnaim yeudin shalosh batei a kneset », due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombelico di un mondo — la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.
A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. « Orsài », commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. « Zuca baruca », zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela — un po’ come a Trieste — l’intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. “ Fare un Tananàì”, fare un Quarantotto. “ No darme Giaìn”, non darmi vino scadente. “ No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “ Tevinà”, il sesso femminile, la quale “ ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “ El traganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.
La vita di Calimani è segnata dall’Olocausto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.
«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un’esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue...». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, “ Chatzer”, che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.
«Dopo gli arresti per il Mose, nel 2014, tutto si è fermato: ne fanno le spese gli abitanti della laguna. Tutti i dati nel report della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti: area senza "cintura di sicurezza", "varchi" nei terreni fanno passare il percolato inquinante». Il manifesto, 24 gennaio 2016
Oltre un miliardo di euro: è la rigenerazione, ancora incompiuta, di Portomarghera. L’emblema dell’inquinamento criminale della laguna, ma soprattutto il simbolo di un sistema che metabolizza risorse a senso unico e paralizza Venezia.
Le bonifiche si sono impantanate fra eredità del Consorzio Venezia Nuova, intoppi istituzionali o burocratici, opere cruciali inesistenti, controlli a vuoto e contabilità infinita. Sintetizza Gianfranco Bettin, ex assessore all’ambiente ora presidente della municipalità di Marghera: «Purtroppo da giugno 2014, quando scoppiò lo scandalo Mose con i primi arresti, tutto si è fermato. E non si è pensato nemmeno di trovare tecnici preparati, come Giovanni Artico arrestato ma poi assolto con formula piena. Ora è più che mai necessaria un’azione di Comune e Regione per far uscire dallo stato di paralisi in cui si trova il processo di risanamento ambientale e di rigenerazione economica e occupazionale di Porto Marghera. Altrimenti non si avranno argomenti per far investire, come Eni sulla chimica verde».
L’istantanea spietata quanto inquietante è contenuta nelle 54 pagine della relazione stilata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. In sostanza, la maxi-operazione di risanamento ambientale effettuata a Portomarghera diventa inutile senza la “barriera protettiva” con palancolati e marginamenti delle macroisole. I terreni inquinati necessitano di una “cintura di sicurezza” per proteggere la laguna, ma l’anello della bonifica è infarcito di «buchi». Proprio dove spuntano le tubature di Edison, Syndial, Sapio-Crion o l’oleodotto e l’impianto antincendio della Ies di Mantova. Segmenti dai 20 agli 80 metri quadri tuttora non censiti in funzione dell’ultima fase di lavori.
“Varchi” che mettono a repentaglio quanto già realizzato, perché non bloccano il percolato con sostanze come arsenico, mercurio, nichel. È il “colabrodo” lungo i 50 chilometri di palancole metalliche, conficcate fino a 22 metri di profondità: l’indispensabile isolamento di Portomarghera per trasferire gli inquinanti fino al depuratore di Fusina.
Nicola Pellicani, di fatto il portavoce del centrosinistra in consiglio comunale, sottolinea: «Ho appena presentato una mozione al sindaco Brugnaro per convocare in tempi rapidi un tavolo di confronto. Partendo dal definitivo marginamento di tutta l’area industriale. Sono già stati spesi 781 milioni. Per la conclusione mancano circa 3,5 km di rifacimento sponde, pari al 6%: un investimento di altri 256 milioni. Se non sarà completato, sarà tutto inutile».
Finanziamenti che spettano al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche (100 milioni), Regione (80 milioni) e dell’Autorità portuale di Venezia (altri 70). Ma c’è da controllare bene il capitolo delle spese. A cominciare dai collaudi che potrebbero lievitare fino a due milioni, per di più un’uscita senza senso: «rappresentano un mero sperpero di danaro pubblico» sentenzia la commissione parlamentare d’inchiesta.
Tutti collaudi cantiere per cantiere: perfettamente inefficaci «se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita». Ma rappresentano ghiotti benefit per i dirigenti regionali Roberto Casarin o Mariano Carrarto, ex capi di gabinetto del ministero dell’ambiente come Luigi Pelaggi o direttori generali dello stesso ministero come Mauro Luciani, dirigenti del Magistrato alle acque di Venezia (Maria Adelaide Zito), ex del ministero dell’Ambiente (Ester Renella) e membri della Commissione Via (Monteforte Specchi Guido e Fernanda D’Alcontres Stagno).
