Riemerge a Venezia la proposta sulla separazione della città antica dal resto del territorio dell'attuale Comune. In una stagione in cui i recinti prevalgono sulla capacità di governare l'equilibrio tra pareri diversi d'un unico sistema, la proposta appare meno irragionevole che nel passato. La Nuova Venezia, 14 gennaio 2017 (m.p.r.)
Se Venezia, Murano e Burano costituissero un comune separato dalla terraferma, forse oggi la difficile questione del turismo sarebbe vicina a una risposta sensata, in linea con l’importante esigenza di salvaguardare la vita e l’economia locali senza rinunciare al benefici di un afflusso anche importante di visitatori. Questa è almeno la sensazione che si ha di fronte alla lettura di un documento approvato nel pomeriggio dell’11 gennaio dalla municipalità appunto di Venezia, Murano e Burano: un corpo di amministratori pubblici che riflette la composizione delle forze politiche presenti su quei territori.
Come approfittare della morte d’un grand’uomo per tirare l’acqua al proprio mulino. La Nuova Venezia, 8 gennaio 2017, con postilla.
Leonardo Benevolo, che rappresentava l’espressione più alta di questo pensiero e che più di qualsiasi altro aveva la dimensione culturale di ragionare su Venezia nel quadro di un pensiero urbanistico universale e storicamente fondato, venne chiamato a dirigere e a fare da garante a questo percorso. Nel 1996 venne presentato a Roma nella sede dell’Associazione Stampa Estera e alla presenza di tutti i maggiori urbanisti italiani, di cui si desideravano e non si temevano le critiche, il libro Venezia: il nuovo Piano Urbanistico. L’impostazione del Piano, descritto in quel libro nei suoi elementi strutturali, venne accolto da giudizi unanimemente favorevoli e quell’impostazione fu alla base delle successive elaborazioni che dettero corpo ai piani delle diverse parti della città, unificati poi nel nuovo Piano Regolatore di Venezia.
Va qui notato per inciso che, nonostante tentativi estemporanei di modificare in modo distorsivo per alcune parti e su spinte di interessi privatistici le scelte di allora e nonostante la successiva redazione di un inutile PAT, quelle scelte, che pure avrebbero necessità di essere aggiornate, sono tuttora operanti in città. La fine di quell’esperienza è stata qualcosa di più della semplice conclusione di un lavoro, ma ha coinciso con una svolta nell’urbanistica italiana e in quella veneziana che fa parlare ad alcuni di controriforma urbanistica.
Chi volesse conoscere il pensiero di Benevolo sulla fine di quell’esperienza potrebbe leggere un altro libro Quale Venezia (Marsilio 2007); basti questa citazione: «La progettazione intelligente dello scenario fisico è scomparsa dal dibattito politico e dalle aspettative della gente, proprio mentre si concreta il grande avvenimento epocale a cui tutta la vicenda converge: la distruzione del paesaggio italiano, col suo ruolo primario nella cultura mondiale». E, più in generale, potrebbe leggere gli ultimi libri L'architettura nel nuovo millennio (Laterza 2006) e Il tracollo dell'urbanistica italiana (Laterza 2012), libri di scarso successo per le verità non digeribili dalla cultura dominante che vengono descritte.
Mi rendo conto che questo breve resoconto storico un po’ freddo non dà ragione dell’importanza della presenza di Benevolo e Venezia o lo stesso volerlo definire dal punto di vista della vicenda veneziana rende pallidamente giustizia alla sua dimensione culturale e umana. Per chi come me ha avuto il privilegio assoluto di aver lavorato praticamente tutta la vita al suo fianco, da studente prima, da collaboratore nell’università, e poi in numerosissimi piani urbanistici e infine nella condivisione dell’avventura amministrativa veneziana, diventa estremamente difficile dirne pubblicamente. Le tracce del suo lavoro, oltre ai libri che ha scritto e che in qualsiasi università del mondo mi capitasse di andare scoprivo come fossero tra libri di testo fondamentali, non hanno bisogno di essere celebrate perché hanno agito e agiscono nel profondo entrando a fare parte in modo inalienabile del patrimonio culturale del nostro Paese. A Venezia girano ancora molte persone che sono state allieve o hanno conosciuto Benevolo: è soprattutto a loro che mi rivolgo con queste note.
postilla
Leonardo Benevolo è stato certamente un grande maestro. Moltissimi urbanisti della mia generazione hanno imparato il mestiere a partire dai suoi libri, noti in tutto il mondo. È stato esemplare per la capacità di raccontare con parole semplici, e con una documentazione ineccepibile, le vicende della grande avventura urbana dell’umanità. Chi voglia saperne di più restando su queste pagine legga l’articolo di Francesco Erbani che abbiamo ripreso da Repubblica all’indomani della sua scomparsa.
Come tutti gli uomini (e anche quelli "grandi") nella sua vita ha commesso qualche errore. A compiere l’errore che ho direttamente conosciuto ha contribuito pesantemente Roberto d’Agostino, quando lo ha chiamato a Venezia a “correggere” il piano per il centro storico, che avevamo faticosamente costruito tra il 1985 e il 1990. La demolizione del piano, e la privatizzazione della città storica iniziarono quando, con la giunta guidata da Massimo Cacciari fu scelto assessore Roberto D’Agostino. I disastri urbanistici di quest’ultimo furono puntualmente denunciati su questo sito. Ne è ricca, ad esempio, la cartella di scritti di Luigi Scano.
Una sintetica esposizione dei risultati del cosiddetto "piano Benevolo" è contenuta in un mio articolo del 2007, “Anch’io sono deluso", nel quale descrivo le pesanti conseguenze di quel piano e della politica di cui è stato lo strumento. Un più ampio sviluppo di quella critica è nel mio Memorie di un urbanista, Corte del fontego editore, Venezia 2010, pp.155-156. Per le ulteriori e più recenti malefatte di D'Agostino numerose testimonianze sono raggiungibili in questo sito digitando, nel "cerca" il suo nome (e.s.)
Un accordo per svendere e privatizzare in blocco l'immenso patrimonio pubblico delle isole minori della Laguna, storicamente utilizzate per gli usi della collettività. Il Sole 24Ore, 18 dicembre 2016
È stato firmato oggi un Protocollo di Intesa tral'Associazione Italiana Confindustria Alberghi e l'Agenzia del Demanio che hacome obiettivo quello di individuare ambiti di azione comuni volti avalorizzare il patrimonio immobiliare pubblico in un settore strategico comequello del turismo italiano, che rappresenta una chiave di rilancio perl'economia del Paese. L'accordo, firmato nelle sale dello Starhotels Hoteld'Inghilterra dal presidente Confindustria Alberghi, Giorgio Palmucci, e daldirettore dell'Agenzia del Demanio, Roberto Reggi, si inquadra in un rapportodi collaborazione avviato da tempo che mira ad una condivisione dei criteri perindividuare il patrimonio immobiliare dello Stato da destinare al segmentoturistico.
Dopo il male prodotto dall'autore dell'articolo (15 anni fa era assessore all'urbanistica con il sindaco-filosofo) viene il peggio: con l'urbanistica di Luigi Brugnaro siamo scesi ancora più in basso. La Nuova Venezia, 19 novembre 2016, con postilla
Oltre 15 anni fa, dopo due anni di elaborazione, innumerevoli incontri con le commissioni consiliari, con i quartieri (che allora erano 23) con le forze politiche, con le rappresentanze istituzionali, rispondendo a oltre mille osservazione dei cittadini, prima il consiglio comunale poi gli organismi sovraordinati hanno approvato lo strumento urbanistico generale di Venezia, che, indipendentemente dal successivo Pat, detta ancora oggi le regole di trasformazione della città.
postilla
Roberto D'Agostino è stato assessore all'urbanistica a Venezia nella giunta capeggiata da Massimo Cacciari, ed ha "corretto" nel 1996 il piano allora vigente (approvato pochi anni prima come lascito di un lavoro iniziato dalle giunte di sinistra) nel 1992. Nella sostanza il piano D'Agostino si caratterizzava per l'eliminazione di tutti i "lacci e lacciuoli" che impedivano di mutare le utilizzazioni residenziali in atto. Chi vuole comprendere meglio troverà su eddyburg un'ampia documentazione. Rinviamo in particolare alla lettera di Luigi Scano del 2007 e alla sua puntuale analisi critica nello scritto "Quale piano per il centro storico di Venezia". Oggi Brugnaro ci aggiunge del suo. Quod non fecerunt barbari, fecerunt barbarissimi.
Scompaiono giorno per giorno gli spazi e le istituzioni che consentivano l'incontro, il dibattito, il confronto tra cittadini. Cancellati anche i poteri delle municipalità. Il Trumpino in saòr, sindaco protempore, prosegue il suo lavoro. La Nuova Venezia, 17 novembre 2016
È da anni che si parla del rischio che Venezia si trasformi in semplice meta turistica perdendo la connotazione di “città normale”, pur nella straordinarietà del suo patrimonio artistico, architettonico, ambientale. Una città, infatti, non è più tale se non ci sono ragazzi che vanno a scuola e giocano nei campi, cittadini che fanno la spesa nei mercati, se non ci sono ferramenta in cui comprare chiodi e pittura, mercerie, panetterie, luoghi in cui i cittadini si identificano. Su questo tema si sono mosse numerose associazioni e ultimamente un gruppo di giovani ha promosso iniziative e manifestazioni. Questo dà particolare speranza.
«Tutto a vantaggio dei turisti, ma il Comune non fa una piega, quando potrebbe invece trattare da posizioni di forza». Potrebbe. ma non vuole. Comune e Porto, l'intesa è perfetta. Due crani, un solo pensiero: sfruttare la città finché si può. La Nuova Venezia, 17 novembre 2016
La “dittatura” del Porto sulle aree dismesse della Marittima. La contestata questione del nuovo garage - con albergo da 300 stanze, area commerciale e persino una discoteca - da 2350 posti che l’Autorità Portuale vorrebbe far realizzare nell’area delle ex locomotive, senza neanche un posto riservato ai veneziani, riapre una polemica sempre viva. Quella sollevata anche di recente con una lettera al viceministro veneziano all’Economia Enrico Zanetti - dopo che era rimasta senza risposta quella inviata al sindaco Luigi Brugnaro - dall’Associazione Venezia Cambia, tramite il suo portavoce Marco Zanetti. «La questione è facilmente sintetizzabile.
di Roberta De Rossi
Un dossier di proposte a Ca’ Farsetti. Mezza giunta in corteo, esplodono le proteste
L’orologio conta residenti in campo San Bortolomio ormai scende in picchiata, la soglia dei 55 mila è già superata. Il corteo ieri è salito sul ponte di Rialto dove è stato srotolato uno striscione con lo slogan della giornata. Tra i 500 c’è chi pensa che il «nemico» sia il turismo tout court, chi punta l’indice contro le masse dei pendolari. «Serve un limite alle botteghe-spazzatura - dice Alberto Bettin - e vanno favorite le imprese culturali che attraggano turismo di qualità». E chi punta il dito contro tanti veneziani. «La gente affitta ai turisti perché guadagna di più - dice Giovanna Massaria, immobiliarista che affitta solo a non-turisti - e i controlli non ci sono, è una situazione nata con la connivenza dell’amministrazione».
