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In nome del popolo italiano, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso di Italia nostra contro l’auditorium di Ravello. La decisione è del 15 febbraio scorso, ma è stata resa pubblica soltanto in questi giorni, nell’assoluto silenzio della stampa e della televisione. Stampa e televisione, soprattutto i giornali napoletani, che si erano scatenati a favore del progetto, con terribili accuse contro chi non era d’accordo, stavolta tacciono. Tacciono Mario Pirani e Giovanni Valentini. Tacciono il Wwf, Legambiente, la regione Campania, il comune di Ravello, e le decine di accesi sostenitori dell’opera. La ragione del silenzio sta nel fatto che la sentenza del Consiglio Stato non ha stabilito che la costruzione dell’auditorium è legittima, dando così ragione ai promotori dell’iniziativa, ma si è fermata su una questione procedurale, e cioè sul fatto che il ricorso di Italia nostra non era stato a suo tempo notificato al ministero per i Beni e le attività culturali. Il supremo organo della giustizia amministrativa non ha insomma smentito il Tar di Salerno che un anno fa aveva dato ragione a Italia nostra, sancendo l’illegittimità del progettato auditorium, ma ha scovato un difetto processuale, e ha perciò dichiarato inammissibile il ricorso. È bene ricordare che anche nel 2000 un precedente pronunciamento del Tar di Salerno aveva dichiarato illegittimo l’auditorium.

Non ci resta che arrenderci. Almeno per quanto riguarda i procedimenti amministrativi. Intanto ricordo che Eddyburg si è occupato diffusamente della vicenda, con ripetuti interventi e due eddytoriali. E’ utile rileggerli nella cartella SOS-SOS-SOS/Ravello. Il progetto è di Oscar Niemayer, celeberrimo, quasi centenario architetto brasiliano, anche se negli atti ufficiali risulta redatto dall’ufficio tecnico comunale. Italia nostra e Wwf (ma il Wwf dopo un po’ ha cambiato idea) si sono opposti alla realizzazione dell’opera, che è vistosamente in contrasto con il vigente piano territoriale urbanistico della costiera amalfitana e della penisola sorrentina (Put), piano approvato con legge regionale della Campania (n. 35/1987) e con efficacia anche di piano paesistico. Contro Italia nostra si sono schierati 165 intellettuali, fra i quali Renato Brunetta, Massimo Cacciari, Mario Manieri Elia, Cesare de Seta, Ermete Realacci, Oliviero Beha, secondo i quali “l’auditorium ha un’importanza strategica per lo sviluppo culturale ed economico della regione”, ignorando che Ravello è già oggi afflitta da flussi turistici insostenibili. Da ricordare infine che il comune di Ravello, a 63 anni dalla legge urbanistica nazionale e a 18 anni dal piano urbanistico territoriale, è tuttora sfornito di piano regolatore. Lo stesso comune è devastato dall’abusivismo, ma non è mai intervenuto con la determinazione con la quale ha operato, per esempio, sempre in provincia di Salerno, il comune di Eboli, che ha demolito 400 case fuori legge.

Raffaella Di Leo, presidente di Italia nostra Salerno ha dichiarato che la benemerita associazione, “forte dell’autorevole valutazione del Tar di Salerno, che ha affermato il contrasto dell’auditorium con il Put senza essere sconfessato, vigilerà e si adopererà perché la vigente disciplina urbanistica regionale venga fino in fondo rispettata”.