Del resto, anche gli appalti della maxi-bonifica meriterebbero più attenzione. Il Provveditorato interregionale, come conferma il dossier della commissione parlamentare, «non ha mai esercitato né esercita tuttora alcun effettivo controllo sia sul sistema di assegnazione da parte del Consorzio dei subappalti relativi al Mose e alle bonifiche, sia sulla congruità dei corrispettivi dati alle ditte subappaltatrici».
Dunque, il “sistema Cvn” continua a funzionare come prima. Il deus ex machina del Mose Giovanni Mazzacurati è a San Diego; il “doge” Galan e l’ex assessore Chisso sono alle prese con la magistratura; l’ex ministro Clini tace da mesi travolto da un altro faldone giudiziario; Piergiorgio Baita è stato sostituito alla Mantovani Spa dall’ex questore Carmine Damiano; il “giro” di Legacoop ha rimodulato le referenze nel Pd. Tuttavia, in laguna la lobby delle grandi e piccole opere pubbliche sembra inossidabile grazie all’omesso controllo di legalità, che non riguarda solo la Procura della Repubblica…
Arduo consolarsi con gli annunci sull’iter dei 23 progetti che valgono 153 milioni in base all’accordo di programma sottoscritto l’8 gennaio 2015 da Mise, Regione, Comune e Porto. Quest’anno dovrebbe scattare la bonifica dell’area Syndial (107 ettari), almeno così promette l’assessore regionale Roberto Marcato: «Si sta procedendo con la appena costituita società Mei Spa partecipata al 50% da Regione e Comune, entrambi attraverso società in house. Il rogito è datato 11 dicembre 2015 e la prima attività sarà la stesura — indicativamente nel prossimo quadrimestre — del business plan che indichi i termini finanziari e procedurali della manovra. A ruota, dovrà ottenere la volturazione dei decreti ministeriali di approvazione delle attività di bonifica (intestati a Sindyal): c’è di mezzo il ministero dell’Ambiente. Auspicalmente nella seconda metà del 2016, Mei Spa potrà iniziare ad attivare le operazione di bonifica e recupero funzionale delle aree».
A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. Il Fatto quotidiano, blog di Manlio Lilli, 18 gennaio 2016
“Ca’ Corner della Regina, costruito tra il 1723 e il 1728 da Domenico Rossi per conto della famiglia dei Corner di San Cassiano, è un palazzo veneziano situato nel sestiere di Santa Croce e affacciato sul Canal Grande. Dal 2011 diventa la sede veneziana della Fondazione Prada che ha presentato finora in questi spazi cinque mostre di ricerca, in concomitanza con il restauro conservativo del palazzo che si sta attuando in più fasi”.
“Il restauro conservativo di Ca’ Corner della Regina, promosso dalla Fondazione Prada dalla fine del 2010 in linea con le direttive della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e della Laguna, si sta attuando in più fasi. La prima, conclusasi nel maggio 2011, ha previsto interventi di messa in sicurezza delle superfici di pregio artistico e architettonico, il rilievo di tutte le parti impiantistiche incoerenti, la manutenzione dei serramenti lignei, l’eliminazione delle partizioni non originarie e il recupero degli spazi destinati a uffici e servizi. Per quanto riguarda gli apparati decorativi, sono stati messi in sicurezza affreschi, stucchi e materiali lapidei che ornano il portego e le otto sale del primo piano nobile del palazzo. Questi lavori consentono nel giugno 2011 l’apertura al pubblico del piano terra, del primo e secondo mezzanino e del primo piano nobile di Ca’ Corner della Regina”.
Evviva, verrebbe da dire. La lente del pregiudizio ha viziato la lettura iniziale. Venezia acquista uno spazio per l’arte internazionale. Ed è così. Ma accanto alle sale attraversate dai visitatori, ci devono essere anche parti “riservate”. Insomma appartamenti. E’ stabilito nel contratto. Per questo rimangono a lungo in sospeso 8 dei 40 milioni di euro. Miuccia Prada deve avere certezza di poter riposare nel palazzo che dal 1975 al 2010 è stato sede dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee. La Direzione Generale dei Beni Culturali si oppone alla destinazione residenziale ritenendola incompatibile con le caratteristiche storiche del Palazzo e con il mantenimento di un suo uso pubblico. E’ così fino a ottobre 2015.