Ma in mezzo al corteo c’è anche metà giunta guidata dalla vicesindaco Luciana Colle, con l’assessore al Turismo Paola Mar e la presidente del Consiglio Ermelinda Damiano e uno stuolo di consiglieri fucsia. Una presenza che ha scatenato qualche defezione, abbandoni in corsa e proteste anche contro gli organizzatori. «Avevamo aderito a un corteo di protesta, non a una manifestazione di regime travestita», tuona Marco Gasparinetti del Gruppo 25 Aprile. E Giampietro Pizzo di Venezia Cambia: «Chi ha oggi la responsabilità di decidere non può presentarsi come un cittadino qualsiasi». Protesta anche il presidente della Municipalità di Venezia Andrea Martini che «sventola» l’accordo di programma (bocciato dal parlamentino) di Comune e Porto sulla nuova Marittima con hotel e parcheggi per turisti. «Le delibere della giunta - dice il consigliere Davide Scano (M5S) - dicono che ai nuovi amministratori va bene il trend in corso: meno abitanti e più alberghi».
A Ca’ Farsetti, mentre il Doge, simbolo dell’esodo, parte in gondola lasciando la città, gli assessori hanno ricevuto una delegazione di manifestanti con un dossier di proposte, dall’autorestauro dell’Assemblea Sociale per la Casa, alle maggiori tasse per chi affitta a turisti di Venessia.com. «Ci rivedremo a gennaio - spiega dopo l’incontro il portavoce Matteo Secchi - siamo disponibili a lavorare assieme ma non ad aspettare a lungo, è un’emergenza». Pizzo aggiunge: «Vogliamo chiarezza dall’amministrazione, deve rispondere ai cittadini, non a interessi corporativi».
«Prima la speculazione si limitava a distruggere la bellezza, era un dramma estetico. Ora esclude la vita, il cancro è antropologico. Venezia è prossima a ridursi a un deserto occupato da 30 milioni di visitatori all’anno, un non-luogo privo di comunità». Ma ogni tanto appare qualche segno di speranza ,perfino in una città così corrotta da 20 anni di governi al servizio del Mercato. Incoraggiamoli. La Repubblica, 7 novembre 2016
Dove l’acqua finisce, la scelta è non vedere: sull’ex Serenissima si combatte la guerra cruciale che oppone la vita delle persone semplici agli interessi dei capitali anonimi. Si stenta a crederci ma è la verità: uomini contro soldi a Venezia, i veneziani contro i turisti. E la resistenza, segnale di un’evoluzione più vasta e più profonda, parte dai ragazzi, decimati, espulsi e ignorati. Non può che essere così: la città è stata venduta dai suoi abitanti, i vecchi assistono alla tragedia delle colpe dei padri scontate dai figli. La sfida impossibile di chi è nato qui e ha meno di trent’anni è semplice: restare o tornare a Venezia e sulle sue isole per arginare il vuoto, offerta a termine per una massa di estranei.
«L’Italia e la comunità internazionale — dice Silvia Scaramuzza, maestra d’ascia alla Giudecca — non capiscono che il caso-Venezia è un’emergenza che tocca tutti. Prima la speculazione si limitava a distruggere la bellezza, era un dramma estetico. Ora esclude la vita, il cancro è antropologico. Venezia è prossima a ridursi a un deserto occupato da 30 milioni di visitatori all’anno, un non-luogo privo di comunità. Il passo in più è che anticipiamo il destino del Paese».
La novità è che i giovani non si rassegnano: denunciano, si ribellano e soprattutto fanno. Il 10 settembre lo slogan di Generazione 90 era “Ocio ae gambe che go el careo”:n on tutti sono maschere, qualcuno ancora deve fare la spesa per mangiare. Il 2 luglio “Ditelo coi nizioi” del Gruppo 25 Aprile ha coperto centinaia di case con lenzuola che dicevano: “Il mio futuro è qui, non me ne vado”. La prossima protesta di Venessia. com sarà il 12 novembre: “ Venexodus”, o “Tolgo il disturbo”, tutti con la valigia in mano sotto il municipio. Un doge in gondola abbandonerà Venezia per sempre, tirando un trolley.
Sotto accusa il sindaco Luigi Brugnaro, il primo di destra nella storia cittadina, ma pure i predecessori del centrosinistra. Lo shock però l’ha dato Brugnaro: «Il futuro dei veneziani - la sentenza - è a Mestre o sulla terraferma». Come dire che il centro storico è perduto, una città-selfie in un’Italia stile autoscatto, un palcoscenico sull’acqua. Altro che patrimonio culturale: al tramonto solo uno sfondo. «Fuori nessuno ha reagito - dice Piero Dri, 33 anni, laurea in Astronomia ma remèr a Cannaregio - sulle isole abbiamo capito che la situazione è sfuggita di mano. Chi amministra una comunità non può invitarla ad andarsene per fare posto a chi spende di più. La logica del libero mercato, applicata alle persone, elimina la vita: oggi tocca a Venezia, domani al resto d’Italia».
I numeri contano. In laguna, nel 1946, vivevano in 190mila. I due conta-persone pagati dai residenti ora sono a quota 54.970. In settant’anni la popolazione è ridotta a un quarto, mai la peste ha decimato di più. I giovani non sono più di 6 mila: 3 al giorno vanno via, 2 gli sfratti quotidiani. In un giorno qualsiasi di fine ottobre i turisti registrati sono 57.179: i nativi, età media 47 anni, sono sempre minoranza. «Case inarrivabili - dice Marina Colussi, 24 anni, pasticcera a San Barnaba - scelte di lavoro zero, iniziative per i giovani ancora meno. Finiti gli studi è l’ecatombe: o fai la comparsa per i turisti o devi andare via, qui o bevi nei campielli o cammini per le calli. Oppure ti rimbocchi le maniche e lotti per cambiare tutto ritrovando un’anima».
È la strada dei ragazzi della nuova resistenza civile veneziana. Laureati o diplomati, sono sarte e tagliaoro, pescivendoli e cartai, gondolieri e vetrai, merlettaie e contadini, ma pure programmisti di computer e web designer, urbanisti e restauratori, volontari e istruttori di voga alla veneta. Non emigrare è un sacrificio: vivono in famiglia per risparmiare l’affitto, niente matrimonio e niente famiglia, superfluo abolito. Eleonora Menegazzo ha 33 anni ed è figlia della storica dinastia Berta, battiloro nella casa abitata da Tiziano, dietro Fondamenta Nuove. Pur di non trasferire la bottega in terraferma, ogni giorno sta tre ore su corriere e vaporetti. «Devo dormire a Iesolo - dice - e avere pazienza. Ho studiato Economia del turismo, ma agli alberghi ho preferito un mestiere secolare che si fa con le mani. La pazienza e la bellezza camminano insieme, come l’onestà e la giustizia: la missione della nostra generazione è spingere Venezia a riconoscere i valori essenziali». Tra questi, per chi vuole andare veloce, c’è anche la lentezza. Federico Mantovan, 32 anni, laurea a Ca’ Foscari in Beni culturali, consegna il cibo che produce in barca a remi. All’alba parte da piazzale Roma e voga per i canali, vendendo e parlando con la gente sulle rive. «Nessuna nostalgia - dice - contano la felicità e la soddisfazione di fare bene un lavoro che funziona, in modo giusto e in un luogo unico. Il mio modo di ribellarmi alla condanna a morte dei ragazzi veneziani è ricominciare a fare, accontentandomi con entusiasmo».
Questa è una città fondamentale che la cronaca evita di documentare. Parliamo degli scandali e delle grandi navi che violano il bacino di San Marco, dei vecchi che cacciano i giovani per affittare agli stranieri e dei turisti che si tuffano sugli scafi-taxi dal ponte di Rialto, delle tangenti per il Mose e della crescente voglia di indipendenza, dei cinesi che rastrellano palazzi e chioschi di souvenir. Abitanti contro visitatori e comitive contro residenti, due eserciti accomunati solo dall’odio reciproco e dall’incubo di essere fregati. Oltre alla cupidigia, all’egoismo, alla maleducazione e alla criminalità, rinasce invece oggi un universo veneziano che rifiuta modelli finiti, preferendo la speranza di una modesta vita bella alla disperazione di un’esagerata morte tranquilla.
«Il futuro è proprio qui - dice Fabio Carrera, docente di Economia in città e negli Usa, fondatore del pensatoio hi-tech per studenti Venice Project Center - nello scatto mentale che induce sempre più ragazzi a rifiutare privilegi fatali e a scegliere l’energia della normalità. Grazie alla giovinezza la realtà sta già cambiando: la solidarietà della “cassa peota” può abbattere il muro di affitti e mutui, il made in Venice supera la monocultura turistica attraverso la ricerca e la tecnologia, l’elettronica e il web risolvono l’emergenza degli accessi di massa. I giovani veneziani, con la testa o con le mani, stanno cambiando il modo di fare soldi, rendendolo compatibile con la loro sopravvivenza. Solo i politici e i vecchi speculatori non lo vedono, o sperano nel fallimento di questa travolgente rivoluzione».
La stessa “idea del turista” a Venezia non è più quella promossa da tour operator e media. Lo schema logoro impone il patto ineludibile distruzione-ricchezza, il sacrificio della città, o del Paese, in cambio dell’agio finanziario. Tra chi conta meno di trent’anni prevale invece la fiducia nel coetaneo che, nel resto del pianeta, si mette in viaggio per la prima volta, incarnando il visitatore del futuro. «Se parli con un turista di vent’anni - dice Giulia Ribaudo, 26 anni, laurea in Filosofia e coordinatrice dell’associazione Closer - nemmeno il concetto di rinunciare è più tabù. Chiudere Venezia è punitivo, chiedere che non tutti visitino sempre tutto, che non ogni tour italiano offra sempre anche l’ebbrezza di uno scatto davanti al Ponte dei Sospiri, è gratificante. I giovani accettano di rinunciare a un’emozione per proteggere Venezia e salvare i veneziani, di passare dal concetto di parco- divertimenti a quello di oasi da tutelare per il bene collettivo ».