Urbanistica e tutela sono le due colonne sulle quali si dovrebbe reggere il governo del territorio nel nostro paese. Ne ho già trattato in una precedente opinione, però penso che sia necessario approfondire l’argomento per tentare di comprendere almeno una delle ragioni che hanno determinato la crisi in cui versa l’urbanistica italiana. Al fine di semplificare l’esposizione, nella seguente tabella sinottica (riportata in calce) ho ordinato, cronologicamente e separatamente, i fondamentali provvedimenti legislativi statali riguardanti le trasformazioni urbanistiche e quelli riguardanti il sistema delle tutele. La distinzione fra i due regimi è fuori discussione ed è stata convalidata da numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con assoluta coerenza, dal 1968 al 2000, e proprio per questo ho composto l’allegata tabella sinottica. Ma è bene ripetere subito che il sistema delle tutele è anche uno dei contenuti essenziali dell’urbanistica propriamente detta. Mi limito a ricordare:

- la cosiddetta legge ponte del 1967, che incluse fra i contenuti sostanziali del piano regolatore generale “la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (art.3, comma 2, lettera c);

- dieci anni dopo, il decreto presidenziale 616/1977, che regola il trasferimento delle funzioni dallo stato alle regioni, attribuisce alla materia urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.

Gli esempi di tutela realizzata grazie alla pianificazione urbanistica ordinaria sono tanti e quelli più noti li ho già ricordati anche su eddyburg: le colline di Firenze, l’Appia Antica, il parco delle mura di Ferrara, le coste della Maremma livornese, e altri.

Torniamo alla tabella sinottica. La legge del 1942 e la 1497 del 1939 sono le due matrici, i due capostipiti dai quali hanno origine tutti i successivi provvedimenti riguardanti il governo del territorio. È evidente che, dopo la legge Bucalossi del 1977, si è bloccata, per così dire, la produzione di norme statali riguardanti organicamente la materia urbanistica. Anzi, come sa chi si occupa di queste cose, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1980, è stata in larga misura azzerata la stessa legge Bucalossi. Da allora, l’impegno legislativo ha riguardato il silenzio assenso, il condono (tre leggi in diciotto anni) e un’infinità di provvedimenti che autorizzano, o addirittura obbligano, a operare in deroga alla disciplina urbanistica, all’uopo inventando nuovi strumenti d’intervento: programma di recupero, programma di riqualificazione, contratto d’area, patto territoriale, prusst, eccetera. Manca solo la cosiddetta legge Lupi che, se fosse approvata, sarebbe la pietra tombale per l’urbanistica come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni.

Dalla tabella in calce si vede bene che proprio quando è manifesta la crisi dell’urbanistica tradizionale, si moltiplicano invece i provvedimenti relativi alla tutela specialistica. Una cosa non è automatica conseguenza dell’altra. La legge per la difesa del suolo del 1989 era attesa da ventitrè anni, dalle drammatiche alluvioni del 1966, e da tempo si aspettavano norme adeguate per i parchi e le aree protette e per rafforzare la tutela del paesaggio. È tuttavia evidente che la coincidenza non può essere casuale. Tende infatti a consolidarsi in quegli anni il convincimento che gli strumenti propri della tutela – quelli riportati in tabella e altri più minuti e settoriali, per esempio quelli appartenenti al mondo delle valutazioni – possano e debbano in larga misura sostituire strumenti e metodi della pianificazione ordinaria. La tutela, insomma, si sottrae all’urbanistica. Le ragioni di questa involuzione, ché, secondo me, di involuzione si tratta, sono molteplici e non possono essere indagate in questa breve nota. Mi limito qui a ricordare solo le responsabilità delle associazioni ambientaliste che, con l’eccezione di Italia nostra, non si sono mai veramente misurate con le questioni urbanistiche, cioè con i meccanismi che regolano le trasformazioni urbane, con la rendita e con la complessità degli strumenti di pianificazione e scelgono di occuparsi più degli effetti (il traffico, l’inquinamento) che delle cause (l’uso dissennato del territorio).

