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Due articoli (di Ernesto Milanesi e di Giulio Marcon) sulla grande festa di combattimento, promossa dal comitato "NO Grandi Navi", che si svolgerà a Venezia domenica 25 settembre. Il manifesto, 24 settembre 2016




VENEZIA, UNA FESTA
PER SALVARE LA LAGUNA
di Ernesto Milanesi
«Grandi Navi. Domani la manifestazione "Par tera e par mar» per realizzare un’idea di città opposta a quella che hanno in testa le multinazionali delle crocieristica"»

Una festa popolare. E la manifestazione «par tera e par mar» contro le Grandi Navi che violentano Venezia. Domani a partire dalle ore 15.30, dalla riva delle Zattere, torna la «resistenza» che dalla laguna si propaga oltre i confini nazionali.

Come già l’8 marzo in occasione del summit Renzi-Hollande, ci saranno i NoTav della Valsusa insieme alla rete Stop Biocidio di Chiaiano (Napoli) e ai rappresentati del comitato Barris Turisme Sostenible di Barcellona che si sta mobilitando contro le grandi navi e gli effetti del turismo di massa. E ancora comitati, associazioni e gruppi del Nord Est: si battono contro le Grandi Opere che riproducono il «modello Mose», con cui il Consorzio Venezia Nuova e le cricche nazionali hanno divorato finora oltre cinque miliardi di euro [l'autore dimentica di nominare il comitato "NO grandi navi", protagonista del vasto movimento d'opinione pubblica e promotore della manifestazione - n.d.r.]

Sul palco galleggiante di 20×8 metri ancorato di fronte alla riva delle Zattere, invece, è previsto un concerto speciale (dalle 15 fino alle 21) che spazia dal «revival» fino alle sonorità sull’onda delle nuove generazioni: StorieStorte, Rimorchiatori, Rooms Family, Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli, Herman Medrano, Sir Oliver Skardy, Bandanera e Marco Furio Ferrieri. Non basta, perché per i più piccoli viene allestita «la tenda dei piratini» mentre nei gazebo sono garantiti cibo e bevande insieme ai materiali informativi.

«Una festa della città, questo ci attendiamo: abitanti di Venezia uniti per realizzare un’idea di città opposta a quella che hanno in testa le multinazionali delle crocieristica, l’Autorità portuale e il sindaco – anticipano gli organizzatori della manifestazione – Aspettiamo tutti in barca o a piedi perché Venezia non può essere ridotta al silenzio. In una domenica qualunque come quella del 25 settembre è in programma il passaggio di sei navi da crociera, tre delle quali vengono definite di dimensioni ’medio grandi’ (due oltre le 90.000 tonnellate) che rapportate alla scala di Venezia diventano ’mastodontiche’. Di certo, la nostra non sarà un’orchestra di benvenuto».
È la vera partita sul futuro della laguna, perché le «città galleggianti» in Canal Grande nelle immagini di Gianni Berengo Gardin restituiscono lo stridente contrasto fra business e salvaguardia. Venezia città-cartolina rischia di restare definitivamente ostaggio delle lobby: non solo i commercianti del turismo, ma anche la sussidiarietà economico-politica che spazia dalle banchine del Porto alla «rigenerazione» del quadrante Tessera fino all’inossidabile grumo di interessi architettato dall’ingegner Giovanni Mazzacurati.
Venezia resta comunque sotto i riflettori: l’Unesco ha richiesto al governo Renzi di bloccare le navi da crociera nella fragile laguna. Il «patrimonio dell’umanità» va tutelato dall’Italia che entro febbraio 2017 deve spedire all’Unesco un rapporto dettagliato. Comprese le misure urgenti: stop a qualsiasi nuovo progetto infrastrutturale, un documento «legale» che sancisca la proibizione alla grandi navi in laguna, l’introduzione di limiti nel traffico acqueo e una strategia efficace per un turismo sostenibile.

Sono infatti oltre un milione e mezzo i passeggeri che anche quest’anno sbarcano e transitano nel terminal crocieristico. Finora è scattato il blocco solo per le navi superiori alle 96 mila tonnellate, ma occorre sempre trovare una «rotta alternativa» all’ingresso nel delicato centro storico di Venezia. Tanto più che è ormai consolidato l’effetto inquinante delle Grandi Navi: ad aprile l’associazione ambientalista tedesca Nabu ha registrato risultati clamorosi. «Al passaggio di una di queste navi da crociera – spiegano Daniel Rieger, responsabile Trasporti della Nabu e Axel Friedrich, già a capo dell’Agenzia dell’ambiente tedesca- gli strumenti hanno registrato in Canale della Giudecca 150 mila particelle di polveri sottili per centimetro cubo. Significa 150 volte i parametri dell’aria pulita, che prevedono mille parti per milione».


GRANDI NAVI, LE BUGIE
E LE COLPE DEL GOVERNO
di Giulio Marcon
«In questi anni i ministri Franceschini, Galletti e Orlando hanno assicurato che mai più le navi da crociera sarebbero circolate per la laguna. È successo qualcosa? Niente»

Domani ci sarà la manifestazione contro le grandi navi alle Zattere, a Venezia. E ieri il sottosegretario allo sviluppo economico, Antonello Giacomelli ha risposto ad una interpellanza presentata per l’occasione dal sottoscritto per sapere cosa si sta facendo per risolvere lo sconcio del passaggio dei «mostri del mare» per il canale della Giudecca e il bacino di San Marco.

Giacomelli ha risposto assai male. Ha detto che non è escluso lo scavo di nuovi canali in laguna (sarebbe un disastro per l’ecosistema lagunare: comitati e ambientalisti sono contrari). Poi ha detto che i traghetti (che sono spesso sotto le 40mila tonnellate) e le navi merce non passano più per il canale della Giudecca, ma si è dimenticato di dire che quasi 600 navi da crociera (che hanno più del doppio delle tonnellate di un traghetto, numero di navi aumentato dell’80% negli ultimi anni) fanno invece su e giù ogni anno per lo stesso canale. Infine il vice ministro – di fronte alla richiesta – di fare qualcosa presto, urgentemente, ha promesso un incontro tra l’Unesco e i ministeri competenti. Addirittura.

Infatti proprio l’Unesco il 13 luglio scorso nel suo vertice in Turchia ha minacciato di togliere Venezia dal catalogo dei siti «patrimonio dell’umanità» se il governo italiano non interverrà entro il 1 febbraio del 2017 su alcune questioni centrali della città: la salvaguardia dell’ecosistema lagunare, la gestione dei flussi turistici, la questione delle grandi navi. Che fa il governo? Convoca una riunione non si sa quando.

E Renzi che parla tanto di Olimpiadi a Roma e ieri di Expo a Milano, su Venezia – che merita almeno eguale rispetto – non spende nemmeno una parola.

Governo che in questi anni ha assicurato attraverso i suoi ministri (Franceschini, Galletti, Orlando) che mai più le navi da crociera sarebbero circolate per la laguna. È successo qualcosa? Niente. Nel 2012 (c’era il governo Monti) con il decreto Clini-Passera si stabiliva il divieto per la navigazione per le navi sopra le 40mila tonnellate, divieto che però veniva sospeso per trovare delle vie alternative alle navi-grattacielo. Decreto che poi è stato integrato da un provvedimento del governo Letta (nel 2013) che riduceva il numero di passaggi e stabiliva comunque a 96mila tonnellate il limite per le navi. Ma sono state trovate queste vie alternative? No. E le proposte presentate (scavo del canale Contorta, Tresse, ecc.) sono un pericolo enorme per la laguna. Qualsiasi via alternativa non deve manomettere l’ecosistema lagunare e non deve avere impatto sulle emissioni (acustiche ed atmosferiche). Ma intanto il governo latita e la giunta veneziana capitanata da Brugnaro non è da meno.