La prossima campagna dei ragazzi che vivono sull’acqua, offerta alle agenzie internazionali di promozione turistica, avrà come slogan “Amo Venezia: oggi non voglio vederla, domani sì”. È una dichiarazione d’amore, come quella di Michele Rossetto, 29 anni, vetraio a Murano. Tutto chiude, attorno a lui: nelle fabbriche erano 15mila, sull’isola ne restano mille. Ogni giorno nella piccola fornace di famiglia, per vivere e per restare, fonde trecento perle a lume, fiamma a mille gradi, 40 centesimi a pezzo. Sui vaporetti i marinai faticano meno, trovano una morosa, lo stipendio è certo. Lui si cuoce, è solo, d’inverno è povero. Però dice di essere orgoglioso, come Simone dei Rossi, 21 anni, sveglia fissa sulle 3.45 per portare sogliole e vongole al mercato. «Svolgo un servizio per la mia comunità - dice - riesco a mangiare senza fare danni. La bellezza c’è solo se non ci pensi». Vuole dire che se diventa un espediente da sfruttare, sparisce. È la lezione dei giovani partigiani che resistono sulle isole incantate “al di là del ponte”, che non cedono e che non vanno via, oppure che ritornano. Venezia la stanno salvando loro, poche parole, Venezia sono loro. Non si può dimenticarli, vanno aiutati, molto e subito: sarà una felicità.
Dell'accordo per l'uso pubblico di 10 giorni all'anno del "Padiglione degli eventi" «non risulta si sia immaginato nemmeno di parlarne. Di uso pubblico saranno i servizi igienici del grande magazzino». La Nuova Venezia, 28 settembre 2016 con postilla
postilla
Pagheranno mai un prezzo i ladri di Venezia? quei sindaci, quegli assessori e consiglieri comunali, quelle soprindenze, quei "mecenati", quegli architetti e giornalisti e intellettuali che, quando non sono stati complici, hanno tollerato che a Venezia, ai suoi cittadini di oggi e di domani (e a tutta l'umanità, se Venezia appartiene a essa) è stata sottratta questa icona della città, questo suo gioiello e fuoco?
Poiché é questa è l'operazione che è stata compiuta. Passiamo oltre l'orribile volgarità delle architetture, dimentichiamo per un attimo la cancellazione delle testimonianze del passato, e soffermiamoci sull'uso di questo oggetto stuprato. Salvo per qualche pisciata, l'uso sarà riservato, funzionalmente e di fatto alla nuova borghesia compradora, d'ogni parte del mondo. Anche a quella veneziana purché, ovviamente, sia ricca: non di spirito, ma di schei.
Nessuno si interroga sul nesso turisti/rifiuti. E si sa quanto è difficile coinvolgere i turisti nella raccolta differenziata. La Nuova Venezia on line, 26 settembre 2016
Marghera. Settimana decisiva questa per capire se l’ipotesi di un nuovo inceneritore per Veritas a Marghera si concretizzerà, nonostante l’ampio schieramento contrario. Le interrogazioni dei consiglieri Pd Ferrazzi e Pellicani per una discussione in consiglio comunale o almeno una preventiva riunione di commissione consiliare per far pesare il parere del Comune, socio di maggioranza di Veritas, sono rimaste al momento senza risposta. Così come l’appello rilanciato venerdì dalla consigliera Sambo.
La Municipalità di Marghera fa da sola: convocato d’urgenza mercoledì 28 settembre il consiglio municipale per una presa di posizione decisa contro l’ipotesi inceneritore a Marghera. Che si tratti di un nuovo impianto o un potenziamento del Sg31, bloccato nel 2014, la mobilitazione contro il progetto si allarga. Centro sociale Rivolta, Assemblea contro il rischio chimico di Marghera e comitato Opzione zero Termovalorizzatore a Fusina hanno annunciato che ci saranno mercoledì al consiglio municipale convocato dal presidente Gianfranco Bettin, schierato per il no a qualsiasi ipotesi di inceneritore a Marghera e deciso a sostenere le scelte degli ultimi anni che a Venezia hanno azzerato il ricorso alle discariche, chiuso gli inceneritori, puntato sulla raccolta differenziata e sul riciclo. Bettin trova come alleati anche i cinque stelle che a Palermo hanno raccolto sostegno al no all’inceneritore a Marghera da tanti big del movimento.
I comitati ambientalisti annunciano azioni di protesta: un “mail bombing” è partito ieri, domenica, con decine di messaggi recapitati sulle caselle mail di tutti e 44 i sindaci del Veneziano per invitarli a bocciare le ipotesi, smentite da Veritas, di un nuovo impianto. Giovedì 29 settembre presidio davanti alla sede di Veritas a Mestre. Giovedì in via Porto di Cavergnago dove si riuniscono i sindaci per il consiglio di bacino e la riunione del comitato tecnico di controllo. Previsto un presidio con striscioni e fischietti dalle 9 del mattino. I comitati chiedono ai sindaci di prendere posizione «chiara e netta» contro l’aumento della produzione di combustibile solido secondario negli impianti del gruppo Veritas nonché di dire di no alla realizzazione di nuovi impianti di termovalorizzazione o al potenziamento di quelli esistenti. E si richiede «che scelte così importanti siano discusse con i cittadini e nei Consigli comunali e non portate avanti in modo “carbonaro” come si è tentato di fare».
«Abbiamo fatto applicare per un pomeriggio il decreto Clini-Passera di quattro anni fa. Potenza della musica: le navi sopra le 40 mila tonnellate sono partite con 5 ore di ritardo. Non ci eravamo riusciti nemmeno con i tuffi qualche anno fa». La Nuova Venezia, 27 settembre 2016 (m.p.r.)
«Una giornata straordinaria. Ieri si è vista una grande festa, con tanti veneziani che colgono un’idea diversa di città. Siamo molto soddisfatti per questo segnale di vitalità e andremo avanti. Al sindaco Brugnaro diciamo: se è sicuro che i veneziani hanno già scelto di scavare nuovi canali facciamo un referendum sulle grandi navi in laguna». Tommaso Cacciari, tra gli organizzatori della domenica contro le grandi navi alle Zattere, canta vittoria. Oltre tremila, secondo i conti fatti dagli organizzatori, i partecipanti alla kermesse che è durata dalle 15 fino a notte. Con le band musicali sul palco galleggiante, la festa, i discorsi.
E di rilanciare i «dieci sì», le proposte per fermare la tendenza che sta facendo di Venezia una Disneyland. Stop ai cambi d’uso, controlli sul moto ondoso Non solo una manifestazione. Perché sul palco galleggiante affittato dagli organizzatori si sono alternati dal pomeriggio a sera gruppi famosi. Il clou nell’esibizione di Eugenio Finardi, che ha scandito al microfono slogan contro la grande nave della Costa che usciva illuminata dal canale della Giudecca intorno alle 20. Finardi e poi Oliver Skardy, Gualtiero Bertelli, Furio Forieri, Herman Medrano, Banda Nera, Big Mike, 4 rooms family, i Rimorchiatori, Storie Storte. Cantautori, pop, reggae. Musicisti che si non esibiti gratis per la giornata contro le grandi navi in laguna. «Li ringraziamo come ringraziamo i tanti veneziani che hanno partecipato», dice Cacciari. Adesso speriamo che il governo finalmente scelga e metta fine a questa situazione. I progetti sul tavolo sono tanti». E la battaglia continua. L’obiettivo è rimettere insieme le tante forze («trasversali», dice Cacciari) che hanno a cuore un futuro di verso per Venezia che non sia quello di Disneyland. «Ci ritroveremo presto per fare il punto, insieme ai comitati e alla Municipalità. Intanto grazie a tutti».
Venezia. Una protesta gioiosa e partecipata, a suon di musica (dalla chiatta ancorata alla riva) con almeno un migliaio di persone di tutte le età - duemila per gli organizzatori - assiepate lungo la riva delle Zattere. E barche in acqua - una trentina - talvolta “camuffate” da vascelli di pirati per un “assalto” comunque pacifico alle Grandi Navi che ieri hanno solcato ancora una volta il Bacino di San Marco. Ne erano previste sei in partenza o in arrivo dalla Marittima tra le 16 e le 20, tra cui “colossi” da 90 mila tonnellate come la Msc Orchestra o la Costa Deliziosa, che però hanno atteso fino a sera prima di muoversi.
L’importanza e la qualità del lavoro di sensibilizzazione, mobilitazione e proposta che le associazioni cittadine producono a beneficio della comunità veneziana sono ormai un fatto acquisito, un fatto che nessuno (o quasi nessuno) osa più mettere in discussione. Siamo di fronte a un patrimonio prezioso fatto di saperi, competenze e impegno che mantengono viva la comunità cittadina; un patrimonio che è un’autentica speranza per Venezia, nella convinzione che la città saprà superare anche questa difficile fase della propria storia.
«Il dato è riferito solo agli ultimi dieci anni ma la tendenza non si ferma: oltre 30 mila i posti letto. L’addio degli edifici pubblici (scuole, tribunali, università) per lasciare spazio all’uso ricettivo». La Nuova Venezia, 24 settembre 2016
Domani ci sarà la manifestazione contro le grandi navi alle Zattere, a Venezia. E ieri il sottosegretario allo sviluppo economico, Antonello Giacomelli ha risposto ad una interpellanza presentata per l’occasione dal sottoscritto per sapere cosa si sta facendo per risolvere lo sconcio del passaggio dei «mostri del mare» per il canale della Giudecca e il bacino di San Marco.
Giacomelli ha risposto assai male. Ha detto che non è escluso lo scavo di nuovi canali in laguna (sarebbe un disastro per l’ecosistema lagunare: comitati e ambientalisti sono contrari). Poi ha detto che i traghetti (che sono spesso sotto le 40mila tonnellate) e le navi merce non passano più per il canale della Giudecca, ma si è dimenticato di dire che quasi 600 navi da crociera (che hanno più del doppio delle tonnellate di un traghetto, numero di navi aumentato dell’80% negli ultimi anni) fanno invece su e giù ogni anno per lo stesso canale. Infine il vice ministro – di fronte alla richiesta – di fare qualcosa presto, urgentemente, ha promesso un incontro tra l’Unesco e i ministeri competenti. Addirittura.