Un esempio illustre di ricorso a vincoli e dispositivi propri delle tutele che surrogano gli strumenti ordinari della pianificazione è quello di Tormarancia. Tormarancia è una tenuta di 220 ettari, fra l’Appia Antica e l’Ardeatina, un angolo di paradiso miracolosamente sopravvissuto, per il quale il piano regolatore di Roma del 1962, quello enormemente sovradimensionato, prevedeva un quartiere residenziale di circa due milioni di metri cubi. Il nuovo Prg, in formazione da una dozzina di anni, non ha il coraggio di andare oltre una riduzione della previsione originaria. Interviene per nostra fortuna il benemerito soprintendente archeologico Adriano La Regina che salva quel pregiatissimo territorio con un vincolo archeologico di inedificabilità, confermato dalla regione Lazio. Ma Tormarancia, una volta scampata al cemento, non è stata restituita, come sarebbe stato logico, all’agricoltura, ma è stata demagogicamente destinata a verde pubblico e il carico insediativo previsto dal piano regolatore è stato spostato in altra parte del territorio comunale. È fuori discussione il ruolo assai positivo svolto dalla soprintendenza archeologica, ma è altrettanto evidente la mancata soluzione del problema dal punto di vista urbanistico (dimensionamento del piano, dislocazione delle nuove cubature, accessibilità, eccetera).

Esistono altri esempi, a Roma e altrove, di utilizzo dei vincoli, in particolare dei vincoli archeologici, al fine di scongiurare operazioni dissennate. Altre volte, soprattutto con il ricorso ai piani di assetto delle aree protette, si sono invece peggiorate precedenti regolamentazioni urbanistiche (è il caso del comprensorio dell’Appia Antica, sempre a Roma). Ma ciò che qui interessa mettere in evidenza è che la tendenza a scorporare la tutela dall’urbanistica induce a trasformare gli strumenti della pianificazione ordinaria in atti volti a disciplinare esclusivamente l’edificazione e l’infrastrutturazione del territorio. L’obiettivo che insomma si persegue, più o meno consapevolmente, è che il piano regolatore o il piano territoriale di coordinamento debbano occuparsi solo di cemento e di asfalto, mentre i grandi spazi aperti e le cinture verdi dovrebbero essere di competenza, esclusiva o quasi, dei piani di assetto dei parchi, dei piani paesistici, dei piani di bacino.

Cito al riguardo due recenti e importanti esempi di pianificazione ordinaria, che sostanzialmente rinunciano a farsi carico della tutela e, oggettivamente, spianano la strada al disegno di legge Lupi (che proibisce addirittura agli strumenti della pianificazione ordinaria di occuparsi della tutela del territorio, come ben sanno i lettori di eddyburg). Il primo esempio è il nuovo piano regolatore generale di Roma; adottato circa due anni fa, mai controdedotto, che prevede per il 2011 un incremento del suolo urbanizzato di 15.000 ettari, mentre la parte dell’agro romano non sottoposta a trasformazione è sottoposta al regime dei parchi regionali[1]. Il secondo esempio è il piano territoriale di coordinamento della provincia di Napoli, più volte illustrato su eddyburg da Antonio di Gennaro e da Edoardo Salzano, che prevede la distruzione di ben 25.000 ettari della Campania Felix e di parti della penisola sorrentina, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, delle isole del golfo, infischiandosene di ogni esigenza di tutela.

[1] Quello che penso del nuovo Prg di Roma l’ho scritto sull’ultimo fascicolo di Meridiana (n.47-48)

Sono stato invitato alla Fabbrica del programma, una ex vera fabbrica nella periferia di Bologna, dove Romano Prodi e la sua squadra elaborano idee e proposte per il prossimo governo. Ho partecipato all’incontro che si è tenuto nel pomeriggio di mercoledì 9 marzo, riguardante trasporti e territorio. Ha efficacemente coordinato i lavori Marco Spinedi. Tempi contingentati, non più di cinque minuti a testa, fatte salve pochissime eccezioni. Prodi ha attentamente seguito gli interventi, circa trenta. Erano presenti almeno sessanta persone, di varia provenienza. Qualche nome del nostro mondo: Anna Donati, Maria Rosa Vittadini, Roberto Camagni, Silvia Zamboni, Giancarlo Storto (ex segretario generale del Cer, esiliato da Lunardi), Walter Tocci (ex vicesindaco di Roma, oggi deputato), Pino Soriero (ex sottosegretario ai Trasporti). Molti amministratori regionali e comunali, fra i quali Roberto Morassut, assessore all’urbanistica del comune di Roma; Ennio Cascetta, assessore ai trasporti della Campania. Moltissimi amministratori dell’Emilia Romagna.