Allora c’è da fare una sola cosa oggi. Nell’attesa di trovare queste vie alternative (ancora da individuare e poi da realizzare e chissà quanti anni passeranno) bisogna imporre il divieto delle 40mila tonnellate «senza se e senza ma» e stabilire un numero chiuso per le navi. Questa è la strada da percorrere se si vuole salvare Venezia.

Domenica alle Zattere. Un solo no contro le grandi navi, ma tanti sì per una vita a Venezia, per le case per gli abitanti, per fermare il moto ondoso e, infine, un grande sì per “la difesa e il ripristino ambientale della Laguna”». La Nuova Venezia, 23 settembre 2016 (m.p.r.)

Venezia: Un palco galleggiante di venti metri per otto sarà allestito per la “Festa granda” del Comitato No Grandi Navi. La manifestazione per ribadire che le grandi navi devono passare fuori dalla laguna sarà domenica, alle Zattere dalle 15 alle 21; giornata in cui è previsto il passaggio di sei navi, due oltre le 90 mila tonnellate.

Ieri per tutto il giorno gli attivisti hanno volantinato in barchino. Sul sito FB della manifestazione hanno già aderito circa 500 persone, ma se ne attendono altrettante provenienti dai movimenti contro le grandi navi di Barcellona, dai No Tav e dal movimento «Stop Biocidio di Chiaiano» di Napoli. Il microfono sarà comunque disponibile per chiunque voglia intervenire. Ieri mattina, la storica attivista Nicoletta Dosio, che avrebbe dovuto parlare sul palco contro l’alta velocità, è agli arresti domiciliari con l’accusa di mancato rispetto delle precedenti misure restrittive che prevedevano l’obbligo di firma e di dimora. In queste ore si sta attendendo chi la sostituirà.
Nel frattempo sono stati confermati i gruppi musicali. Tra le guest star Eugenio Finardi, ma anche Sir Olive Skardy, Herman Medrano, Gualtiero Bertelli, Marco “Furio” Furieri, Banda Nera, Big Mike, I rimorchiatori, 4 rooms family, Storie storte. Un solo no contro le grandi navi, ma tanti sì per una vita a Venezia, per le case per gli abitanti, per una città solidale e non preda dei turisti, per il controllo del traffico acqueo e del cambio d’uso, per l’artigianato a Venezia, per monitorare l’inquinamento e fermare il moto ondoso e, infine, un grande sì per «la difesa e il ripristino ambientale della Laguna senza grandi opere inutili e dannose come il Mose o lo scavo di nuovi e vecchi canali portuali».

Una volta all'anno le porte del carcere si aprono, e si scopre un luogo bellissimo e una umanità che non si immagina. Il segreto è nella solidarietà di generee nella collaborazione tra le ristrette, la dirigenza, le associazioni e il territorio. ilPost.it, 19 settembre 2016 (m.p.r.)

La porta d’entrata, verde scuro, pesante, è all’interno di un ingresso come gli altri. Superata la guardiola (un ufficio, qualche calendario della polizia appeso a un chiodo, delle agenti penitenziarie che sbrigano le nostre pratiche e ci fanno lasciare le borse in un armadietto) si entra in un corridoio. Siamo “dentro”, come si dice, anche se non sembra.

Il carcere femminile della Giudecca a Venezia è un posto diverso da come ci si immagina una prigione: più volte ci si ritrova a pensare che è un posto bello e poi subito dopo a pensare che un posto così, bello non può essere. È diverso perché quasi tutte le detenute lavorano, perché c’è una sezione speciale per le madri - anche se la legge le prevede, non è facile trovarne di attive in Italia – ed è diverso perché è solo per donne. Questo significa molte cose, ma due in particolare, dicono le persone che ci lavorano: i reati commessi dalle persone qui dentro hanno una fortissima componente affettiva e molte delle condanne più lunghe nascono da uno strano incastro «tra chi usa la legge e chi invece la applica».

La Casa di reclusione si trova in un antico monastero fondato nel XII secolo. Poco dopo il 1600 divenne un ospizio gestito dalle suore per prostitute “redente” e diede il nome alla calle dove ancora oggi si trova l’entrata principale: calle delle Convertite. Se ci si passa davanti non la si vede subito: poco prima ci sono un campo con una vigna e delle reti da pesca, un piccolo ponte e poi un edificio tra gli altri, solo un po’ più alto, di cui fa parte anche una chiesa. Sulla facciata c’è una targa in latino in cui si parla di Santa Maria Maddalena penitente, delle «donne convertitesi a Dio dalla bassezza dei vizi» e delle suore che «con uno straordinario esempio di pietà» ricevettero nel 1859 dal governo austriaco l’incarico di gestire le carceri. All’epoca, la Madre superiora era anche la direttrice.

Le donne detenute sono una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale: in Italia circa il 96 per cento dei carcerati sono maschi e le donne sono circa il 4 per cento. I dati ufficiali più aggiornati (dicembre 2015) dicono che su quasi 54 mila persone recluse, le detenute sono 2.107: di queste 1.267 hanno condanne definitive e 790 sono straniere. La maggior parte delle donne carcerate si trova in 52 reparti isolati dentro penitenziari maschili e vive una realtà che è stata progettata e costruita «da uomini per contenere uomini»: in molti casi le detenute «sono lontane dalle loro famiglie», hanno necessità di salute particolari e «i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi». Questo lo scrive il ministero della Giustizia nel suo rapporto del 2015 sulla detenzione femminile. Anche l’ordinamento penitenziario le considera poco e disciplina la carcerazione delle donne solo in due commi all’articolo 11 che fanno riferimento, però, alla sola condizione della maternità.

Rispetto agli uomini, le detenute hanno anche minore possibilità di accesso alle attività lavorative: è una «discriminazione involontaria», dice sempre il ministero, causata dal numero limitato di carcerate e dall’impossibilità di condividere gli spazi con gli altri uomini per evitare situazioni di promiscuità: alle detenute, negli istituti di pena, è quindi spesso negato l’accesso alle strutture comuni per fare sport, per studiare o fare dei corsi e soprattutto per lavorare. Sono più carcerate degli altri.

Questo è come le cose funzionano in generale: poi ci sono alcune eccezioni. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne in Italia sono cinque: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e appunto la Giudecca. L’istituto di Venezia è costituito da vari edifici intorno al nucleo originale, formato dalla chiesa e dal convento. Al piano terra ci sono degli uffici, la sala colloqui, il magazzino e la cucina. Al primo piano la sezione detentiva con le aule scolastiche, la biblioteca, quella che chiamano “sala ricreativa”, gli uffici del personale e la cappella. Al secondo piano c’è l’infermeria con una sezione detentiva e due sale. Al terzo piano c’è la “sezione semi-libere”. Altre parti dell’edificio, non utilizzate e un po’ fatiscenti, si affacciano su un grande piazzale interno: è il “cortile dell’aria” con un pozzo chiuso, una vecchia rete da pallavolo e una panchina. Qui “le donne” (così le chiamano le persone che ci lavorano) possono uscire un’ora e mezza la mattina e due ore il pomeriggio.

Il lavoro

Alla Giudecca ci sono 78 donne, il carcere ne può accogliere poco più di un centinaio: 42 sono italiane, 36 straniere di 14 nazionalità differenti. Tra tutte e 78, 57 (cioè il 73 per cento) ha condanne definitive e, in forte controtendenza con la media nazionale, quasi tutte lavorano. Le due o tre che non lo fanno hanno problemi di salute. Ci sono i lavori interni gestiti dall’amministrazione, i lavori di manutenzione ordinaria e poi ci sono una lavanderia, una sartoria, un laboratorio di cosmetica e un posto speciale, che in molti (giornalisti, fotografi, registi) vengono a visitare: l’orto.