Prosegue la soprintendente Codello
A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. A Ca’ Corner, dove si sperimenta da anni l’alienazione del patrimonio pubblico, il nuovo modello-Italia sembra giunto al suo epilogo. Finalmente, svelandosi in maniera completa. Dopo alcuni tentativi falliti. Lo Stato è un moribondo da sostituire e non da affiancare. Quindi spazio ai nuovi mecenati. Poco importa se esigono un appartamento nel palazzo restaurato. I nuovi Signori sono loro.
«Villa Hèrion alla Giudecca, Palazzo Donà, la Poerio e la Favorita. A Mestre l’ex scuola Manuzio, l’ex terminal di Fusina e il parcheggio Candiani. Una mappa per navigare tra le vendite degli ultimi 10 anni». Nella mappa dinamica tutte le immagine degli immobili già sottratti ai beni pubblici e comuni, 23 novembre 2015
Ma anche la giunta Brugnaro punta sulle alienazioni con varie novità inserite nell’assestamento di bilancio triennale di cui si discute in queste ore. Nel piano ci sono novità che allarmano. La Municipalità di Venezia si è già messa di traverso con Andrea Martini perché nel piano si chiede di mantenere l'alienazione per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo ma vengono aggiunti anche Palazzo Donà a S.Maria Formosa e soprattutto villa Herion alla Giudecca e scatta il timore, dice Martini, che l’operazione apra la strada, in cambio di un temporaneo beneficio di bilancio, all’apertura di nuovi alberghi. Entro fine anno dovrebbe essere venduta la vendita dell’ex palazzina Telecom del Lido di Venezia.
Negli ultimi dieci anni sono decine i palazzi già sedi di scuole, uffici pubblici, aule universitarie venduti per fare cassa, con operazioni anche molto discusse: dal Fontego dei Tedeschi all'ospedale al Mare, da Ca' Corner della Regina all'ex Pilsen, come racconta questa mappa attraverso la Venezia messa in vendita pezzo a pezzo (qui il link diretto alla mappa , da sviluppare con le segnalazioni dei lettori)
«La polemica non si placa. Crovato (Lista Brugnaro): “Atto dovuto, il Tar ci darebbe torto”. L’urbanista Stefano Boato: “È una scelta politica, le norme in vigore consentono di dire di no”» La Nuova Venezia, 29 ottobre 2015 (m.p.r.)
Venezia. I cambi d’uso non si fermano. E in consiglio comunale stanno per arrivare due nuove delibere proposte dalla giunta che consentono di trasformare in pezzi di hotel appartamenti finora abitati da famiglie di residenti. La municipalità di Venezia-Murano-Burano ha dato parere negativo. La commissione urbanistica ha dato il via per la discussione in consiglio comunale, nonostante il parere negativo delle opposizioni (Lista Casson, Pd e Movimento Cinquestelle).
«Atto dovuto», si sono giustificati i consiglieri di maggioranza, in testa il capogruppo della Lista Brugnaro Maurizio Crovato e il vice Renzo Scarpa. «Dal punto di vista etico la Municipalità ha ragione», dice, «ma il Tar non avrà la nostra visione politica e le carte danno ragione ai richiedenti. E poi sono accorpati da anni agli alberghi. Dal 2010 al 2014 il Comune ha concesso 2950 cambi d’uso».
«Ma non è vero», replica l’ex assessore all’Urbanistica e capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi, «la gran parte di quegli atti non c’entrano con questo discorso. Sono errori tecnici che sono stati corretti». Fatto sta che i primi due atti portati in commissione Urbanistica dall’amministrazione Brugnaro riguardano la trasformazione di due appartamenti in hotel o loro depandance. Uno al ponte delle Guglie, secondo piano di un palazzetto dove ha sede l’hotel Biasin. L’altro in calle delle Rasse, tre appartamenti adiacenti all’hotel Danieli. Davvero un atto dovuto? L’articolo 21 delle norme Tecniche di Attuazione allegate alla Variante del Piano regolatore prevede che gli appartamenti con superficie inferiore ai 120 metri quadrati siano vincolati a residenza. Ma la stessa norma prevede anche la «scappatoia». «Nelle unità edilizie dove i due terzi della superficie abbiano destinazione diversa da quella abitativa può essere eccezionalmente autorizzato il mutamento d’uso delle parti restanti dell’edificio». Serve il parere della Commissione scientifica e il parere favorevole del Consiglio comunale.