Spinedi, in apertura, ha correttamente chiarito che i problemi della mobilità, soprattutto alla scala locale, dipendono, in larga misura, dalle scelte di assetto del territorio, e perciò ha dato la parola in primo luogo agli urbanisti, Roberto Camagni e chi scrive questa nota. Qui di seguito riporto il testo che avevo trasmesso in anticipo alla Fabbrica, e che ho sintetizzato nell’intervento.

Nel sito lafabbricadelprogramma sono considerate 36 aree tematiche. Mancano però la città, l’urbanistica, la pianificazione, il governo del territorio e simili. Temi che pure sono presenti negli interventi ospitati nel sito. Ne ho contati non meno di venti, sparpagliati sotto altre voci (ambiente, finanza e fisco, famiglia). Il contributo più interessante mi pare che sia quello di Giovanni Caudo, ricercatore di Roma Tre, sul sito governareper, del 9 febbraio. Caudo parte dall’osservazione che, in Italia, le città non sono oggetto di attenzione da parte della politica e illustra le ragioni che dovrebbero indurre a ricollocarle nel programma di governo del centro sinistra. Sono pienamente d’accordo con le sue proposte, e ci torno in seguito. Mi interessa prima chiarire che la politica del territorio non è nell’agenda del centro sinistra, ma è ben presente fra le iniziative della destra.

È in discussione alla Camera dei deputati un disegno di legge per la riforma urbanistica noto come disegno di legge Lupi, dal nome del primo proponente, Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia di Milano. Non è la riforma urbanistica, è la controriforma. È l’occasione per smantellare fondamentali conquiste di civiltà, cominciando dal principio stesso del governo pubblico del territorio, sostituito da “atti negoziali” con la proprietà immobiliare. Altri due inauditi contenuti della proposta sono la cancellazione dei cosiddetti standard urbanistici e lo scorporo della tutela dalla pianificazione. Tutti sanno che gli standard urbanistici sono le quantità minime di spazi destinate a verde e a servizi, un vero e proprio diritto alla vivibilità, conquistato dopo memorabili vertenze negli anni del primo centro sinistra. Se è vero che in alcune parti d’Italia la disponibilità di spazi per attrezzature è ormai quasi sempre garantita, non è così in molte altre parti, soprattutto nei comuni del Mezzogiorno, dove adeguate disponibilità di verde pubblico e servizi sono ancora un miraggio.

La separazione della tutela (riservata allo Stato) dall’ordinaria attività di pianificazione è un inverosimile rigurgito di centralismo che contraddice principi mai messi in discussione dall’Unità d’Italia. Se avesse operato in passato una norma del genere, le colline di Bologna e di Firenze sarebbero coperte di cemento, non ci sarebbe il parco delle Mura di Ferrara, non sarebbe stata salvata la costa della Maremma livornese, e così di seguito.

Purtroppo quasi nessuno parla di quest’orribile proposta. Tace la stampa, salvo rare eccezioni. L’opposizione si è contentata di piccoli emendamenti e di un moderato dissenso. Solo Italia nostra ha lanciato un appello che ha raccolto centinaia di firme, e alcuni comuni della Toscana hanno approvato documenti di protesta. Chiedo alla Fabbrica del programma di esercitare un’azione di orientamento e di chiarimento. Chi vuol saperne di più consulti http://eddyburg.it.