Infatti proprio l’Unesco il 13 luglio scorso nel suo vertice in Turchia ha minacciato di togliere Venezia dal catalogo dei siti «patrimonio dell’umanità» se il governo italiano non interverrà entro il 1 febbraio del 2017 su alcune questioni centrali della città: la salvaguardia dell’ecosistema lagunare, la gestione dei flussi turistici, la questione delle grandi navi. Che fa il governo? Convoca una riunione non si sa quando.
E Renzi che parla tanto di Olimpiadi a Roma e ieri di Expo a Milano, su Venezia – che merita almeno eguale rispetto – non spende nemmeno una parola.
Governo che in questi anni ha assicurato attraverso i suoi ministri (Franceschini, Galletti, Orlando) che mai più le navi da crociera sarebbero circolate per la laguna. È successo qualcosa? Niente. Nel 2012 (c’era il governo Monti) con il decreto Clini-Passera si stabiliva il divieto per la navigazione per le navi sopra le 40mila tonnellate, divieto che però veniva sospeso per trovare delle vie alternative alle navi-grattacielo. Decreto che poi è stato integrato da un provvedimento del governo Letta (nel 2013) che riduceva il numero di passaggi e stabiliva comunque a 96mila tonnellate il limite per le navi. Ma sono state trovate queste vie alternative? No. E le proposte presentate (scavo del canale Contorta, Tresse, ecc.) sono un pericolo enorme per la laguna. Qualsiasi via alternativa non deve manomettere l’ecosistema lagunare e non deve avere impatto sulle emissioni (acustiche ed atmosferiche). Ma intanto il governo latita e la giunta veneziana capitanata da Brugnaro non è da meno.
Allora c’è da fare una sola cosa oggi. Nell’attesa di trovare queste vie alternative (ancora da individuare e poi da realizzare e chissà quanti anni passeranno) bisogna imporre il divieto delle 40mila tonnellate «senza se e senza ma» e stabilire un numero chiuso per le navi. Questa è la strada da percorrere se si vuole salvare Venezia.
Domenica alle Zattere. Un solo no contro le grandi navi, ma tanti sì per una vita a Venezia, per le case per gli abitanti, per fermare il moto ondoso e, infine, un grande sì per “la difesa e il ripristino ambientale della Laguna”». La Nuova Venezia, 23 settembre 2016 (m.p.r.)
Venezia: Un palco galleggiante di venti metri per otto sarà allestito per la “Festa granda” del Comitato No Grandi Navi. La manifestazione per ribadire che le grandi navi devono passare fuori dalla laguna sarà domenica, alle Zattere dalle 15 alle 21; giornata in cui è previsto il passaggio di sei navi, due oltre le 90 mila tonnellate.
Una volta all'anno le porte del carcere si aprono, e si scopre un luogo bellissimo e una umanità che non si immagina. Il segreto è nella solidarietà di generee nella collaborazione tra le ristrette, la dirigenza, le associazioni e il territorio. ilPost.it, 19 settembre 2016 (m.p.r.)
La porta d’entrata, verde scuro, pesante, è all’interno di un ingresso come gli altri. Superata la guardiola (un ufficio, qualche calendario della polizia appeso a un chiodo, delle agenti penitenziarie che sbrigano le nostre pratiche e ci fanno lasciare le borse in un armadietto) si entra in un corridoio. Siamo “dentro”, come si dice, anche se non sembra.
Il carcere femminile della Giudecca a Venezia è un posto diverso da come ci si immagina una prigione: più volte ci si ritrova a pensare che è un posto bello e poi subito dopo a pensare che un posto così, bello non può essere. È diverso perché quasi tutte le detenute lavorano, perché c’è una sezione speciale per le madri - anche se la legge le prevede, non è facile trovarne di attive in Italia – ed è diverso perché è solo per donne. Questo significa molte cose, ma due in particolare, dicono le persone che ci lavorano: i reati commessi dalle persone qui dentro hanno una fortissima componente affettiva e molte delle condanne più lunghe nascono da uno strano incastro «tra chi usa la legge e chi invece la applica».
La Casa di reclusione si trova in un antico monastero fondato nel XII secolo. Poco dopo il 1600 divenne un ospizio gestito dalle suore per prostitute “redente” e diede il nome alla calle dove ancora oggi si trova l’entrata principale: calle delle Convertite. Se ci si passa davanti non la si vede subito: poco prima ci sono un campo con una vigna e delle reti da pesca, un piccolo ponte e poi un edificio tra gli altri, solo un po’ più alto, di cui fa parte anche una chiesa. Sulla facciata c’è una targa in latino in cui si parla di Santa Maria Maddalena penitente, delle «donne convertitesi a Dio dalla bassezza dei vizi» e delle suore che «con uno straordinario esempio di pietà» ricevettero nel 1859 dal governo austriaco l’incarico di gestire le carceri. All’epoca, la Madre superiora era anche la direttrice.
Le donne detenute sono una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale: in Italia circa il 96 per cento dei carcerati sono maschi e le donne sono circa il 4 per cento. I dati ufficiali più aggiornati (dicembre 2015) dicono che su quasi 54 mila persone recluse, le detenute sono 2.107: di queste 1.267 hanno condanne definitive e 790 sono straniere. La maggior parte delle donne carcerate si trova in 52 reparti isolati dentro penitenziari maschili e vive una realtà che è stata progettata e costruita «da uomini per contenere uomini»: in molti casi le detenute «sono lontane dalle loro famiglie», hanno necessità di salute particolari e «i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi». Questo lo scrive il ministero della Giustizia nel suo rapporto del 2015 sulla detenzione femminile. Anche l’ordinamento penitenziario le considera poco e disciplina la carcerazione delle donne solo in due commi all’articolo 11 che fanno riferimento, però, alla sola condizione della maternità.
Rispetto agli uomini, le detenute hanno anche minore possibilità di accesso alle attività lavorative: è una «discriminazione involontaria», dice sempre il ministero, causata dal numero limitato di carcerate e dall’impossibilità di condividere gli spazi con gli altri uomini per evitare situazioni di promiscuità: alle detenute, negli istituti di pena, è quindi spesso negato l’accesso alle strutture comuni per fare sport, per studiare o fare dei corsi e soprattutto per lavorare. Sono più carcerate degli altri.
Questo è come le cose funzionano in generale: poi ci sono alcune eccezioni. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne in Italia sono cinque: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e appunto la Giudecca. L’istituto di Venezia è costituito da vari edifici intorno al nucleo originale, formato dalla chiesa e dal convento. Al piano terra ci sono degli uffici, la sala colloqui, il magazzino e la cucina. Al primo piano la sezione detentiva con le aule scolastiche, la biblioteca, quella che chiamano “sala ricreativa”, gli uffici del personale e la cappella. Al secondo piano c’è l’infermeria con una sezione detentiva e due sale. Al terzo piano c’è la “sezione semi-libere”. Altre parti dell’edificio, non utilizzate e un po’ fatiscenti, si affacciano su un grande piazzale interno: è il “cortile dell’aria” con un pozzo chiuso, una vecchia rete da pallavolo e una panchina. Qui “le donne” (così le chiamano le persone che ci lavorano) possono uscire un’ora e mezza la mattina e due ore il pomeriggio.
Il lavoro
Alla Giudecca ci sono 78 donne, il carcere ne può accogliere poco più di un centinaio: 42 sono italiane, 36 straniere di 14 nazionalità differenti. Tra tutte e 78, 57 (cioè il 73 per cento) ha condanne definitive e, in forte controtendenza con la media nazionale, quasi tutte lavorano. Le due o tre che non lo fanno hanno problemi di salute. Ci sono i lavori interni gestiti dall’amministrazione, i lavori di manutenzione ordinaria e poi ci sono una lavanderia, una sartoria, un laboratorio di cosmetica e un posto speciale, che in molti (giornalisti, fotografi, registi) vengono a visitare: l’orto.
All’orto si arriva attraverso un piccolo corridoio dal cortile dell’aria: misura 6 mila metri quadri e ci sono diverse serre. Si coltiva un po’ di tutto, compresi gli ortaggi tipici locali: i radicchi di Treviso (e c’è una vasca per l’imbianchimento), il broccolo padovano, quello di Creazzo, il carciofo violetto di Sant’Erasmo. Girano dei gatti, ci sono anche un frutteto e una sezione “aromatica” dedicata alle erbe officinali e ai peperoncini. Ci fermiamo a parlare sotto agli alberi, è fine estate e l’orto è rigoglioso.
Liri Longo, presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri che gestisce l’orto, e Vania, che ne fa parte da quindici anni, ci spiegano che la produzione è abbondante e che i frutti e gli ortaggi raccolti vengono venduti al mercatino che due detenute allestiscono fuori dal carcere ogni giovedì mattina. Parte della produzione finisce invece nelle borse distribuite dai gruppi di acquisto solidale della zona o rifornisce alcuni ristoranti di Venezia, mentre le erbe aromatiche e medicinali vengono usate dal laboratorio di cosmetica per la preparazione dei prodotti da bagno di alcuni alberghi: detergenti, balsami, creme. Le cose che si coltivano nell’orto non finiscono nella mensa della prigione ma le donne possono acquistarle, se vogliono: lo fanno soprattutto d’estate. Molte, ci spiegano, non mangiano in mensa, ma hanno dei fornelli da campeggio nelle stanze e con quello che possono acquistare cercano di cucinare i piatti delle loro tradizioni («e riescono a fare delle cose incredibili»).
Nell’orto lavorano sette donne e tutte hanno fatto un apposito corso di formazione. Questa è l’occupazione più ambita, ma la convalida delle richieste e la selezione dipende dal fine pena e dalla situazione di ciascuna. Quello dell’orto, che si trova vicino al perimetro dell’edificio, è infatti considerato un lavoro esterno ed è regolato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Chi sta qui lavora tutto il giorno, dal lunedì al venerdì, non ci sono attrezzi complicati o particolarmente moderni e tutto viene fatto a mano: c’è un piccolo trattore parcheggiato all’interno di una serra che però può essere usato solo dall’agronomo. Insieme al tecnico di laboratorio di cosmetica, è uno dei due uomini che incontriamo dentro la prigione.