All’orto si arriva attraverso un piccolo corridoio dal cortile dell’aria: misura 6 mila metri quadri e ci sono diverse serre. Si coltiva un po’ di tutto, compresi gli ortaggi tipici locali: i radicchi di Treviso (e c’è una vasca per l’imbianchimento), il broccolo padovano, quello di Creazzo, il carciofo violetto di Sant’Erasmo. Girano dei gatti, ci sono anche un frutteto e una sezione “aromatica” dedicata alle erbe officinali e ai peperoncini. Ci fermiamo a parlare sotto agli alberi, è fine estate e l’orto è rigoglioso.

Liri Longo, presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri che gestisce l’orto, e Vania, che ne fa parte da quindici anni, ci spiegano che la produzione è abbondante e che i frutti e gli ortaggi raccolti vengono venduti al mercatino che due detenute allestiscono fuori dal carcere ogni giovedì mattina. Parte della produzione finisce invece nelle borse distribuite dai gruppi di acquisto solidale della zona o rifornisce alcuni ristoranti di Venezia, mentre le erbe aromatiche e medicinali vengono usate dal laboratorio di cosmetica per la preparazione dei prodotti da bagno di alcuni alberghi: detergenti, balsami, creme. Le cose che si coltivano nell’orto non finiscono nella mensa della prigione ma le donne possono acquistarle, se vogliono: lo fanno soprattutto d’estate. Molte, ci spiegano, non mangiano in mensa, ma hanno dei fornelli da campeggio nelle stanze e con quello che possono acquistare cercano di cucinare i piatti delle loro tradizioni («e riescono a fare delle cose incredibili»).

Nell’orto lavorano sette donne e tutte hanno fatto un apposito corso di formazione. Questa è l’occupazione più ambita, ma la convalida delle richieste e la selezione dipende dal fine pena e dalla situazione di ciascuna. Quello dell’orto, che si trova vicino al perimetro dell’edificio, è infatti considerato un lavoro esterno ed è regolato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Chi sta qui lavora tutto il giorno, dal lunedì al venerdì, non ci sono attrezzi complicati o particolarmente moderni e tutto viene fatto a mano: c’è un piccolo trattore parcheggiato all’interno di una serra che però può essere usato solo dall’agronomo. Insieme al tecnico di laboratorio di cosmetica, è uno dei due uomini che incontriamo dentro la prigione.

Le finestre del laboratorio di cosmetica si affacciano sull’orto. Maggie lavora al laboratorio: è rom, ha 28 anni e tre figli: «La cosa migliore che ho fatto», dice. Tra macchinari e barattoli di creme ci racconta che durante i tre anni di carcere preventivo scontati altrove non ha mai lavorato e che il lavoro in carcere viene considerato un privilegio: «Per buona parte della giornata ho una vita normale, le ore in laboratorio passano veloci, i pensieri restano in cella e poi mi posso mantenere: questo è importante per la mia dignità». Dice che quando stava nell’orto era più bello e intanto guarda sorridendo la sua responsabile: «Non mi sentivo in prigione, mi sembrava di essere fuori da qualche parte e poi la sera quando finivo, mi sembrava di rientrare. I lavori esterni sono i migliori perché non sei a contatto tutto il giorno con le persone con cui già devi vivere». Quello nel laboratorio è comunque un lavoro “qualificato”: servono competenze e determinati requisiti. Un’altra donna che ci lavora ci spiega con orgoglio che è necessario un minimo di istruzione: «Bisogna almeno saper leggere e scrivere per seguire le ricette e poi si ha a che fare con dei prodotti chimici, non tutte possono farlo».

La cosa più bella che è successa a Maggie negli ultimi anni, dice, è stata quella di poter vedere i suoi figli su Skype. Oltre alle telefonate, che sono di soli dieci minuti la settimana, frazionabili, da quest’anno per alcune detenute che non hanno la possibilità di fare colloqui e che hanno figli minori lontani c’è l’opportunità di usare Skype. Non è ancora diventata una prassi, però, e Maggie è stata la prima.

Vania, l’operatrice, ci racconta che per il loro lavoro le donne vengono retribuite, come stabilisce la legge. Ci sono una “borsa lavoro” messa a disposizione dal comune di Venezia che è fissa e poi ci sono i ricavati delle vendite che vengono suddivisi dalla cooperativa tra le lavoratrici. Con la «bella stagione» chi lavora nell’orto arriva anche a un totale di 500 euro mensili, compreso il contributo fisso. Il salario in carcere non si chiama così ma “mercede”, che è una specie di residuo linguistico: la retribuzione non è ancora intesa come un corrispettivo per il lavoro svolto, quanto piuttosto come una concessione accordata dallo Stato. Le buste paga vengono gestite da un ufficio interno. Le donne non maneggiano direttamente i soldi, ma possono disporne: mandarne una parte a casa e usare l’altra per comprarsi quello di cui hanno bisogno. «Sigarette, e poi c’è un elenco di cose che possono acquistare al magazzino interno in base a una lista che compilano una volta la settimana».

Oltre a Rio Terà dei Pensieri, all’interno del carcere lavora anche la cooperativa Il Cerchio che gestisce la lavanderia e la sartoria in cui lavorano sette detenute, una con contratto di formazione e sei con una “borsa lavoro” erogata dal comune. Il lavoro proviene da commissioni di ditte esterne tra cui il teatro La Fenice; parte dei vestiti sono in vendita al “Banco Lotto N° 10″, dove lavora una ex detenuta e che è stato inserito in molte guide turistiche.

La convivenza

Alcune agenti penitenziarie ci raccontano che, in generale, le celle e gli spazi individuali del carcere vengono curati con particolare attenzione: le stanze sono ordinate e pulite e si tende a replicare nella stanza l’ambiente della propria casa. Le donne della Giudecca dormono in 22 camere. Il problema principale sono proprio le stanze che sono molto ampie e ospitano più o meno 5-6 detenute ciascuna: ricordano delle camerate e non permettono momenti di intimità e isolamento: «L’essere sempre in collettività viene vissuto come vincolo e limitazione. Non ci sono spazi per la solitudine», ci raccontano le operatrici. «Allora molte donne, anche non credenti, vanno in chiesa per stare da sole o per piangere».

Alla Giudecca lo stare insieme ha creato però qualcosa di buono: un sistema molto particolare per risolvere i conflitti. Quando c’è un problema le donne si riuniscono in assemblea, se ne assumono la responsabilità e cercano di trovare, insieme e autonomamente, una mediazione. Questo meccanismo funziona. Le assemblee sono molto animate, ma le decisioni prese (senza l’intervento delle agenti o di altre mediazioni “esterne”, se non è necessario) convivono o rendono più semplici quelle dell’amministrazione e della direzione in una relazione tra i due livelli «molto particolare e collaborativa». Il merito di questa situazione è attribuito all’attuale direttrice, Gabriella Straffi, che tra poco andrà in pensione. Tutte le persone con cui parliamo sono molto preoccupate da quello che succederà dopo. Il timore è che la Casa di reclusione della Giudecca possa essere associata alla direzione del carcere maschile: «E invece è solo una direzione autonoma che potrà mantenere viva quella sensibilità di genere che qui è indispensabile».

Donne che sono anche madri

Le donne incarcerate hanno mediamente condanne più brevi rispetto a quelle degli uomini, e hanno minori probabilità di avere qualcuno a cui affidare la casa e la famiglia. A Venezia dalla fine del 2013 è attivo un ICAM, un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute. Ci vivono 9 donne e 5 bambini (alcune di loro sono incinte). Due mamme lavorano nell’orto, mentre una volta non potevano: all’interno del carcere le madri erano solo madri, e non erano inserite nelle attività lavorative.