Torniamo alla necessità di impostare una politica di governo per le città (accantono per ora il problema della casa, già trattato in un precedente incontro). Mi limito qui ad affrontare solo il più vistoso difetto della condizione urbana: il patologico ritmo di crescita delle aree periferiche, che non ha alcuna giustificazione di natura economica o sociale. Il vantaggio è solo per la rendita fondiaria: e voglio ricordare che più risorse vanno alla rendita meno ne vanno agli impieghi produttivi. In tutte le aree urbane del nostro Paese si assiste al paradosso di una vertiginosa diminuzione di abitanti, soprattutto nelle aree centrali, e di una contemporanea, spropositata espansione del territorio urbanizzato. Alle lottizzazioni residenziali e ai centri commerciali si è aggiunto il decentramento dei luoghi di divertimento e dei servizi. Aumentano l’inquinamento, lo stress, il rumore, il costo della casa, che obbligano a cercare in campagna, o in città minori, condizioni di vita sostenibili. Il problema non è solo italiano. Secondo la Commissione europea – penso che il presidente Prodi sia informato –, la proliferazione urbana è il problema più urgente per le città europee. “La proliferazione urbana aumenta la necessità di spostamento e la dipendenza dal trasporto privato, che a sua volta provoca una maggiore congestione del traffico, un più elevato consumo di energia e l’aumento delle emissioni inquinanti” [COM (2004) 60 definitivo].

In altri paesi europei (in particolare in Germania, in Inghilterra, in Francia), il contenimento delle aree urbanizzate è oggetto di apposite e rigorose politiche governative, con l’adozione di severe misure e il riutilizzo sistematico delle aree dismesse o sottoutilizzate. Il governo italiano ignora invece il problema. È interessato solo ad agevolare la rendita immobiliare.

Tutto ciò impone che sia restituito un ruolo importante nell’azione di governo ad appropriate politiche urbane e alla pianificazione del territorio correttamente intesa.

Non ho potuto fermarmi fino al termine dei lavori. Su la Repubblica di Bologna del 10 marzo (edizione locale) si legge che Prodi, esausto, ha tirato una prima conclusione. “C’è da ricostruire il territorio di questo paese, visto che non possiamo avere trasporti efficienti in un territorio disordinato”. Primo, quindi, mettere mano alle regole urbanistiche, commenta il cronista, Valerio Varesi. Se sono rose fioriranno.

foto di F. Bottini

La tutela del territorio è sempre meno apprezzata. Anche nella magistratura amministrativa tornano a prevalere quelle che una volta si chiamarono le toghe di cemento. Nel giorno in cui entra in vigore il protocollo di Tokyo, il Tar di Catania dà spazio al cemento nelle isole Eolie e il consiglio di Stato sembra che consenta la realizzazione di quell’autentico scempio che è l’auditorium di Ravello. Le brutte notizie non sono finite, la peggiore riguarda sempre la controriforma urbanistica che sta per essere approvata dalla Camera dei deputati.

Comincio da questa ultima. Ho imparato da Antonio Cederna, di cui per trenta anni sono stato amico e allievo benvoluto, che non bisogna vergognarsi di ripetere le cose di cui si è convinti e che si vogliono far conoscere. Non solo non bisogna vergognarsi, ma si ha l’obbligo morale di continuare a dirle. E allora insisto su almeno due aspetti di inaudita gravità del testo in discussione alla Camera. I cosiddetti standard urbanistici, cioè l’obbligo per i comuni a garantire ad ogni cittadino, e in ogni quartiere, una determinata quantità di verde e di spazio pubblico, quindi un vero e proprio diritto alla città, frutto delle grandi lotte degli anni Sessanta: gli standard urbanistici sono abrogati. Restano come facoltà, non è proibito realizzare attrezzature pubbliche, ma non è più un obbligo. L’altra inverosimile proposta riguarda la tutela dei beni culturali e del paesaggio che viene scorporata dalla materia urbanistica. Tutti sanno che la salvezza di alcuni dei luoghi più pregiati del nostro Paese – l’Appia Antica, le colline di Firenze e di Bologna, le coste e i parchi della Maremma livornese, per citarne solo alcuni – è dovuta all’azione di amministratori lungimiranti che predisposero piani regolatori attenti alla salvaguardia delle risorse ambientali e paesistiche. Se fosse approvata la nuova legge, i piani regolatori non potrebbero più tutelare i beni culturali e il paesaggio. Si dovrebbero occupare solo di aree fabbricabili.