Le finestre del laboratorio di cosmetica si affacciano sull’orto. Maggie lavora al laboratorio: è rom, ha 28 anni e tre figli: «La cosa migliore che ho fatto», dice. Tra macchinari e barattoli di creme ci racconta che durante i tre anni di carcere preventivo scontati altrove non ha mai lavorato e che il lavoro in carcere viene considerato un privilegio: «Per buona parte della giornata ho una vita normale, le ore in laboratorio passano veloci, i pensieri restano in cella e poi mi posso mantenere: questo è importante per la mia dignità». Dice che quando stava nell’orto era più bello e intanto guarda sorridendo la sua responsabile: «Non mi sentivo in prigione, mi sembrava di essere fuori da qualche parte e poi la sera quando finivo, mi sembrava di rientrare. I lavori esterni sono i migliori perché non sei a contatto tutto il giorno con le persone con cui già devi vivere». Quello nel laboratorio è comunque un lavoro “qualificato”: servono competenze e determinati requisiti. Un’altra donna che ci lavora ci spiega con orgoglio che è necessario un minimo di istruzione: «Bisogna almeno saper leggere e scrivere per seguire le ricette e poi si ha a che fare con dei prodotti chimici, non tutte possono farlo».
La cosa più bella che è successa a Maggie negli ultimi anni, dice, è stata quella di poter vedere i suoi figli su Skype. Oltre alle telefonate, che sono di soli dieci minuti la settimana, frazionabili, da quest’anno per alcune detenute che non hanno la possibilità di fare colloqui e che hanno figli minori lontani c’è l’opportunità di usare Skype. Non è ancora diventata una prassi, però, e Maggie è stata la prima.
Vania, l’operatrice, ci racconta che per il loro lavoro le donne vengono retribuite, come stabilisce la legge. Ci sono una “borsa lavoro” messa a disposizione dal comune di Venezia che è fissa e poi ci sono i ricavati delle vendite che vengono suddivisi dalla cooperativa tra le lavoratrici. Con la «bella stagione» chi lavora nell’orto arriva anche a un totale di 500 euro mensili, compreso il contributo fisso. Il salario in carcere non si chiama così ma “mercede”, che è una specie di residuo linguistico: la retribuzione non è ancora intesa come un corrispettivo per il lavoro svolto, quanto piuttosto come una concessione accordata dallo Stato. Le buste paga vengono gestite da un ufficio interno. Le donne non maneggiano direttamente i soldi, ma possono disporne: mandarne una parte a casa e usare l’altra per comprarsi quello di cui hanno bisogno. «Sigarette, e poi c’è un elenco di cose che possono acquistare al magazzino interno in base a una lista che compilano una volta la settimana».
Oltre a Rio Terà dei Pensieri, all’interno del carcere lavora anche la cooperativa Il Cerchio che gestisce la lavanderia e la sartoria in cui lavorano sette detenute, una con contratto di formazione e sei con una “borsa lavoro” erogata dal comune. Il lavoro proviene da commissioni di ditte esterne tra cui il teatro La Fenice; parte dei vestiti sono in vendita al “Banco Lotto N° 10″, dove lavora una ex detenuta e che è stato inserito in molte guide turistiche.
La convivenza
Alcune agenti penitenziarie ci raccontano che, in generale, le celle e gli spazi individuali del carcere vengono curati con particolare attenzione: le stanze sono ordinate e pulite e si tende a replicare nella stanza l’ambiente della propria casa. Le donne della Giudecca dormono in 22 camere. Il problema principale sono proprio le stanze che sono molto ampie e ospitano più o meno 5-6 detenute ciascuna: ricordano delle camerate e non permettono momenti di intimità e isolamento: «L’essere sempre in collettività viene vissuto come vincolo e limitazione. Non ci sono spazi per la solitudine», ci raccontano le operatrici. «Allora molte donne, anche non credenti, vanno in chiesa per stare da sole o per piangere».
Alla Giudecca lo stare insieme ha creato però qualcosa di buono: un sistema molto particolare per risolvere i conflitti. Quando c’è un problema le donne si riuniscono in assemblea, se ne assumono la responsabilità e cercano di trovare, insieme e autonomamente, una mediazione. Questo meccanismo funziona. Le assemblee sono molto animate, ma le decisioni prese (senza l’intervento delle agenti o di altre mediazioni “esterne”, se non è necessario) convivono o rendono più semplici quelle dell’amministrazione e della direzione in una relazione tra i due livelli «molto particolare e collaborativa». Il merito di questa situazione è attribuito all’attuale direttrice, Gabriella Straffi, che tra poco andrà in pensione. Tutte le persone con cui parliamo sono molto preoccupate da quello che succederà dopo. Il timore è che la Casa di reclusione della Giudecca possa essere associata alla direzione del carcere maschile: «E invece è solo una direzione autonoma che potrà mantenere viva quella sensibilità di genere che qui è indispensabile».
Donne che sono anche madri
Le donne incarcerate hanno mediamente condanne più brevi rispetto a quelle degli uomini, e hanno minori probabilità di avere qualcuno a cui affidare la casa e la famiglia. A Venezia dalla fine del 2013 è attivo un ICAM, un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute. Ci vivono 9 donne e 5 bambini (alcune di loro sono incinte). Due mamme lavorano nell’orto, mentre una volta non potevano: all’interno del carcere le madri erano solo madri, e non erano inserite nelle attività lavorative.
E. A. preferisce che il suo nome non venga scritto per esteso, ha 32 anni che si faticano a ritrovare nell’espressione del viso, ha qualche tatuaggio ed è arrivata alla Giudecca nel febbraio del 2012. Resterà qui fino al febbraio del prossimo anno «e sembra manchi poco, ma qui il tempo non passa mai». E. è rom, lavora nell’orto dal 2014 e tiene il banchetto esterno del giovedì. Dorme nell’ICAM e il bambino più grande qui alla Giudecca, che ha quasi sei anni, è suo; ha altri 5 figli che non vede e non sente da moltissimo tempo. Le chiediamo che spiegazioni ha dato al figlio quando è cresciuto e ha cominciato a fare delle domande. Dice che non gli ha detto che vive in una prigione: «Forse lui se ne rende conto, ma gli ho raccontato di dover stare qui perché ci devo lavorare». In un tema fatto a scuola il bambino di E. ha scritto di avere una macchina blu e una barca, sempre blu, che sono la macchina e la barca che la polizia usa per i vari trasferimenti. Nel cortile dell’ICAM il figlio di E. ha anche festeggiato un compleanno invitando «da fuori» i compagni di scuola. Quando usciranno, tra qualche mese, E. e suo figlio andranno insieme in una casa famiglia.
Ogni giorno al carcere della Giudecca arrivano dei volontari che vengono a prendere i bambini per portarli all’asilo, a scuola, o ai campi estivi. L’ICAM è un ambiente creato per loro. Lo si intravede poco dopo il corridoio d’entrata: c’è un giardino verde con un’altalena e qualche gioco, le stanze e i corridoi sono colorati, le camere da letto hanno lettini o culle. Ci sono passeggini, seggioloni e quello che a una madre e a un bambino può servire. Ma l’ICAM di Venezia è solo uno dei pochi che avrebbero dovuto essere aperti dopo l’approvazione della legge, nel 2011.
Per amore e per una strana alleanza
Il 26 per cento delle donne che si trovano alla Giudecca è formalmente in carico al Ser.D. (il Servizio per le dipendenze), mentre il 33 per cento è seguito dal servizio di psichiatria. I reati commessi sono i più diversi: si va dai furti più banali a quelli nelle case, fino agli ergastoli per omicidio. In generale alla Giudecca vengono inviate le donne che devono scontare condanne elevate, proprio per la struttura del carcere e per come è organizzato.
Sergio Steffenoni, garante per i diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del comune di Venezia, ci racconta che in molti casi le condanne elevate nelle donne hanno una spiegazione comune che ha a che fare l’articolo 146 del codice penale. L’articolo dice che «l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita se deve aver luogo nei confronti di una donna incinta o se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno».
Spesso le donne incinte o madri nelle carceri italiane sono sinte o rom, sono giovanissime e consapevoli che con l’attuale legislazione in breve tempo saranno messe in libertà: la legge è stata pensata per tutelare i minori, ma si può ritorcere sulle madri che spesso sono spinte dai mariti e dalla “tradizione” a delinquere, a fare figli e poi a delinquere ancora, accumulando insieme condanne e bambini. Ci sono donne di 35 anni con 25 anni da scontare e 8 figli che spesso non hanno avuto tempo di crescere. In un documento fatto dalle donne rom e sinte della Giudecca in occasione degli Stati Generali del ministero della Giustizia c’è scritto che nei loro confronti «non c’è nessuna prevenzione, nessuna tutela, nessuna assistenza». E parlano di una specie di «alleanza» tra magistrati e mariti: i primi rispettano la legge, i secondi la usano. In entrambi i casi, loro sono le vittime: «Consapevoli ma senza strumenti economici, sociali o culturali per ribellarsi».
I reati commessi dalla donne in generale, ci raccontano Steffenoni e Marina Zoppello, l’educatrice, hanno una componente “affettiva” molto alta: cosa che non avviene invece per gli uomini. Questo comporta, tra le altre cose, che le donne tendano a giustificarsi più degli uomini e quindi trovino più difficoltà nella presa di coscienza di quel che si è fatto: «C’è una specie di rivendicazione del reato», anche nella fase di esecuzione della pena. La componente emotiva crea una maggiore difficoltà nell’accettazione della detenzione; i tempi di elaborazione, del pentimento e della cosiddetta “revisione critica” sono molto complessi e dolorosi. «Il reato è stato compiuto per amore dei figli o del compagno: diventa così un incidente di percorso e non una scelta pienamente consapevole. Il sentimento prevalente è la preoccupazione per il dopo, legato non soltanto alla possibilità di un reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale: spesso molte di queste donne, prima, hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle».
Marina Zoppello ci parla di persone molto complesse «che hanno lottato tanto nella vita, che hanno tenuto insieme la famiglia con un’altissima spinta protettiva, che hanno sopportato violenze e abusi e che a un certo punto sono esplose». Nei maschi, ci spiega l’educatrice con molta delicatezza e cercando di non essere fraintesa, prevale la progettualità del reato, mentre dalle donne «il reato è in un certo senso subìto». Chiediamo se intervenendo sul prima, sulle situazioni di violenza domestica o di sfruttamento per il mantenimento della famiglia, per esempio, si possa in qualche modo evitare che al reato ci si arrivi: «Sì, molto probabilmente e nella maggior parte dei casi sì».
Manifestazione promossa da Generazione 90. «A centinaia con carretti e borse della spesa per ponti e calli: "Per riprenderci Venezia. Diamo un segnale di normalità perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi"». Veneziatoday.it, 10 settembre 2016 (m.p.r.)