E. A. preferisce che il suo nome non venga scritto per esteso, ha 32 anni che si faticano a ritrovare nell’espressione del viso, ha qualche tatuaggio ed è arrivata alla Giudecca nel febbraio del 2012. Resterà qui fino al febbraio del prossimo anno «e sembra manchi poco, ma qui il tempo non passa mai». E. è rom, lavora nell’orto dal 2014 e tiene il banchetto esterno del giovedì. Dorme nell’ICAM e il bambino più grande qui alla Giudecca, che ha quasi sei anni, è suo; ha altri 5 figli che non vede e non sente da moltissimo tempo. Le chiediamo che spiegazioni ha dato al figlio quando è cresciuto e ha cominciato a fare delle domande. Dice che non gli ha detto che vive in una prigione: «Forse lui se ne rende conto, ma gli ho raccontato di dover stare qui perché ci devo lavorare». In un tema fatto a scuola il bambino di E. ha scritto di avere una macchina blu e una barca, sempre blu, che sono la macchina e la barca che la polizia usa per i vari trasferimenti. Nel cortile dell’ICAM il figlio di E. ha anche festeggiato un compleanno invitando «da fuori» i compagni di scuola. Quando usciranno, tra qualche mese, E. e suo figlio andranno insieme in una casa famiglia.

Ogni giorno al carcere della Giudecca arrivano dei volontari che vengono a prendere i bambini per portarli all’asilo, a scuola, o ai campi estivi. L’ICAM è un ambiente creato per loro. Lo si intravede poco dopo il corridoio d’entrata: c’è un giardino verde con un’altalena e qualche gioco, le stanze e i corridoi sono colorati, le camere da letto hanno lettini o culle. Ci sono passeggini, seggioloni e quello che a una madre e a un bambino può servire. Ma l’ICAM di Venezia è solo uno dei pochi che avrebbero dovuto essere aperti dopo l’approvazione della legge, nel 2011.

Per amore e per una strana alleanza

Il 26 per cento delle donne che si trovano alla Giudecca è formalmente in carico al Ser.D. (il Servizio per le dipendenze), mentre il 33 per cento è seguito dal servizio di psichiatria. I reati commessi sono i più diversi: si va dai furti più banali a quelli nelle case, fino agli ergastoli per omicidio. In generale alla Giudecca vengono inviate le donne che devono scontare condanne elevate, proprio per la struttura del carcere e per come è organizzato.

Sergio Steffenoni, garante per i diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del comune di Venezia, ci racconta che in molti casi le condanne elevate nelle donne hanno una spiegazione comune che ha a che fare l’articolo 146 del codice penale. L’articolo dice che «l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita se deve aver luogo nei confronti di una donna incinta o se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno».

Spesso le donne incinte o madri nelle carceri italiane sono sinte o rom, sono giovanissime e consapevoli che con l’attuale legislazione in breve tempo saranno messe in libertà: la legge è stata pensata per tutelare i minori, ma si può ritorcere sulle madri che spesso sono spinte dai mariti e dalla “tradizione” a delinquere, a fare figli e poi a delinquere ancora, accumulando insieme condanne e bambini. Ci sono donne di 35 anni con 25 anni da scontare e 8 figli che spesso non hanno avuto tempo di crescere. In un documento fatto dalle donne rom e sinte della Giudecca in occasione degli Stati Generali del ministero della Giustizia c’è scritto che nei loro confronti «non c’è nessuna prevenzione, nessuna tutela, nessuna assistenza». E parlano di una specie di «alleanza» tra magistrati e mariti: i primi rispettano la legge, i secondi la usano. In entrambi i casi, loro sono le vittime: «Consapevoli ma senza strumenti economici, sociali o culturali per ribellarsi».

I reati commessi dalla donne in generale, ci raccontano Steffenoni e Marina Zoppello, l’educatrice, hanno una componente “affettiva” molto alta: cosa che non avviene invece per gli uomini. Questo comporta, tra le altre cose, che le donne tendano a giustificarsi più degli uomini e quindi trovino più difficoltà nella presa di coscienza di quel che si è fatto: «C’è una specie di rivendicazione del reato», anche nella fase di esecuzione della pena. La componente emotiva crea una maggiore difficoltà nell’accettazione della detenzione; i tempi di elaborazione, del pentimento e della cosiddetta “revisione critica” sono molto complessi e dolorosi. «Il reato è stato compiuto per amore dei figli o del compagno: diventa così un incidente di percorso e non una scelta pienamente consapevole. Il sentimento prevalente è la preoccupazione per il dopo, legato non soltanto alla possibilità di un reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale: spesso molte di queste donne, prima, hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle».

Marina Zoppello ci parla di persone molto complesse «che hanno lottato tanto nella vita, che hanno tenuto insieme la famiglia con un’altissima spinta protettiva, che hanno sopportato violenze e abusi e che a un certo punto sono esplose». Nei maschi, ci spiega l’educatrice con molta delicatezza e cercando di non essere fraintesa, prevale la progettualità del reato, mentre dalle donne «il reato è in un certo senso subìto». Chiediamo se intervenendo sul prima, sulle situazioni di violenza domestica o di sfruttamento per il mantenimento della famiglia, per esempio, si possa in qualche modo evitare che al reato ci si arrivi: «Sì, molto probabilmente e nella maggior parte dei casi sì».

Manifestazione promossa da Generazione 90. «A centinaia con carretti e borse della spesa per ponti e calli: "Per riprenderci Venezia. Diamo un segnale di normalità perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi"». Veneziatoday.it, 10 settembre 2016 (m.p.r.)

Sono partiti alle 10 da Rio Terà San Leonardo a Cannaregio, con destinazione il mercato di Rialto, armati di borse della spesa, carrelli e passeggini. E a giudicare dalla partecipazione attiva, almeno qualche centinaia tra ponti e calli, non si può certo dire che la manifestazione "Ocio ae gambe, che go el careo!" sia stato un insuccesso. Un corteo per dire "no" alla morte di Venezia, per resistere e impegnarsi per difendere la vivibilità e la residenzialità della città.

L'iniziativa è stata promossa dai ragazzi di "Generazione 90", il gruppo trasversale di ragazzi ventenni e trentenni nato tre mesi fa per tutelare il diritto di vivere Venezia. "Diamo un segnale di normalità, - avevano spiegato qualche giorno prima del corteo - perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi. Tutti sono invitati a partecipare, portando carrelli della spesa e passeggini: il senso dell'iniziativa è proprio quello di guardare al futuro con coraggio. Ci teniamo a sottolineare che il corteo è apartitico e preghiamo quanti vorranno partecipare di non portare simboli di alcun tipo". Al termine della manifestazione, attorno alle 11.30, non è previsto alcun tipo di intervento, "perché il tempo delle parole è finito ed è invece il momento per i cittadini di mostrarsi uniti in difesa di Venezia".

Moltissime le associazioni che hanno aderito all'iniziativa, da Masegni e Nizioleti a Italia Nostra - Venezia e VeneziadeiBambini, dall'Associazione San Francesco della Vigna a Evenice e Venezia360. Queste si sono aggiunte a quante precedentemente avevano aderito, da Mamme con le Rampe a Rialto Novo, da Venessia.com ai Cerchidonda, da Garanzia Civica al Circolo Ricreativo 3 Agosto, dal Gruppo 25 Aprile ai Giovani Veneziani.

Si delinea il fronte degli operatori economici, artigiani ed albergatori, e di associazioni di cittadini che chiedono un freno all'invasione turistica. Non decolla il dibattito su quale Venezia, diversa da quella turistica, si vuole realizzare. La Nuova Venezia, 7 settembre 2016 (m.p.r.)