Ma si tratta comunque di una “possibilità”, non di un obbligo. La prova è che non è un provvedimento firmato dai tecnici ma di una delibera. «È così», dice Stefano Boato, urbanista ed ex assessore all’Urbanistica, «volendo quella norma può essere cambiata in due minuti. Fino al 1997 vincolava tutti gli immobili usati come residenza, non solo quelli affittati. Poi le cose sono cambiate, ma la possibilità di intervenire c’è ancora. È una scelta politica, e stiamo parlando del problema più importante per la città storica: fermare l’esodo degli abitanti. Lo diciamo a parole da anni, ma non si fa».
Un momento cruciale per garantire alla collettività la tutela e la fruizione, aperta all'universo mondo, di un eccezionale bene, che oggi rischia di tessere trasformato in un ghetto per ricchi. In calce un dossier da non perdere, e un appello cui aderire.
I fatti sono questi. L’Associazione, si è data uno statuto fondato sulla sostenibilità e la partecipazione, radicalmente innovativo ed interessante, in brevissimo tempo l’Associazione ha ricevuto un notevole numero di iscrizioni (circa 5000 persone) e ha raccolto in un fondo di scopo una somma ragguardevole (circa 450.000 euro) vincolata agli interventi di riqualificazione e manutenzione delle aree verdi di Poveglia. Se entro il 2015 l’Associazione non avrà ragionevoli prospettive di poter intervenire su Poveglia il fondo di scopo sarà restituito ai soci. Con evidente danno per Poveglia e per la collettività tutta.
Al fine di poter intervenire nell’isola l’Associazione ha avanzato alla Agenzia regionale del demanio una domanda di concessione per un periodo di sei anni durante i quali realizzare un programma di sistemazione delle aree verdi, miglioramento degli approdi, pulizia e manutenzione delle aree scoperte e messa in sicurezza con divieto di accesso delle aree costruite a rischio di crolli. Si tratta di un programma serio, nel quale impegnare i fondi raccolti ma soprattutto il lavoro volontario dei moltissimi soci che hanno messo a disposizione le loro competenze, il loro tempo e la loro voglia di trovarsi insieme. Ad oggi la risposta dell’Agenzia è stata dilatoria e sostanzialmente negativa.
Dunque il momento è assolutamente cruciale: occorre convincere l’Agenzia a dare in concessione le parti verdi dell’isola entro il 2015. L’Associazione si è mobilitata su molti fronti: dalla campagna “Ocio che rivo” dove una giraffa (animale che nel 1828 effettivamente soggiornò in quarantena a Poveglia sulla strada verso l'imperatore d'Austria e che destò grande stupore ed entusiasmo nella Venezia dell'epoca) catalizza l’attenzione sui fatti di Poveglia, alla raccolta di firme, alla informazione capillare sui social network e sui mezzi di comunicazione, alla sollecitazione dell’Agenzia del demanio perché consideri tutti i lati positivi, anche nelle logiche dell’Agenzia, della concessione a Poveglia per tutti.
Abbiamo bisogno della simpatia e del sostegno di tutti. Il dossier aiuta a far conoscere la vicenda, racconta i momenti essenziali della formazione dell’Associazione e dei suoi difficili rapporti con il Demanio. Il caso di Poveglia è inquadrato nel più generale problema delle isole veneziane, strette nella morsa tra privatizzazione e abbandono. Un quadro fatto dalla storia delle isole della Laguna già passate in mano a privati, per lo più trasformate in alberghi di lusso e sottratte all’uso pubblico, e dalla storia delle moltissime altre isole demaniali abbandonate all’incuria e al degrado. Compresa Poveglia da decenni consegnata all’ammaloramento, al saccheggio e allo sviluppo incontrollato della vegetazione dei rovi e delle specie invasive.