Sono partiti alle 10 da Rio Terà San Leonardo a Cannaregio, con destinazione il mercato di Rialto, armati di borse della spesa, carrelli e passeggini. E a giudicare dalla partecipazione attiva, almeno qualche centinaia tra ponti e calli, non si può certo dire che la manifestazione "Ocio ae gambe, che go el careo!" sia stato un insuccesso. Un corteo per dire "no" alla morte di Venezia, per resistere e impegnarsi per difendere la vivibilità e la residenzialità della città.
L'iniziativa è stata promossa dai ragazzi di "Generazione 90", il gruppo trasversale di ragazzi ventenni e trentenni nato tre mesi fa per tutelare il diritto di vivere Venezia. "Diamo un segnale di normalità, - avevano spiegato qualche giorno prima del corteo - perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi. Tutti sono invitati a partecipare, portando carrelli della spesa e passeggini: il senso dell'iniziativa è proprio quello di guardare al futuro con coraggio. Ci teniamo a sottolineare che il corteo è apartitico e preghiamo quanti vorranno partecipare di non portare simboli di alcun tipo". Al termine della manifestazione, attorno alle 11.30, non è previsto alcun tipo di intervento, "perché il tempo delle parole è finito ed è invece il momento per i cittadini di mostrarsi uniti in difesa di Venezia".
Moltissime le associazioni che hanno aderito all'iniziativa, da Masegni e Nizioleti a Italia Nostra - Venezia e VeneziadeiBambini, dall'Associazione San Francesco della Vigna a Evenice e Venezia360. Queste si sono aggiunte a quante precedentemente avevano aderito, da Mamme con le Rampe a Rialto Novo, da Venessia.com ai Cerchidonda, da Garanzia Civica al Circolo Ricreativo 3 Agosto, dal Gruppo 25 Aprile ai Giovani Veneziani.
Si delinea il fronte degli operatori economici, artigiani ed albergatori, e di associazioni di cittadini che chiedono un freno all'invasione turistica. Non decolla il dibattito su quale Venezia, diversa da quella turistica, si vuole realizzare. La Nuova Venezia, 7 settembre 2016 (m.p.r.)
«L’analisi di Gherardo Ortalli, a capo dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti. "È mancata qualsiasi politica di programmazione, superato il limite massimo"». La Nuova Venezia, 4 settembre 2016 (m.p.r.)
Venezia. Trenta milioni di turisti l’anno, di cui i due terzi escursionisti giornalieri. Palazzi ed ex conventi che diventano alberghi, appartamenti trasformati in affittacamere e bed and breakfast, posti letto moltiplicati e diventati oltre 50 mila, come gli abitanti della città. B&B passati da pochi anni da 96 a 2727, mentre gli alberghi a quattro stelle sono diventati 116, il doppio del 2010, quelli a cinque stelle 21 (quando erano soltanto 5). Senza contare gli appartamenti affittati «in nero». Una valanga che rischia di travolgere il fragile equilibrio della città storica.
Ad esempio? «La ricerca di Paolo Costa e Jan van der Borg alla fine degli anni Ottanta. Si fissava un limite preciso al numero dei turisti. Ventimila giornalieri, sette milioni l’anno che la città poteva sopportare senza esserne snaturata. Ma l’asticella è stata sempre alzata. Risultato, oggi siamo a 30 milioni: evidentemente il parere degli esperti e degli studiosi non interessa nessuno».
Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato...(segue)
Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato mentre stende la mano benedicente verso le prime capanne ed i primi abitanti della laguna. Ora gli abitanti della laguna sono stati cacciati, e ognuna di quelle isole benedette è diventata, o si avvia a diventare, un albergo di lusso.
Periodicamente appaiono articoli di stampa nei quali si dà conto, spesso compiacendosene, che “a Venezia è caccia ai resort sulle isole…. il fenomeno si sta intensificando… le isole stanno vivendo un vero e proprio boom di gradimento e attirano investimenti esteri (Sole 24 Ore, 15 maggio 2015). Non si dice, però, che il “fenomeno” è il risultato del piano messo a punto e accuratamente attuato dagli amministratori locali a servizio degli investitori, per cedere ai privati la proprietà non solo di singoli edifici, ma di intere isole.
Le decisioni del comune che, come “bombe intelligenti” sono state usate per “neutralizzare” gli abitanti e salvare le pietre, hanno colpito tutto il territorio lagunare. Ma è nella serie di isole che si snoda a sud della Giudecca e di San Giorgio: la Grazia, San Clemente, Sacca Sessola, Santo Spirito, Poveglia, che il progetto, avviato vent’anni fa, con l’intento di trasformare la laguna in un contenitore di villaggi per le vacanze dei ricchi è stato portato a termine nel modo più completo e sistematico.
San Clemente e Sacca Sessola.
Nel 1997, subito dopo la rielezione a sindaco di Massimo Cacciari, il comune inizia le procedure per la vendita di San Clemente, già sede di un ospedale psichiatrico, nella cui proprietà era subentrato alla provincia, nel 1992, in seguito alla chiusura delle strutture manicomiali imposta dalla legge 180 del 1978, fermo restando il vincolo di utilizzo a favore delle attività della ULSS, l’azienda sanitaria locale.
San Clemente |
Il primo atto è un accordo di programma con l’azienda sanitaria e con la regione (ai tempi presieduta da Giancarlo Galan), accordo che viene sottoscritto in tempi rapidissimi, perché tutte le istituzioni coinvolte sono favorevoli all’operazione. Scrive, ad esempio, Carlo Crepas direttore della ULSS in una lettera al sindaco: “caro Cacciari, come ti ho più volte illustrato, stiamo seguendo le vie più opportune per addivenire alla alienazione dell’isola di san Clemente, cui l’amministrazione comunale è molto interessata al parimenti di noi.. il ritorno per il servizio sanitario nazionale e l’utenza sarebbe positivo e incontrovertibile… inoltre… in questo momento vi sono buone possibilità di reperire sul mercato potenziali acquirenti tenuto conto della carenza di posti letto alberghieri nel centro storico veneziano, in relazione anche al periodo concomitante con il prossimo Giubileo”.
Nel mentre lavora per consentirne la vendita, il comune si attiva anche per rendere più appetibile l’acquisto dell’isola, modificandone le destinazioni d’uso che, secondo il piano regolatore, erano: ospedali per la parte edificata e rurale a cultura estensiva per quella non edificata. La variante al piano regolatore, predisposta nello stesso 1997 dall’assessorato all’urbanistica, di cui è titolare l’architetto Roberto d’Agostino, si pone come obiettivo quello di “determinare le condizioni reali per l’utilizzo del bene” e indica tra le destinazioni ammesse: abitazioni collettive, attività ricettive, espositive, di istruzione, uffici, attività ricreative e culturali. In alcuni edifici, inoltre, autorizza l’inserimento di nuovi solai per aumentare il numero dei piani.
Dopo di che, l’isola, che ha una superficie di 6,7 ettari, va all’asta e, nel 1999, viene acquistata, per l’equivalente di circa 10 milioni di euro, dalla Compagnia Finanziaria di Investimento spa di cui è principale azionista Gilberto Benetton.
Si conclude, così, la prima parte di una vicenda che è un caso da manuale della saldatura tra privatizzazione della sanità pubblica e privatizzazione del territorio. A nulla sono valse le proteste, peraltro isolate, di cittadini e associazioni, tant’é che, nel 2004, il Tar respinge il ricorso dell’Associazione italiana per la tutela della sanità mentale, che aveva denunciato lo sviamento di fondi pubblici da parte dell’azienda sanitaria locale perché aveva ignorato il vincolo d’obbligo dei proventi della alienazione a favore di attività e servizi per la salute mentale e “aveva deportato i ricoverati per liberare l’isola e farne una perla del turismo lagunare”.
La successiva realizzazione del complesso alberghiero vede alterne vicende e cambi di proprietà, che non inficiano, però, il successo complessivo dell’operazione. Ora San Clemente appartiene alla società turca Permak che l’ha data in gestione al gruppo Kempinski. Nel marzo 2016, l’albergo è stato riaperto con il nome di San Clemente Palace Kempinski Venezia. “Il Palace è perfetto per il portafoglio Kempinski” ha detto l’amministratore delegato della società. “Offre relax totale.. su un’isola privata che si sviluppa su più di sette ettari e con splendidi giardini, gli edifici storici del monastero e una chiesa risalente al XII secolo ”.
Sacca Sessola |
Simili, e pressoché contemporanee le tappe che hanno consentito la trasformazione di Sacca Sessola, già sede di un ospedale per malattie polmonari, in albergo gestito da una multinazionale del turismo di lusso.
Nel 1997, il comune adotta una variante al piano regolatore che modifica le destinazioni d‘uso della grande isola, 16 ettari di superficie, che l’azienda sanitaria locale intende vendere per 13 milioni di euro. In questo caso l’acquirente non è un “imprenditore mecenate”, ma la CIT Compagnia italiana del turismo che, nel 1998, è stata privatizzata dal governo Prodi e usando soldi pubblici si è lanciata in speculazioni nei settori più vari. Prima di fallire, la CIT realizza un albergo al grezzo il cui completamento si prolunga per una decina d’anni. Nel 2012, l’amministrazione del sindaco Giorgio Orsoni elimina la previsione di attrezzature sportive, che secondo gli strumenti urbanistici avrebbero dovuto essere create nella parte nord ovest, perché “non vi è alcun interesse da parte dell’amministrazione comunale all’uso di impianti sportivi in quell’ambito” e approva il progetto di riqualificazione unitaria predisposto dai proprietari.
Ora l’isola appartiene a una finanziaria tedesca la Aareal Bank, che l’ha data in gestione al gruppo americano Marriott. A sancire la conquista, i nuovi padroni hanno cambiato il nome di Sacca Sessola, battezzandola Isola delle Rose.
Oltre alle 250 camere della parte propriamente alberghiera, il Marriott Venice Resort ha al suo interno una chiesetta che verrà ristrutturata per i matrimoni e un “centro benessere” con tre piscine, di cui una coperta, “la spa più grande di Venezia.. . un paradiso a portata di turista dove il relax non è più un semplice lusso” (La Stampa, 29 giugno 2015).
Nei messaggi pubblicitari dell’albergo, che per Marriott rappresenta “la prima proprietà 5 stelle de luxe in Italia”, l’isola è descritta come “un luogo unico per rigenerarsi… carico di energia positiva, vi spira una brezza, già mediterranea nel gioco delle correnti, fresca e benefica”. Non a caso era un sanatorio!
La Variante al Piano regolatore generale
per la Laguna e le isole minori
Soddisfatti per l’esito delle varianti di San Clemente e Sacca Sessola, gli amministratori comunali decidono di non procedere più caso per caso, ma di predisporre una Variante al Piano regolatore generale per la Laguna e le isole minori. Il documento, redatto tra il 1999 e il 2001, è adottato dal comune nel 2004, quando è sindaco Paolo Costa, ma l’assessore competente è ancora l’architetto D’Agostino.