Una città stravolta e violentata. Risultato di errori del passato e di tante decisioni della politica e della Regione «contrarie agli interessi reali della città». Sul tema dell’emergenza turistica intervengono gli artigiani. Categoria tra le più penalizzate dall'invasione e dalla trasformazione della città storica. Botteghe tradizionali che chiudono una dopo l'altra. Fabbri e falegnami che lasciano il posto ai fast-food e alle gelaterie. Sapienze antiche travolte dalla paccottiglia e dal made in China.
Al turismo di massa non interessa l’artigianato di qualità. Così negli ultimi decenni il numero delle imprese artigiane di Venezia si è più che dimezzato: dalle 2500 aziende si è scesi a poco più di mille. Hanno chiuso per i costi e gli affitti troppo alti, la mancanza di incentivi e il calo di clienti oltre mille attività artigiane. Quelle destinate ai residenti sono passate dall’83 per cento del totale a meno del 50 per cento. Il turismo ha travolto tutto. Trasformando case in affittacamere, laboratori in bar e negozi per i turisti.
«Abbiamo passato quest'estate con il refrain del decoro», attacca Gianni De Checchi, da molti anni segretario della Confartigianato veneziano, «ma si corre il rischio che questo sia il dito che tutti guardano, non certo la luna. Molto più drammatica e difficile da affrontare dopo decenni di inattività». «Giunti a questo punto», dice De Checchi, «uno che fa la pipì in canale non è importante quanto lo stravolgimento sociale ed economico, ormai inarrestabile. I cestini, le panchine, la pulizia e i gabinetti sono problemi reali. Ma piccola cosa rispetto allo svilimento di una città dove sono saltate le proporzioni e dove è venuta a mancare la base minima di anticorpi data dai cittadini residenti, come succede nelle altre città».
L’accelerazione è diventata forte negli ultimi dieci anni, senza che la politica facesse nulla. Di ticket, numero, chiuso, terminal, flussi turistici, prenotazioni obbligatorie si parla da tempo. Ma nessun provvedimento è stato preso. «Bene che il sindaco Brugnaro abbia capito adesso che la situazione di Venezia è di assoluta gravità», continua De Checchi. «Venezia forse politicamente conta meno di Mestre, ci sono meno voti. Ma è sotto i riflettori del mondo». La Confartigianato si dice disposta a dare il suo contributo al tentativo di risolvere il «dramma che sta vivendo la città».
Che fare? «Prima di tutto limitare in qualche modo gli accessi», dice De Checchi, «ma contemporaneamente attivare politiche attive per riportare cittadini e giovani in questa città, con la ripresa di una politica della casa degna di questo nome». Tra le varie proposte anche il “San Marco pass”, accessi limitati nell’area marciana. Ipotesi che al sindaco non dispiace. «Ma è una soluzione parziale, che va valutata bene», frena il segretario della Cgia, «si rischia di fotocopiare i danni dell’amministrazione precedente, che ha voluto togliere traffico da Rialto e ha intasato tutti i rii circostanti. Non vorremmo che le masse di chi ciondola in giro si concentrassero ancora di più nelle aree vicine a San Marco, rendendole ancora più intasate».
Infine l’appello: «Il sindaco e la giunta dovrebbero dedicare l’80% del loro sforzo amministrativo alla soluzione di questo problema. Con annunci e depliant non si risolve nulla. Bisogna fare qualcosa, meno polemiche e più fatti concreti». E una punturina alle altre categorie della città: «Adesso tutti dicono che bisogna superare le lobby, lo dicono anche le principali lobby di Venezia. Dunque, problemi non ce ne dovrebbero essere più».

«L’analisi di Gherardo Ortalli, a capo dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti. "È mancata qualsiasi politica di programmazione, superato il limite massimo"». La Nuova Venezia, 4 settembre 2016 (m.p.r.)

Venezia. Trenta milioni di turisti l’anno, di cui i due terzi escursionisti giornalieri. Palazzi ed ex conventi che diventano alberghi, appartamenti trasformati in affittacamere e bed and breakfast, posti letto moltiplicati e diventati oltre 50 mila, come gli abitanti della città. B&B passati da pochi anni da 96 a 2727, mentre gli alberghi a quattro stelle sono diventati 116, il doppio del 2010, quelli a cinque stelle 21 (quando erano soltanto 5). Senza contare gli appartamenti affittati «in nero». Una valanga che rischia di travolgere il fragile equilibrio della città storica.

Allarmi ignorati, una tendenza che nessuno ha mai cercato di fermare o di invertire sotto la spinta degli interessi di categoria e dei guadagni facili legati al turismo di massa. Preoccupazione che adesso viene rilanciata dopo l’estate calda veneziana. Il degrado e la maleducazione dei turisti, gli allarmi finiti sui giornali di mezzo mondo. Sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che minaccia la sopravvivenza di Venezia. Cifre e analisi contenute in un voluminoso dossier messo a punto dalla sezione veneziana di Italia Nostra, consegnato qualche mese fa al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e alla sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni dopo un convegno organizzato all’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti.
Un quadro preoccupante dopo l’ultimatum dell’Unesco che minaccia di escludere Venezia dai siti Patrimonio dell’Umanità se non saranno presi provvedimenti nei prossimi mesi. Gherardo Ortalli, presidente dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, non si stupisce.
«Da molti anni», attacca, «sappiamo bene quale sia la situazione. Esistono studi molto seri che tracciavano un quadro preciso e indicavano i limiti fisici di accoglienza di questa città».

Ad esempio? «La ricerca di Paolo Costa e Jan van der Borg alla fine degli anni Ottanta. Si fissava un limite preciso al numero dei turisti. Ventimila giornalieri, sette milioni l’anno che la città poteva sopportare senza esserne snaturata. Ma l’asticella è stata sempre alzata. Risultato, oggi siamo a 30 milioni: evidentemente il parere degli esperti e degli studiosi non interessa nessuno».

Non è un problema solo veneziano, il turismo aumenta. «Certo è un problema generale. Ma per Venezia, com’è ovvio, è molto più grave di altri. Siamo un’entità ridotta, finita, non ci possiamo espandere come gli altri». Il turismo da risorsa si sta trasformando in un problema. «La situazione è sotto gli occhi di tutti». Sono stati fatti nel passato e in tempi recenti errori che hanno portato a questo? «La prima cosa da dire è che è mancata una programmazione. La politica non è stata capace di progettare il futuro, di capire che bisognava pensare in grande, prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco».
Leggi regionali sulle attività ricettive che equiparano Venezia alle aree in via di sviluppo non hanno aiutato. «Certamente. Ma anche le gestioni comunali non hanno messo regole. In questi ultimi anni è successo di tutto. Gli allarmi che venivano lanciati sono stati tutti ignorati». È troppo tardi per invertire la rotta? «In un recente libretto pubblicato dal Fontego ho scritto che Venezia è una città che non esiste più, un quartiere di una grande realtà. Magari è una frase un po’ dura, ma il concetto è quello. La città viene svuotata di abitanti e funzioni, i turisti sono troppi, il degrado avanza».
Una cosa da fare subito. «Il contenimento degli arrivi, il controllo dei flussi, i terminal». Anche di questo si parla da decenni. Ma non si è fatto nulla. Nemmeno i terminal alternativi, il biglietto unico e la prenotazione obbligatoria. «Certo. Ci sono oggi tanti progetti e idee che il governo non ha mai preso in considerazione. Credo si dovrebbe avviare una analisi comparata a livello scientifico. E scegliere una strada che ci consenta di intervenire. Con questo trend Venezia rischia grosso, e ormai se ne sono accorti tutti. Bisogna fare qualcosa».

Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato...(segue)

Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato mentre stende la mano benedicente verso le prime capanne ed i primi abitanti della laguna. Ora gli abitanti della laguna sono stati cacciati, e ognuna di quelle isole benedette è diventata, o si avvia a diventare, un albergo di lusso.