Se tutti insieme riusciremo a fare in modo che l’Associazione abbia la titolarità di una concessione dell’isola sarà un vantaggio per Venezia e per l’Italia, dove si vanno moltiplicando le iniziative dei cittadini per il mantenimento dei beni demaniali all’uso pubblico, al quale sono strutturalmente destinati. Tutti i livelli di governo a parole dichiarano, oggi, di voler promuovere le iniziative a favore dell’interesse pubblico che partono dal basso, dai cittadini e dalla loro voglia di coesione sociale. Poveglia è una occasione straordinaria per passare dalle parole ai fatti.
Se potremo realizzare gli interventi, la solidarietà collettiva, le iniziative culturali di cui è fatto il progetto di Poveglia per tutti saremo riusciti a non disperdere un prezioso capitale sociale, a costruire un rapporto tra cittadini e istituzioni all’altezza dei tempi e a realizzare concretamente la sola autentica valorizzazione economica e sociale dei beni pubblici: quella messa in atto dai cittadini e dalle loro relazioni.
Riferimenti
Questo collegamento vi permette di scaricare il dossier riccamente illustrato, prodotto dall'Associazione. Vi invitiamo inoltre a votare il progetto "Poveglia per tutti” che è tra i 40 progetti selezionati tra 700 presentati in tutt’Italia dal bando “CheFare”. Qui trovate il progetto, qui potete votarlo, e vi invitiamo a farlo.
Potete anche firmare qui la petizione “Perché l'Isola di Poveglia rimanga pubblica e ritorni fruibile a tutti”
Su eddyburg abbiamo raccolto numerosi articoli sull'isola di Poveglia. Potete raggiungerli facilmente digitando la parola "Poveglia" nella cella sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente d'ingrandimento.
Sarebbe ora che l'Unesco assumesse le sue responsabilità. Ma: 1) Mose e grandi navi hanno amici all'Unesco. 2) a Brugnaro non glie ne può fregà di meno. La Nuova Venezia, 18 ottobre 2015
Grande feeling con Brugnaro, un’ora di faccia a faccia a porte chiuse. Il sindaco: "Ho grande fiducia, non ha fatto promesse ma ci aiuterà"». Dio prima li fa e poi li accoppia: in comune anche la cultura. La Nuova Venezia, 17 ottobre 2015
VENEZIA Il governo salverà Venezia. E il rilancio dell’Italia ripartirà dalla cultura [sic]. Il premier Matteo Renzi sbarca in laguna e offre l’assist al sindaco Luigi Brugnaro. «Non ci fa velo il risultato elettorale», dice, «il nostro ruolo istituzionale è di essere pronti e disponibili. Il governo farà la sua parte». Prima volta a Venezia dopo la campagna elettorale di primavera, in cui il Pd aveva sostenuto Felice Casson. Ma è andata diversamente da quello che il centrosinistra si augurava. E a Ca’ Farsetti adesso governa l’imprenditore Luigi Brugnaro. Che è riuscito dove non erano riusciti i suoi predecessori. E ha portato a Ca’ Farsetti, sede del municipio veneziano, il presidente del Consiglio per spiegargli l’emergenza Venezia. Oltre un’ora di incontro a porte chiuse. Poi Renzi affronta i giornalisti.
Difficile tener conto delle prodezze di Luigi Brugnaro, sindaco pro-tempore di Venezia. L'ultima, la riprendiamo dal sito di Italia Nostra, 14 ottobre 2015, con postilla
Ispettori Unesco: le associazioni ammesse all’ultimo momento
Gli ispettori inviati dal dipartimento dell’Unesco dedicato ai siti Patrimonio dell’Umanità devono valutare se “Venezia e la sua laguna” (questo è il nome corretto del sito) siano gestiti in modo consono ai requisiti necessari per essere inseriti nella lista e mantenuti in essa, ossia se non vi siano “pericoli o minacce, imminenti o potenziali, che potrebbero avere effetti negativi sull’area dichiarata Patrimonio dell’Umanità” (citiamo dalle pagine Unesco World Heritage in Danger). In quel caso un’apposita commissione può “proporre e adottare un programma d’interventi protettivi e in seguito monitorare la situazione del sito”. Era stata la sezione di Venezia di Italia Nostra, preoccupata per i progetti di scavare la laguna per le grandi navi e per l’effetto sulla città di un turismo non regolato, a scrivere all’Unesco che il sito poteva considerarsi in pericolo per la sua integrità sia fisica sia culturale. L’Unesco aeva accolto la richiesta e deciso di inviare un’ispezione.