Come si usa dire, un fragoroso silenzio incombe sulla proposta di controriforma urbanistica Tacciono stampa e televisione. Ne hanno scritto soltanto Liberazione e l’Unità e molti sindaci toscani stanno sottoscrivendo un appello proposto dal comune di Piombino. Ma tace l’opposizione, di centro sinistra e di sinistra. Peggio, esponenti moderati del centro sinistra sono pienamente d’accordo. Sembra che si sia persa ogni capacità di analisi e di ragionamento. Evidentemente, l’urbanistica non interessa più a nessuno. Si piange sullo smog e le polveri sottili, si cercano soluzioni estemporanee, non si riflette più sulla crescita deforme delle città, che è la prima ragione dell’inquinamento e dei disagi della vita urbana.

In questa temperie non meravigliano le notizie sulle Eolie e su Ravello. Il Tar di Catania ha accolto il ricorso di un imprenditore al quale la soprintendenza di Messina aveva sospeso la realizzazione di un albergo nell’Isola di Vulcano. Non sono bastati l’allarme e le prese di posizione contrarie al progetto da parte di tutte le associazioni ambientaliste e dei ministri dell’Ambiente e delle Politiche agricole. Se fosse generalizzato l’orientamento del Tar di Catania, una nuova ondata speculativa si abbatterebbe sulle Eolie. Riguardo all’auditorium di Ravello, non si conoscono ancora le ragioni che avrebbero indotto il consiglio di Stato ad autorizzare la realizzazione di un progetto che Italia nostra e tanti altri giudicano illegale. Ha evidentemente ragione chi avverte che norme e leggi di salvaguardia sono sempre più spesso considerate solo ostacoli da rimuovere. Come pretende Berlusconi.

Il 27 e 28 gennaio, si svolge a Roma il convegno di Italia nostra sul paesaggio, di cui Eddyburg ha già dato notizia. Può essere un’occasione utile anche per dipanare, se possibile, la gran confusione che regna a proposito della parola paesaggio, che da qualche anno è tornata in voga (la conferenza nazionale è del 1999), e la cosa è sicuramente positiva, ma al tempo stesso la parola paesaggio continua a essere utilizzata con significati diversi, contraddittori ed equivoci. In particolare da quando si sono affermati i movimenti ambientalisti e il pensiero verde, il paesaggio è stato progressivamente ridotto a sinonimodi ambiente. Oppure, più drasticamente, il paesaggio, tema considerato futile, antiquato, fuori moda, è stato semplicemente cancellato e sostituito, volta a volta, da ambiente, o da ecologia, ecosistema, biosfera, biodiversità, parole evidentemente reputate più scientifiche e moderne.

Un caso clamoroso di confusione sta nei lavori parlamentari relativi alla modifica dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. L’Italia è probabilmente l’unico paese al mondo che ha assunto la tutela del paesaggio e delle belle arti fra gli obiettivi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. (Anche se, proprio a partire dagli anni della repubblica, ha avuto inizio il più disastroso saccheggio del nostro patrimonio d’arte e di natura, quel saccheggio che i padri costituenti intendevano scongiurare. Ma oggi non trattiamo di questo). Che succede allora alla Camera? Ben 181 deputati, alcuni autorevolissimi, di varia ispirazione, hanno proposto (Atti Camera n. 3591 della XIV legislatura) di sostituire la tutela del paesaggio con le seguenti espressioni: “Riconosce l’ecosistema come bene inviolabile della Nazione e del pianeta, appartenente a tutto il genere umano, e ne incentiva la protezione dalle alterazioni e dalle contaminazioni ambientali. Garantisce il rispetto degli animali e delle biodiversità”. Cose tutte da condividere, che non giustificano però l’obliterazione del paesaggio e che non possono sostituirlo. In verità, un po’ diverso, ma sempre pasticciato, è il testo poi approvato in prima lettura con una vasta maggioranza trasversale.