Periodicamente appaiono articoli di stampa nei quali si dà conto, spesso compiacendosene, che “a Venezia è caccia ai resort sulle isole…. il fenomeno si sta intensificando… le isole stanno vivendo un vero e proprio boom di gradimento e attirano investimenti esteri (Sole 24 Ore, 15 maggio 2015). Non si dice, però, che il “fenomeno” è il risultato del piano messo a punto e accuratamente attuato dagli amministratori locali a servizio degli investitori, per cedere ai privati la proprietà non solo di singoli edifici, ma di intere isole.

Le decisioni del comune che, come “bombe intelligenti” sono state usate per “neutralizzare” gli abitanti e salvare le pietre, hanno colpito tutto il territorio lagunare. Ma è nella serie di isole che si snoda a sud della Giudecca e di San Giorgio: la Grazia, San Clemente, Sacca Sessola, Santo Spirito, Poveglia, che il progetto, avviato vent’anni fa, con l’intento di trasformare la laguna in un contenitore di villaggi per le vacanze dei ricchi è stato portato a termine nel modo più completo e sistematico.

San Clemente e Sacca Sessola.
Nel 1997, subito dopo la rielezione a sindaco di Massimo Cacciari, il comune inizia le procedure per la vendita di San Clemente, già sede di un ospedale psichiatrico, nella cui proprietà era subentrato alla provincia, nel 1992, in seguito alla chiusura delle strutture manicomiali imposta dalla legge 180 del 1978, fermo restando il vincolo di utilizzo a favore delle attività della ULSS, l’azienda sanitaria locale.

San Clemente

Il primo atto è un accordo di programma con l’azienda sanitaria e con la regione (ai tempi presieduta da Giancarlo Galan), accordo che viene sottoscritto in tempi rapidissimi, perché tutte le istituzioni coinvolte sono favorevoli all’operazione. Scrive, ad esempio, Carlo Crepas direttore della ULSS in una lettera al sindaco: “caro Cacciari, come ti ho più volte illustrato, stiamo seguendo le vie più opportune per addivenire alla alienazione dell’isola di san Clemente, cui l’amministrazione comunale è molto interessata al parimenti di noi.. il ritorno per il servizio sanitario nazionale e l’utenza sarebbe positivo e incontrovertibile… inoltre… in questo momento vi sono buone possibilità di reperire sul mercato potenziali acquirenti tenuto conto della carenza di posti letto alberghieri nel centro storico veneziano, in relazione anche al periodo concomitante con il prossimo Giubileo”.

Nel mentre lavora per consentirne la vendita, il comune si attiva anche per rendere più appetibile l’acquisto dell’isola, modificandone le destinazioni d’uso che, secondo il piano regolatore, erano: ospedali per la parte edificata e rurale a cultura estensiva per quella non edificata. La variante al piano regolatore, predisposta nello stesso 1997 dall’assessorato all’urbanistica, di cui è titolare l’architetto Roberto d’Agostino, si pone come obiettivo quello di “determinare le condizioni reali per l’utilizzo del bene” e indica tra le destinazioni ammesse: abitazioni collettive, attività ricettive, espositive, di istruzione, uffici, attività ricreative e culturali. In alcuni edifici, inoltre, autorizza l’inserimento di nuovi solai per aumentare il numero dei piani.

Dopo di che, l’isola, che ha una superficie di 6,7 ettari, va all’asta e, nel 1999, viene acquistata, per l’equivalente di circa 10 milioni di euro, dalla Compagnia Finanziaria di Investimento spa di cui è principale azionista Gilberto Benetton.

Si conclude, così, la prima parte di una vicenda che è un caso da manuale della saldatura tra privatizzazione della sanità pubblica e privatizzazione del territorio. A nulla sono valse le proteste, peraltro isolate, di cittadini e associazioni, tant’é che, nel 2004, il Tar respinge il ricorso dell’Associazione italiana per la tutela della sanità mentale, che aveva denunciato lo sviamento di fondi pubblici da parte dell’azienda sanitaria locale perché aveva ignorato il vincolo d’obbligo dei proventi della alienazione a favore di attività e servizi per la salute mentale e “aveva deportato i ricoverati per liberare l’isola e farne una perla del turismo lagunare”.

La successiva realizzazione del complesso alberghiero vede alterne vicende e cambi di proprietà, che non inficiano, però, il successo complessivo dell’operazione. Ora San Clemente appartiene alla società turca Permak che l’ha data in gestione al gruppo Kempinski. Nel marzo 2016, l’albergo è stato riaperto con il nome di San Clemente Palace Kempinski Venezia. “Il Palace è perfetto per il portafoglio Kempinski” ha detto l’amministratore delegato della società. “Offre relax totale.. su un’isola privata che si sviluppa su più di sette ettari e con splendidi giardini, gli edifici storici del monastero e una chiesa risalente al XII secolo ”.

Sacca Sessola

Simili, e pressoché contemporanee le tappe che hanno consentito la trasformazione di Sacca Sessola, già sede di un ospedale per malattie polmonari, in albergo gestito da una multinazionale del turismo di lusso.

Nel 1997, il comune adotta una variante al piano regolatore che modifica le destinazioni d‘uso della grande isola, 16 ettari di superficie, che l’azienda sanitaria locale intende vendere per 13 milioni di euro. In questo caso l’acquirente non è un “imprenditore mecenate”, ma la CIT Compagnia italiana del turismo che, nel 1998, è stata privatizzata dal governo Prodi e usando soldi pubblici si è lanciata in speculazioni nei settori più vari. Prima di fallire, la CIT realizza un albergo al grezzo il cui completamento si prolunga per una decina d’anni. Nel 2012, l’amministrazione del sindaco Giorgio Orsoni elimina la previsione di attrezzature sportive, che secondo gli strumenti urbanistici avrebbero dovuto essere create nella parte nord ovest, perché “non vi è alcun interesse da parte dell’amministrazione comunale all’uso di impianti sportivi in quell’ambito” e approva il progetto di riqualificazione unitaria predisposto dai proprietari.

Ora l’isola appartiene a una finanziaria tedesca la Aareal Bank, che l’ha data in gestione al gruppo americano Marriott. A sancire la conquista, i nuovi padroni hanno cambiato il nome di Sacca Sessola, battezzandola Isola delle Rose.

Oltre alle 250 camere della parte propriamente alberghiera, il Marriott Venice Resort ha al suo interno una chiesetta che verrà ristrutturata per i matrimoni e un “centro benessere” con tre piscine, di cui una coperta, “la spa più grande di Venezia.. . un paradiso a portata di turista dove il relax non è più un semplice lusso” (La Stampa, 29 giugno 2015).

Nei messaggi pubblicitari dell’albergo, che per Marriott rappresenta “la prima proprietà 5 stelle de luxe in Italia”, l’isola è descritta come “un luogo unico per rigenerarsi… carico di energia positiva, vi spira una brezza, già mediterranea nel gioco delle correnti, fresca e benefica”. Non a caso era un sanatorio!

La Variante al Piano regolatore generale
per la Laguna e le isole minori



Soddisfatti per l’esito delle varianti di San Clemente e Sacca Sessola, gli amministratori comunali decidono di non procedere più caso per caso, ma di predisporre una Variante al Piano regolatore generale per la Laguna e le isole minori. Il documento, redatto tra il 1999 e il 2001, è adottato dal comune nel 2004, quando è sindaco Paolo Costa, ma l’assessore competente è ancora l’architetto D’Agostino.

Bisogna “approntare un quadro urbanistico che consenta il riuso e sia già pronto quando si presentino i potenziali investitori”, si legge nella relazione che illustra la filosofia del comune nei confronti dei beni pubblici e descrive i criteri e le modalità di intervento più idonei per renderli attraenti ai privati.