Bisogna “approntare un quadro urbanistico che consenta il riuso e sia già pronto quando si presentino i potenziali investitori”, si legge nella relazione che illustra la filosofia del comune nei confronti dei beni pubblici e descrive i criteri e le modalità di intervento più idonei per renderli attraenti ai privati.
Secondo gli estensori, infatti:
- se molte isole sono state abbandonate è perche le loro destinazioni non erano più appropriate, “si trattava di usi poveri che sfruttavano l’insularità per creare condizioni di segregazione rispetto al contesto urbano”,
- essendo abbandonate, le isole sono soggette ad usi predatori… è la “tragedia dei commons” per cui i beni pubblici vengono sfruttati in maniera non sostenibile,
- il piano regolatore generale del 1962 vincola molte isole della laguna a destinazioni d’uso obsolete, militari e ospedaliere, da tempo cessate e non più opportune, il che ne ostacola seriamente l’uso.
Ne deriva l’obiettivo primario di “favorire il riuso delle isole con attività che generino flussi di persone tali da giustificare nuove linee di trasporto pubblico, anche a chiamata, cosicché gli usi controllati aiutino a combattere quelli predatori”.
Dal punto di vista operativo, e tenuto conto che il recupero è possibile “solo per funzioni che diano agli immobili un valore tale da rendere economicamente sostenibili i costi, la variante indica una “gamma realistica di destinazioni compatibili con la valorizzazione di ogni isola e della porzione di laguna limitrofa”. Fra gli usi ammessi ci sono sempre attrezzature collettive “non necessariamente di proprietà pubblica” e, siccome per alcune isole “il recupero all’uso può essere ostacolato dall’insufficiente capienza degli edifici esistenti”, è ammessa la realizzazione di strutture necessarie all’efficiente esplicazione delle funzioni previste dallo strumento urbanistico” (cioè nuovi edifici).
Per i cittadini (i “predatori” secondo l’amministrazione comunale) poco resta. La variante dice solo che “onde evitare che il recupero all’uso da parte dei privati si traduca nella impossibilità di accedere alle isole da parte della generalità dei cittadini, laddove ciò appariva ragionevole è stata ricavata una porzione da destinare a spazio d’uso pubblico… che sarà regolato da convenzione tra privati proprietari e comune e ne stabilisca orari e modalità compatibili con l’uso principale dell’isola”.
Santa Maria della Grazia
Santa Maria della Grazia |
Per attirare i compratori, oltre ad un quadro normativo sempre più “business friendly” , le amministrazioni pubbliche fanno a gara nell’abbassare i prezzi delle isole a valori fuori mercato. Nel 2001, ad esempio, la regione autorizza l’azienda sanitaria locale che intende alienare l’isola della Grazia, di quasi 4 ettari, “al fine di ricavare risorse necessarie al miglioramento delle strutture sanitarie al servizio dei cittadini veneziani”, a venderla per 20 milioni di euro. Ma l’anno successivo, nel 2002, una nuova delibera ne dimezza il prezzo a 10 milioni.
Quindi, il comune si attiva per “offrire una corsia preferenziale” per la Grazia e, nel 2003, adotta una variante (stralcio della variante per tutte le isole non ancora adottata) che ne modifica le destinazioni e consente la costruzione di due nuovi edifici.
Nel 2007 l‘isola è venduta, per 8,7 milioni di euro, alla GS Investment di Giovanna Stefanel, sorella dell’imprenditore trevigiano, “entrata nel mondo degli affari immobiliari con il marito tedesco”.
Oltre che da vertenze giudiziarie per presunte irregolarità nella vendita e dalla pretesa dei proprietari di accollare i costi di bonifica dei terreni ai contribuenti, la trasformazione è rallentata anche dalla insoddisfazione della signora Stefanel che amerebbe farne una sua residenza - “l’isola è entrata nel mio cuore!”- per i vincoli che ne impongono un pur minimo accesso pubblico.
Secondo lo schema di convenzione per il progetto unitario per la riqualificazione della Grazia approvato nel 2012 (sindaco Giorgio Orsoni, assessore Ezio Micelli), tali vincoli consistono nella “apertura della piazzetta e la possibilità di passaggio lungo un percorso prestabilito, per tre giorni alla settimana, più le festività, dalle 10 alle 11 e 30”. La piazzetta, peraltro, per 60 giorni all’anno rimane ad uso esclusivo della struttura ricettiva.
Secondo il Gazzettino “la Grazia è una storia emblematica delle complicazioni in cui si può impantanare la vendita di un bene pubblico… di come un piccolo gioiello possa finire nel dimenticatoio nella rovina”, ma tutto è bene quel che finisce bene, e ora pare che la signora Stefanel possa procedere. I suoi architetti, ha dichiarato, stanno lavorando a “un progetto mondiale, una struttura unica”, e finalmente “sarà garantito il recupero dell’isola nel rispetto della sua storia”.
Santo Spirito e Poveglia
Assieme all’azienda sanitaria locale, il grande venditore di isole è il Demanio dello Stato, le cui offerte sono sicuramente le più vantaggiose. Nel 2004, ad esempio, vende, per 350 mila euro, i 2,4 ettari di Santo Spirito ad un gruppo di imprenditori padovani facenti capo alla Poveglia srl.
Il relativo “piano di recupero di iniziativa privata”, strumento sufficiente, dopo l’approvazione da parte della regione, nel 2010, della variante per la laguna e le isole, per le trasformazioni fisiche nel territorio lagunare, è approvato nel 2014 dal commissario straordinario Vittorio Zappalorto.
La destinazione dichiarata è residenziale, una scelta determinata dalla volontà di “creare un luogo dove si può godere del vivere in mezzo all’acqua abbandonandosi alla quiete e al silenzio… assaporare l’estasi di vivere tra mare e cielo, tra acqua e stelle, e l’attrazione di raggiungere in pochi minuti il salotto più emozionante al mondo piazza san Marco”. Alla residenza sarà annessa una piscina e il tetto potrà essere coperto con una struttura che non “costituisce volume”. Ci saranno anche un certo numero di case- albero, strutture aperte e staccate dal suolo, dedicate a chi desidera godersi la vista della laguna meditando”. In definitiva, concludono gli autori, si tratta di un progetto di “ri-antropizzazione dell’isola saccheggiata e distrutta dopo secoli di splendore residenziale”.
Santo Spirito |
“Case per 144 nuovi veneziani. La sfida è ripopolare la città storica col recupero di beni dismessi” titola con entusiasmo il Gazzettino (15 marzo 2014); “Quartiere residenziale per 150 persone” esulta la Nuova Venezia (30 luglio 2014). Più sobriamente, le agenzie immobiliari parlano di villaggio nautico (si sta infatti progettando una darsena) con alloggi e relativi posti barca.
Oltre che per il linguaggio ingannevole, il piano di recupero di iniziativa privata per Santo Spirito merita attenzione per il modo in cui perfino modeste previsioni di spazi pubblici vengono stravolte a danno dei cittadini. Per i 144 abitanti teorici insediabili sull’isola, infatti, gli standards prescriverebbero una dotazione di 3456 metri quadri. La prevista area verde pubblico con possibilità di ormeggio ne misura 1581, meno della metà. Gli altri 1875 “non sono stati trovati”, recita la delibera con cui è stato approvato il piano, e quindi il loro valore “sarà” monetizzato. L’area pubblica, inoltre, sarà recintata e alcuni cancelli vi permetteranno l’accesso dalla parte privata.
Poveglia |
Il Demanio dello stato ha messo all’asta anche Poveglia che è stata aggiudicata, per 513 mila euro, all’attuale sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, intenzionato a crearvi un centro di “cura per i disturbi alimentari”. L’associazione “Poveglia per tutti” è riuscita a portare all’attenzione mondiale lo scandalo di un paese dove i cittadini sono costretti ad organizzare collette per pagare il riscatto dei beni di loro proprietà, che le pubbliche istituzioni sequestrano a vantaggio di interessi privati.
La vendita di Poveglia è momentaneamente ferma, ma altre isole sono sul mercato. Come dichiara Claudio Scarpa, direttore dell’associazione degli albergatori di Venezia, “il business alberghiero si sta progressivamente spostando sulle isole… Venezia soffoca di turismo, così i big player dell'hotellerie guardano alle isole….luoghi in grado di garantire riservatezza e fornire ambienti ideali per resort e strutture di lusso dotati di ogni comfort”.
Tutti questi “ambienti ideali”, che secondo la variante dell’assessore D’Agostino erano stati abbandonati perché occupati da funzioni povere come gli ospedali, sono ora reclamizzati come oasi di benessere psichico e fisico: relax totale a San Clemente (ex manicomio), aria buona a Sacca Sessola (ex sanatorio); splendido isolamento alla Grazia (ex malattie infettive). Forse il loro “problema” non erano le funzioni povere, ma i clienti poveri. In sé le isole sono perfettamente adatte al benessere e alla salute, ma solo per i ricchi investitori che le salvano dalla “tragedia dei commons”.
Nota. Tutte le foto delle isole sono tratte dal programma Mappe di Apple inc.
«Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori». Il manifesto, 23 agosto 2016, con postilla
I manifesti contro gli stranieri “maleducati” affissi a San Zaccaria, a due passi dalla Basilica di San Marco. Non si parla d’altro in questi giorni a Venezia, dopo che l’associazione venetista Wsm (Viva San Marco) si è spesa assieme ad altre in inviti perentori di dubbio stile, allo scopo di liberarsi del “foresto”.
Sono certi, i firmatari dei manifesti, di interpretare il pensiero e la volontà di quei veneziani che si sentono aggrediti dalla folla dei turisti. Rigorosi e brutali i messaggi accompagnati talvolta da immagini suine offensive corredate da scritte tradotte in inglese che dovrebbero “ripulire” la città dagli ospiti sgraditi.
Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori. Se ce la fa ad offrire accoglienza e servizi capaci di stemperare l’impatto estivo, se vaporetti, motoscafi, sono sufficienti alla domanda, se i cestini di rifiuti, sempre straripanti vengono svuotati puntualmente. Nel contempo aumentano le offerte sul web, che invitano, invogliano a realizzare il sogno di visitare Venezia: appartamenti e bed and breakfast in questi giorni presi di mira e dalla pentola scoperchiata sono uscite situazioni intollerabili di evasione fiscale, di degrado, di prenotazioni in nero di luoghi fantasma scoperti per caso, come un appartamento di lusso a San Pietro di Castello che fruttava ai proprietari 25mila euro alla settimana.