All’arrivo dei tre ispettori cominciò a circolare una lista delle visite e degl’incontri che avrebbero effettuato. Ma, sorprendentemente, né Italia Nostra (origine prima dell’ispezione) né alcuna associazione di cittadini erano nella lista. Si apprese che l’Unesco aveva come interlocutore ufficiale il Comune e che ad esso si era rivolto per stabilire i dettagli dell’ispezione. E il Comune aveva inserito tra gli impegni soltanto incontri con enti, istituzioni e categorie economiche interessati a mostrare che tutto andava benissimo (se ne trova un elenco in un nostro post precedente).
E’ stata necessaria una giornata di ricerche e di telefonate affannose, culminate con l’ intervento di un ministero da Roma, perché un minimo di equilibrio venisse ristabilito. Martedì 13 ottobre, alle 16.58, una lettera del Mibact informava quattro associazioni veneziane (Italia Nostra, WWF, Fai, Lipu) che un’audizione era stata organizzata, e che doveva tenersi il giorno dopo, alle 17, nel palazzo Unesco di Ruga Giuffa, in coda alle altre audizioni concesse alle”categorie” di operatori economici. Per ognuna delle quattro associazioni era previsto un incontro di cinque minuti!
La nostra sezione ha così messo a punto rapidamente il materiale che già aveva disposto, corredandolo di altri brevi documenti ad hoc, e si è presentata. Le audizioni si sono svolte in un ufficio separato dagli altri, in forma che si potrebbe definire segreta (ci è stato comunicato che non vi erano stanze più grandi disponibili).
Italia Nostra è entrata per prima, seguita dal WWf. Poi le altre associazioni sono state ricevute tutte assieme, anche perché si stava facendo tardi (i cinque minuti assegnati a noi erano diventati più di trenta, un tempo comunque insufficiente per presentare le nostre osservazioni e proposte). Alla fine delle riunioni i tre ispettori hanno suggerito che le associazioni producano un documento unico, sintetico, con dati affidabili e citazioni di studi scientifici che riassumano le comuni preoccupazioni per il Sito Patrimonio dell’Umanità e contengano anche delle proposte concrete.
Sarà ora nostro compito redigere quel documento, che posteremo subito su questo sito. Intanto e fino a domenica 18 ottobre continua il lavaggio del cervello degl’ispettori a opera di Sindaco, Autorità portuale, Consorzio Venezia Nuova, Corila, Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Aepe. Mai come ora ci rendiamo conto di quanto potenti siano gli operatori economici in questa città, anche se rappresentano solo una minoranza dei residenti.
Non mi è simpatico, ma Luigi Brugnaro mi ha fatto un grande piacere. Grazie a lui della mia mostra si è parlato in tutto il mondo: Guardian, El Paìs, New York Times. Senza di lui, l’avrebbero vista al massimo duecento persone”. Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin torna a parlare delle sua mostra Venezia e le grandi navi, della censura del Comune, delle parole del sindaco. Lo fa nel giorno in cui è stata ufficializzata la rinuncia a Palazzo Ducale, lo spazio pubblico cui aveva offerto i propri scatti. Una rottura dovuta proprio all’opposizione di Brugnaro. La mostra, che verrà inaugurata il 22 ottobre, si terrà in uno spazio poco distante gestito dal Fai: le Officine Olivetti [si tratta in realtà del negozio Olivetti in Piazza San Marco, l'eccezionale opera di Carlo Scarpa n.d.r.]. «Il sindaco - racconta Berengo Gardin - mi ha definito sfigato, intellettuale da strapazzo, perfino intoccabile. Quasi mi ha lusingato, non sapevo di essere un intoccabile. Dopo la sua opposizione alla mostra mi hanno chiamato in tanti, anche da fuori Venezia. Ringrazio chi, come Roberto Koch e Alessandra Mauro della Fondazione Forma, hanno affrontato questa situazione difficile. E tutti quelli che si sono spesi per la mia mostra: Adriano Celentano, certo, ma anche centinaia di cittadini”.