Secondo gli estensori, infatti:
- se molte isole sono state abbandonate è perche le loro destinazioni non erano più appropriate, “si trattava di usi poveri che sfruttavano l’insularità per creare condizioni di segregazione rispetto al contesto urbano”,
- essendo abbandonate, le isole sono soggette ad usi predatori… è la “tragedia dei commons” per cui i beni pubblici vengono sfruttati in maniera non sostenibile,
- il piano regolatore generale del 1962 vincola molte isole della laguna a destinazioni d’uso obsolete, militari e ospedaliere, da tempo cessate e non più opportune, il che ne ostacola seriamente l’uso.

Ne deriva l’obiettivo primario di “favorire il riuso delle isole con attività che generino flussi di persone tali da giustificare nuove linee di trasporto pubblico, anche a chiamata, cosicché gli usi controllati aiutino a combattere quelli predatori”.

Dal punto di vista operativo, e tenuto conto che il recupero è possibile “solo per funzioni che diano agli immobili un valore tale da rendere economicamente sostenibili i costi, la variante indica una “gamma realistica di destinazioni compatibili con la valorizzazione di ogni isola e della porzione di laguna limitrofa”. Fra gli usi ammessi ci sono sempre attrezzature collettive “non necessariamente di proprietà pubblica” e, siccome per alcune isole “il recupero all’uso può essere ostacolato dall’insufficiente capienza degli edifici esistenti”, è ammessa la realizzazione di strutture necessarie all’efficiente esplicazione delle funzioni previste dallo strumento urbanistico” (cioè nuovi edifici).

Per i cittadini (i “predatori” secondo l’amministrazione comunale) poco resta. La variante dice solo che “onde evitare che il recupero all’uso da parte dei privati si traduca nella impossibilità di accedere alle isole da parte della generalità dei cittadini, laddove ciò appariva ragionevole è stata ricavata una porzione da destinare a spazio d’uso pubblico… che sarà regolato da convenzione tra privati proprietari e comune e ne stabilisca orari e modalità compatibili con l’uso principale dell’isola”.

Santa Maria della Grazia

Santa Maria della Grazia

Per attirare i compratori, oltre ad un quadro normativo sempre più “business friendly” , le amministrazioni pubbliche fanno a gara nell’abbassare i prezzi delle isole a valori fuori mercato. Nel 2001, ad esempio, la regione autorizza l’azienda sanitaria locale che intende alienare l’isola della Grazia, di quasi 4 ettari, “al fine di ricavare risorse necessarie al miglioramento delle strutture sanitarie al servizio dei cittadini veneziani”, a venderla per 20 milioni di euro. Ma l’anno successivo, nel 2002, una nuova delibera ne dimezza il prezzo a 10 milioni.

Quindi, il comune si attiva per “offrire una corsia preferenziale” per la Grazia e, nel 2003, adotta una variante (stralcio della variante per tutte le isole non ancora adottata) che ne modifica le destinazioni e consente la costruzione di due nuovi edifici.

Nel 2007 l‘isola è venduta, per 8,7 milioni di euro, alla GS Investment di Giovanna Stefanel, sorella dell’imprenditore trevigiano, “entrata nel mondo degli affari immobiliari con il marito tedesco”.

Oltre che da vertenze giudiziarie per presunte irregolarità nella vendita e dalla pretesa dei proprietari di accollare i costi di bonifica dei terreni ai contribuenti, la trasformazione è rallentata anche dalla insoddisfazione della signora Stefanel che amerebbe farne una sua residenza - “l’isola è entrata nel mio cuore!”- per i vincoli che ne impongono un pur minimo accesso pubblico.

Secondo lo schema di convenzione per il progetto unitario per la riqualificazione della Grazia approvato nel 2012 (sindaco Giorgio Orsoni, assessore Ezio Micelli), tali vincoli consistono nella “apertura della piazzetta e la possibilità di passaggio lungo un percorso prestabilito, per tre giorni alla settimana, più le festività, dalle 10 alle 11 e 30”. La piazzetta, peraltro, per 60 giorni all’anno rimane ad uso esclusivo della struttura ricettiva.

Secondo il Gazzettino “la Grazia è una storia emblematica delle complicazioni in cui si può impantanare la vendita di un bene pubblico… di come un piccolo gioiello possa finire nel dimenticatoio nella rovina”, ma tutto è bene quel che finisce bene, e ora pare che la signora Stefanel possa procedere. I suoi architetti, ha dichiarato, stanno lavorando a “un progetto mondiale, una struttura unica”, e finalmente “sarà garantito il recupero dell’isola nel rispetto della sua storia”.

Santo Spirito e Poveglia

Assieme all’azienda sanitaria locale, il grande venditore di isole è il Demanio dello Stato, le cui offerte sono sicuramente le più vantaggiose. Nel 2004, ad esempio, vende, per 350 mila euro, i 2,4 ettari di Santo Spirito ad un gruppo di imprenditori padovani facenti capo alla Poveglia srl.

Il relativo “piano di recupero di iniziativa privata”, strumento sufficiente, dopo l’approvazione da parte della regione, nel 2010, della variante per la laguna e le isole, per le trasformazioni fisiche nel territorio lagunare, è approvato nel 2014 dal commissario straordinario Vittorio Zappalorto.
La destinazione dichiarata è residenziale, una scelta determinata dalla volontà di “creare un luogo dove si può godere del vivere in mezzo all’acqua abbandonandosi alla quiete e al silenzio… assaporare l’estasi di vivere tra mare e cielo, tra acqua e stelle, e l’attrazione di raggiungere in pochi minuti il salotto più emozionante al mondo piazza san Marco”. Alla residenza sarà annessa una piscina e il tetto potrà essere coperto con una struttura che non “costituisce volume”. Ci saranno anche un certo numero di case- albero, strutture aperte e staccate dal suolo, dedicate a chi desidera godersi la vista della laguna meditando”. In definitiva, concludono gli autori, si tratta di un progetto di “ri-antropizzazione dell’isola saccheggiata e distrutta dopo secoli di splendore residenziale”.

Santo Spirito

“Case per 144 nuovi veneziani. La sfida è ripopolare la città storica col recupero di beni dismessi” titola con entusiasmo il Gazzettino (15 marzo 2014); “Quartiere residenziale per 150 persone” esulta la Nuova Venezia (30 luglio 2014). Più sobriamente, le agenzie immobiliari parlano di villaggio nautico (si sta infatti progettando una darsena) con alloggi e relativi posti barca.
Oltre che per il linguaggio ingannevole, il piano di recupero di iniziativa privata per Santo Spirito merita attenzione per il modo in cui perfino modeste previsioni di spazi pubblici vengono stravolte a danno dei cittadini. Per i 144 abitanti teorici insediabili sull’isola, infatti, gli standards prescriverebbero una dotazione di 3456 metri quadri. La prevista area verde pubblico con possibilità di ormeggio ne misura 1581, meno della metà. Gli altri 1875 “non sono stati trovati”, recita la delibera con cui è stato approvato il piano, e quindi il loro valore “sarà” monetizzato. L’area pubblica, inoltre, sarà recintata e alcuni cancelli vi permetteranno l’accesso dalla parte privata.

Poveglia

Il Demanio dello stato ha messo all’asta anche Poveglia che è stata aggiudicata, per 513 mila euro, all’attuale sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, intenzionato a crearvi un centro di “cura per i disturbi alimentari”. L’associazione “Poveglia per tutti” è riuscita a portare all’attenzione mondiale lo scandalo di un paese dove i cittadini sono costretti ad organizzare collette per pagare il riscatto dei beni di loro proprietà, che le pubbliche istituzioni sequestrano a vantaggio di interessi privati.

La vendita di Poveglia è momentaneamente ferma, ma altre isole sono sul mercato. Come dichiara Claudio Scarpa, direttore dell’associazione degli albergatori di Venezia, “il business alberghiero si sta progressivamente spostando sulle isole… Venezia soffoca di turismo, così i big player dell'hotellerie guardano alle isole….luoghi in grado di garantire riservatezza e fornire ambienti ideali per resort e strutture di lusso dotati di ogni comfort”.