Sullo sfondo le cause e gli effetti: Venezia nel 1951 contava 175mila abitanti, oggi arriva a stento a 56mila. Ne è scaturito uno sradicamento sociale ed umano e la città d’acqua e di pietra è diventata un polo turistico commerciale prezioso per l’economia e per tutte le attività che godono della presenza del turista (oggi con 34milioni di visitatori all’anno la laguna è in ginocchio). La città, sommersa e ferita, non ha sufficiente forza e voce per rivendicare la sua vocazione culturale e sono in molti ormai a pensare che sia necessario un ripensamento, un progetto capace di offrire una alternativa al turismo.
Quel progetto non può che nascere dal suo resistente e storico centro culturale e come suggerisce il Rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliari, dovrebbero essere le Fondazioni culturali, la Biennale, l’Università, la Fondazione Cini e le diverse e differenti anime della cultura ad offrire nuove opportunità in grado di diversificare la domanda (ambiti informatici e scientifici… ), ridurre le presenze estive per invogliare a visitare Venezia d’inverno e nei posti meno frequentati come il Lido, l’Arsenale e Santa Marta. Il Sindaco dal canto suo promette la linea dura nei confronti di chi offende la città, ma la Giunta di Luigi Brugnaro nel suo complesso è cauta, sa che i proventi del turismo sono fondamentali alla sua economia e conta su cartelli e mezzi informativi per educare alla civiltà. Tant’è.
Spiace scomodare Simone Weil e la pietas che si dovrebbe riservare alla bellezza quando si sente che la stiamo perdendo, ma che direbbe Jaffier, l’eroe puro di Venezia Salva che pur in vesti e armi spagnole, non ha voluto contribuire alla distruzione della città. E per questo ha tradito, per non infrangere il sogno di tanta, troppa, incontenibile bellezza. La città di Carlo Goldoni che ha incantato e incanta artisti di ogni dove, la Venezia invernale di Josif Brodskij, con le sue tinte cupe, sembra non esserci più.
Eppure resiste ad ogni provocazione, di sua natura è aperta e ospitale, apprezza chi la ama, chi visita i suoi monumenti e le sue chiese. E anche chi semplicemente vuole capire il senso dell’incontro con questa città singolare stretta dai troppi problemi che l’assillano, per primo lo spopolamento e che risente di un tessuto sociale frammentato, oggi più che mai disorientato e incapace di leggerne la complessità.
C’è chi visita Venezia dopo averla molto pensata e immagina di trovare una Venezia classica, legata al mondo antico, con questi sentimenti sono arrivati in Piazza San Marco, Dostoevskij, Goethe è arrivato in barca da Padova, e poi Proust, Lord Byron, Ruskin e tanti altri viaggiatori illustri, sapendo che le loro aspettative non sarebbero state deluse.
Oggi emerge una vita “altra” che i masegni sopportano a stento, il caos infonde disarmonia e diffidenza, mentre le Grandi Navi attraversano beate il Canale della Giudecca e il Bacino di San Marco e i passeggeri fanno ciao ciao con la mano.
postilla
Diciamola tutta. È più di vent'anni che i cittadini del comune di Venezia (della Terraferma e della città lagunare) votano per i sindaci e i partiti che puntano tutte le carte su quel turismo che distrugge la città antica con le due ganasce della sua tenaglia: il turismo sgovernato di massa e il
rapace turismo di lusso, privatizzatore di ogni bene pubblico e stupratore d'ogni monumento. E sono decenni che le istituzioni culturali disprezzano il gigantesco patrimonio culturale costruito in un millennio di storia, facilitando la pseudo modernizzazione della città modernissima.
Per la prima volta si promette di mettere a confronto le diverse proposte presentate par garantire l'accesso a Venezia ai flussi di turisti che l'invadono. La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)
«Una valutazione comparata e partecipata di tutte le soluzioni progettuali alternative per le grandi navi fin qui formalizzate». È l’invito contenuto nel documento finale approvato dalla commissione Ambiente del Senato al termine dell'audizione con i firmatari del progetto di avamporto galleggiante al Lido. Un'ora di domande e risposte davanti al presidente della commissione di Palazzo Madama, Francesco Maria Marinello, con i progettisti Stefano Boato, Vincenzo Di Tella e Carlo Giacomini che hanno risposto alle domande dei senatori.
Critiche severe agli eccessi del turismo sregolato di massa. Lievi rimbrotti a chi quel turismo ha provocato. E silenzio plumbeo su chi ha consentito la privatizzazione di tutto il possibile per favorire il turismo di lusso. Al quale, ovviamente il turismo straccione dà fastidio. Corriere della Sera, 20 agosto 2016
Maiali, no grazie. Certo che era una provocazione, il manifestino affisso sui muri di Venezia da un gruppo venetista con un suino in mutande che buttava pattume per terra sotto la scritta «No welcome!» Una sfida offensiva verso tutti i turisti rispettosi del decoro delle calli. È solo l’ennesimo segnale, però, che i veneziani non ne possono più dell’aggressione di un turismo di massa devastante.
E il video su YouTube dei ragazzi decisi a tuffarsi nel Canal Grande come fossero a Torvajanica è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.
Sono passati trent’anni da quell’estate del 1986 in cui l’allora assessore al Turismo Augusto Salvadori scatenò l’iradiddio sui giornali internazionali e sulla Cbs («Tre minuti tutti per me. Mi hanno detto: assessore, questo è il microfono, parli. E mi go parlà. Asciutto, incisivo, brillante: tutti i mali di Venezia. Il tappeto umano di sacchi a pelo davanti alla stazione, i picnic a San Marco, la gente che orina sulle saracinesche, i turisti che attraversano la città in gommone senza neanche la canottiera, i gondolieri che ai clienti non cantano le canzoni nostre»).
Tre decenni e molti sindaci dopo, i problemi non solo non sono stati risolti ma si sono aggravati. Gente che fa pipì sui muri senza nemmeno cercare più gli angoli nascosti. Giovanotti in bicicletta per le calli. Tende canadesi piantate qua e là nei giardini o nei campielli. Tovaglie stese sulle rive da famigliole che fanno il picnic manco se si trovassero in un’area di sosta sull’autostrada. Avvinazzati stesi nei sotoporteghi sfatti dall’alcol e completamente nudi. Bottiglie ammucchiate all’ingresso della basilica di San Marco perché con le nuove disposizioni antiterrorismo da qualche parte devono lasciarle e gli spazzini non ce la fanno a stare dietro ai cestini della zona dai quali, come ha scritto il Corriere del Veneto vengono rimossi 30 metri cubi al giorno di immondizie. Borseggiatori a tempo pieno sui vaporetti, a dispetto dei controlli che in questo solo mese di agosto hanno visto il fermo di 120 ladri. Sequestri quotidiani di paccottiglia «italian style» falsa sfornata da laboratori cinesi o napoletani.
Per non dire, appunto, del quotidiano bagno nei canali di visitatori italiani e stranieri, giovani e meno giovani che mai oserebbero mettersi in slip o bikini in altre città del mondo. Come i «foresti» di campo San Vio che, svergognati sul web da una veneziana, guardano la signora che dice loro in inglese e tedesco che «non è permesso tuffarsi nei canali» e che «Venezia non è Disneyland», con aria stupefatta. Come pensassero: che storia è questa, Venezia non è Disneyland? Non appartiene forse a chi paga sganciando euro e dollari, sterline e yen? È o non è un «divertimentificio»?
Ha scritto in un tweet il sindaco Luigi Brugnaro dopo il tuffo dal ponte di Rialto di quell’ubriaco schiantatosi su una barca che passava di sotto: «Insisto: poteri speciali alla città per l’ordine pubblico. Borseggiatori, imbrattatori, ubriachi! Una notte in cella». Minaccia ripetuta ieri: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Che dopo anni di lassismo occorra dare una stretta sulle regole per fermare il traumatico degrado di Venezia è vero. Che si possano mettere in riga i turisti (soprattutto quelli che «sporcano di più e spendono di meno») senza mettere in riga anche i veneziani che sfruttano in modo indecente l’alluvione turistica di chi visita Venezia come Las Vegas, però, pare difficile.
Basti leggere il comunicato di ieri della Guardia di Finanza sui risultati della campagna contro i B&B abusivi: «Nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”, mentre alla data odierna ne risultano inserite circa 1.900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1.600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale».
Topaie vere e proprie trasformate in ostelli da 20 euro a notte ed edifici deluxe: «“Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti Internet», spiega la Finanza, «la locazione della magione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, interessata a servizi aggiuntivi di lusso quali vasca idromassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale.
Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea: servizi aggiuntivi richiesti dal cliente di turno, evidentemente molto esigente. Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al Fisco ed al Comune di Venezia». «Tutto regolare, i soldi finivano sul nostro conto corrente, forse non abbiamo pagato la tassa di soggiorno...», dicono i proprietari Giorgio e Ilaria Miani. Ci torneremo domani.
Fatto sta che in quell’estate della prima campagna dell’assessore «al decoro», i giornali stranieri si concentrarono soprattutto sulla più «pittoresca» delle iniziative, l’attacco ai gondolieri che intonavano «’O sole mio» invece che con «Nineta monta in gondola» e un quotidiano locale pubblicò la classifica delle canzoni più gettonate: 1° posto «’O sole mio», 2° «Torna a Surriento», 3° «Santa Lucia», 4° «Funiculì funiculà».
Oggi leggiamo reportage allarmatissimi come quello sul National Geographic di Lisa Gerard-Sharp: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril». Di più: «Chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?».
Domanda scomodissima. Ma giusta. Recentemente il sindaco di Barcellona Ada Colau è tornata a ribadire: «Non vogliamo fare la fine di Venezia». E ha rilanciato la battaglia contro i B&B abusivi: «Noi vogliamo una città bella, ma anche sostenibile. Fra il 2008 e il 2013 il turismo è aumentato del 18% ed è troppo per noi. Barcellona non è Parigi».
Immaginatevi Venezia, che sta per scendere sotto i 55.000 abitanti. Meno di Carpi o Vigevano. Paolo Costa, il presidente dell’autorità portuale che difende il business delle spropositate navi da crociera, sosteneva anni fa in un libro scritto con Jan van der Borg che la città di San Marco poteva accogliere al massimo 12 milioni di turisti l’anno. Nel 2015 sono stati trenta. E ci vogliamo meravigliare se non sono tutti baronetti di buona educazione?