Di fonte a tanta disinvoltura dobbiamo, secondo me, confermare che con la parola paesaggio si deve intendere la fisionomia del territorio, la sua forma, meglio ancora, la sua bellezza. La parola paesaggio dovrebbe sempre rimandare alla qualità estetica: un paesaggio può essere più o meno bello, oppure brutto, ma è sempre espressione di un giudizio estetico – non trascurando il fatto che, soprattutto nel nostro paese, dov’è difficile identificare una condizione di pura natura, ogni paesaggio è sempre prodotto di arte e natura. La conseguenza è quindi che il paesaggio, siccome valore estetico, è un valore culturale, unfattore insostituibile ai fini della percezione, dell’identificazione, della descrizione e della trasformazione di un territorio. E, perciò, al paesaggio deve essere riconosciuta una collocazione autonoma, tanto in senso disciplinare, quanto in senso operativo, cioè in materia di scelte urbanistiche, com’è sempre stato nelle migliori esperienze del governo del territorio in Italia (qui non posso non rinviare alla mia precedente opinione su Eddyburg, dove si contesta la soluzione prevista dal nuovo, terrificante disegno di legge urbanistica nazionale della maggioranza che esclude dall’urbanistica la tutela, e quindi la bellezza, e quindi il paesaggio).

Ma l’autonomia del paesaggio deve essere rivendicata anche e soprattutto nei confronti dell’economia, dell’occupazione, dello sviluppo e via di seguito. Lo sviluppo è diventato il valore supremo della società contemporanea, quello che comanda su ogni altra prospettiva. Fra lo sviluppo e il paesaggio è in corso una guerra mondiale che non finisce mai, e che il paesaggio continua a perdere. Senza considerare strumentalizzazioni e mistificazioni, anche nella più limpida delle circostanze, il paesaggio è quasi sempre costretto alla resa se sono in gioco nuovi posti di lavoro, incremento del reddito, prospettive turistiche.

Vince sempre l’economia. Anche nelle situazioni meno schematiche, quelle all’apparenza più condivisibili, gli stessi valori del paesaggio e della bellezza sono esplicitamente utilizzati ai fini dello sviluppo e dell’incremento del reddito. La domanda che a questo punto dobbiamo porci è la seguente: ma la supremazia dei valori paesistici e della bellezza non dovremmo perseguirla anche senza alcun beneficio pratico, né immediato né futuro? Posso permettermi di chiedere a Eddyburg di sviluppare una discussione in proposito?

Postilla - Non "lo sviluppo", ma quella particolare e "moderna" concezione dello sviluppo che è raccontata, per esempio, dalla brava Carla Ravaioli (es)

L’eddytoriale del 21 dicembre gronda sacrosanta indignazione perchè i beni culturali e il paesaggio sarebbero scorporati dal governo del territorio, come prevede uno gli ultimi emendamenti apportati al terrificante disegno di legge urbanistica in discussione alla Camera. L’urbanistica sarebbe così ferita a morte e disonorata. E sarebbero oltraggiate alcune delle pagine più belle della recente storia, non solo urbanistica, del nostro paese. Chi ha scritto quella norma sciagurata probabilmente non sa che la tutela dei beni culturali è sempre stata uno dei contenuti essenziali della pianificazione del territorio. E’ ben vero che , in Italia, operano due regimi distinti: quello specifico delle tutele, che fa capo alle leggi del 1939 e a successive norme di protezione del paesaggio, dell’ambiente e dell’integrità fisica del territorio; e il regime delle trasformazioni urbanistiche, che fa capo alla legge del 1942 e ai successivi precetti statali e regionali. Ma le tutele sono ancheun obiettivo proprio della disciplina urbanistica. E’ così da sempre. A cominciare dalla legge del 1942, anzi, dal precedente disegno di legge urbanistica del 1933 che prevedeva, fra i contenuti dei piani regionali, i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche. Quel disegno di legge non fu approvato per l’opposizione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia. Lo stop sgomberò il campo a favore delle leggi del 1939 e del piano paesistico. Si stabilì allora la distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche. Distinzione che ha retto al trascorrere degli anni e delle vicende storiche, nonostante alcuni tentativi di superamento del doppio regime (commissioni Franceschini e Papaldo). Solo i “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” della legge Galasso hanno unificato pianificazione urbanistica e del paesaggio.

Ma l’affermazione del doppio regime, convalidato dalle numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con indiscutibile coerenza, dal1968 (sent. n.55)al 2000 (sent. n.378) non ha mai comportato – è bene dirlo con assoluta chiarezza – un affievolimento del potere di tutela riconosciuto ai piani urbanistici ordinari. Non è qui possibile una rassegna di testi legislativi, di pronunciamenti giurisprudenziali e di esemplari esperienze applicative. Mi limito a ricordare la cosiddetta legge ponte del 1967, che incluse fra i contenuti sostanziali del piano regolatore generale “la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici”. Dieci anni dopo, il decreto presidenziale (616/1977) che regola il trasferimento delle funzioni dallo stato alle regioni, attribuisce alla materia urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.

La legge ponte del 1967 va ricordata anche per aver imposto un’appropriata tutela dei centri storici. Come molti sanno, la legge ponte fu voluta da Giacomo Mancini, ministro dei Lavori pubblici negli anni del primo centro sinistra, dopo l’indignazione provocata dalla frana di Agrigento del luglio 1966, causata dall’immane sovraccarico dell’edilizia speculativa. La legge fu definita “ponte” perché doveva rappresentare un rimedio provvisorio, nell’attesa di un organico provvedimento di riforma urbanistica, quello che stiamo ancora aspettando. Riguardo ai centri storici, la legge ponte subordina, di fatto, ogni intervento di sostanziale trasformazione all’approvazione di piani particolareggiati. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che l’Italia è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici. Certamente, nessuno può sostenere che nel nostro paese la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia perfettamente garantita, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.

L’obbligo o la facoltà di tutela da parte degli strumenti urbanistici non sono stati soltanto riconosciuti legislativamente, ma anche diffusamente utilizzati nella pratica della pianificazione. Solo qualche esempio. Il decreto ministeriale di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 introdusse, per “preminenti interessi dello Stato” una modifica al piano adottato, sottoponendo a tutela, e quindi destinando a parco pubblico, oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. Mi pare importante ricordare, ai fini del nostro discorso, che con lo stesso decreto furono eliminate le possibilità edificatorie consentite dal piano paesistico dell’Appia Antica approvato nel 1960.

Fra gli esempi illustri di urbanistica sposata alla tutela, si può citare il caso di Ferrara, la sua prodigiosa addizione verde, milleduecento ettari fra la cinta muraria e il Po, destinati a formare un gran parco urbano.

E, ancora, mi permetto di menzionare il nuovo piano regolatore di Napoli che ha sottratto all’edificazione, per ragioni di tutela, quanto resta del territorio comunale non coperto di cemento e di asfalto.

Soprattutto, mi pare giusto porre in evidenza che i centri storici sono stati più volte oggetto di studio, di politiche e di interventi di salvaguardia nell’ambito della pianificazione urbanistica, mentre sono molto meno frequenti le azioni di conservazione promosse dai titolari di specifiche competenze in materia di tutela. E’ noto, infatti, che solo alcuni centri storici sono integralmente sottoposti alle leggi del 1939 e che la propostaper generalizzare il vincolo monumentale a tutti i centri storici (cosiddetto disegno di legge Veltroni) non fu approvata per le resistenze dell’Inu e degli energumeni del cemento armato.

Tutto ciò è probabilmente ignoto, come ho detto, ai parlamentari che propongono la separazione della tutela dall’urbanistica e forse non si rendono conto (o è questo che vogliono?) che si avvierebbe in tal modo un rovinoso revisionismo legislativo il cui esito sarà la sistematica devastazione del territorio nazionale. Propongo che Eddyburg promuova una indignata mobilitazione, sollecitando in particolare quanto resta della sensibilità istituzionale e civile dell’opposizione.

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