Tutti questi “ambienti ideali”, che secondo la variante dell’assessore D’Agostino erano stati abbandonati perché occupati da funzioni povere come gli ospedali, sono ora reclamizzati come oasi di benessere psichico e fisico: relax totale a San Clemente (ex manicomio), aria buona a Sacca Sessola (ex sanatorio); splendido isolamento alla Grazia (ex malattie infettive). Forse il loro “problema” non erano le funzioni povere, ma i clienti poveri. In sé le isole sono perfettamente adatte al benessere e alla salute, ma solo per i ricchi investitori che le salvano dalla “tragedia dei commons”.

Nota. Tutte le foto delle isole sono tratte dal programma Mappe di Apple inc.

«Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori». Il manifesto, 23 agosto 2016, con postilla

I manifesti contro gli stranieri “maleducati” affissi a San Zaccaria, a due passi dalla Basilica di San Marco. Non si parla d’altro in questi giorni a Venezia, dopo che l’associazione venetista Wsm (Viva San Marco) si è spesa assieme ad altre in inviti perentori di dubbio stile, allo scopo di liberarsi del “foresto”.

Sono certi, i firmatari dei manifesti, di interpretare il pensiero e la volontà di quei veneziani che si sentono aggrediti dalla folla dei turisti. Rigorosi e brutali i messaggi accompagnati talvolta da immagini suine offensive corredate da scritte tradotte in inglese che dovrebbero “ripulire” la città dagli ospiti sgraditi.

Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori. Se ce la fa ad offrire accoglienza e servizi capaci di stemperare l’impatto estivo, se vaporetti, motoscafi, sono sufficienti alla domanda, se i cestini di rifiuti, sempre straripanti vengono svuotati puntualmente. Nel contempo aumentano le offerte sul web, che invitano, invogliano a realizzare il sogno di visitare Venezia: appartamenti e bed and breakfast in questi giorni presi di mira e dalla pentola scoperchiata sono uscite situazioni intollerabili di evasione fiscale, di degrado, di prenotazioni in nero di luoghi fantasma scoperti per caso, come un appartamento di lusso a San Pietro di Castello che fruttava ai proprietari 25mila euro alla settimana.

Sullo sfondo le cause e gli effetti: Venezia nel 1951 contava 175mila abitanti, oggi arriva a stento a 56mila. Ne è scaturito uno sradicamento sociale ed umano e la città d’acqua e di pietra è diventata un polo turistico commerciale prezioso per l’economia e per tutte le attività che godono della presenza del turista (oggi con 34milioni di visitatori all’anno la laguna è in ginocchio). La città, sommersa e ferita, non ha sufficiente forza e voce per rivendicare la sua vocazione culturale e sono in molti ormai a pensare che sia necessario un ripensamento, un progetto capace di offrire una alternativa al turismo.

Quel progetto non può che nascere dal suo resistente e storico centro culturale e come suggerisce il Rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliari, dovrebbero essere le Fondazioni culturali, la Biennale, l’Università, la Fondazione Cini e le diverse e differenti anime della cultura ad offrire nuove opportunità in grado di diversificare la domanda (ambiti informatici e scientifici… ), ridurre le presenze estive per invogliare a visitare Venezia d’inverno e nei posti meno frequentati come il Lido, l’Arsenale e Santa Marta. Il Sindaco dal canto suo promette la linea dura nei confronti di chi offende la città, ma la Giunta di Luigi Brugnaro nel suo complesso è cauta, sa che i proventi del turismo sono fondamentali alla sua economia e conta su cartelli e mezzi informativi per educare alla civiltà. Tant’è.

Spiace scomodare Simone Weil e la pietas che si dovrebbe riservare alla bellezza quando si sente che la stiamo perdendo, ma che direbbe Jaffier, l’eroe puro di Venezia Salva che pur in vesti e armi spagnole, non ha voluto contribuire alla distruzione della città. E per questo ha tradito, per non infrangere il sogno di tanta, troppa, incontenibile bellezza. La città di Carlo Goldoni che ha incantato e incanta artisti di ogni dove, la Venezia invernale di Josif Brodskij, con le sue tinte cupe, sembra non esserci più.

Eppure resiste ad ogni provocazione, di sua natura è aperta e ospitale, apprezza chi la ama, chi visita i suoi monumenti e le sue chiese. E anche chi semplicemente vuole capire il senso dell’incontro con questa città singolare stretta dai troppi problemi che l’assillano, per primo lo spopolamento e che risente di un tessuto sociale frammentato, oggi più che mai disorientato e incapace di leggerne la complessità.

C’è chi visita Venezia dopo averla molto pensata e immagina di trovare una Venezia classica, legata al mondo antico, con questi sentimenti sono arrivati in Piazza San Marco, Dostoevskij, Goethe è arrivato in barca da Padova, e poi Proust, Lord Byron, Ruskin e tanti altri viaggiatori illustri, sapendo che le loro aspettative non sarebbero state deluse.

Oggi emerge una vita “altra” che i masegni sopportano a stento, il caos infonde disarmonia e diffidenza, mentre le Grandi Navi attraversano beate il Canale della Giudecca e il Bacino di San Marco e i passeggeri fanno ciao ciao con la mano.

postilla
Diciamola tutta. È più di vent'anni che i cittadini del comune di Venezia (della Terraferma e della città lagunare) votano per i sindaci e i partiti che puntano tutte le carte su quel turismo che distrugge la città antica con le due ganasce della sua tenaglia: il turismo sgovernato di massa e il
rapace turismo di lusso, privatizzatore di ogni bene pubblico e stupratore d'ogni monumento. E sono decenni che le istituzioni culturali disprezzano il gigantesco patrimonio culturale costruito in un millennio di storia, facilitando la pseudo modernizzazione della città modernissima.

Per la prima volta si promette di mettere a confronto le diverse proposte presentate par garantire l'accesso a Venezia ai flussi di turisti che l'invadono. La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)

«Una valutazione comparata e partecipata di tutte le soluzioni progettuali alternative per le grandi navi fin qui formalizzate». È l’invito contenuto nel documento finale approvato dalla commissione Ambiente del Senato al termine dell'audizione con i firmatari del progetto di avamporto galleggiante al Lido. Un'ora di domande e risposte davanti al presidente della commissione di Palazzo Madama, Francesco Maria Marinello, con i progettisti Stefano Boato, Vincenzo Di Tella e Carlo Giacomini che hanno risposto alle domande dei senatori.

La novità è che per la prima volta è emersa, condivisa alla fine da tutti i commissari, la necessità di mettere sul tavolo le soluzioni alternative e di confrontarle «con modalità obiettive ed equanimi». Come peraltro prevedeva un mai applicato ordine del giorno del Senato approvato praticamente all'unanimità nel febbraio di due anni fa su proposte del senatore veneziano Felice Casson. «Abbiamo chiesto al ministero delle Infrastrutture di fare un bando di gara che precisi le condizioni funzionali e le modalità tecniche dei progetti», ha detto in aula Boato, «ma non è mai stato fatto». Gianpiero Della Zuanna ha chiesto se il progetto di avamporto galleggiante, che prevede di spostare la stazione Marittima al Lido, davanti all'isola artificiale del Mose, sia «sicuro». «Gli studi sono stati effettuati dalla società internazionale Principia», hanno riposto i progettisti. Costo dell'opera, 120 milioni di euro. E i rifornimenti delle merci e dei passeggeri arriveranno con imbarcazioni a basso impatto di onde e inquinamento attraverso il canale dell'Orfano, dietro la Giudecca. Incalzanti le domande dei senatori Paolo Arrigoni, Laura Puppato, Paola De Din. «Siamo soddisfatti», commentano Boato, Di Tella e Giacomini, che hanno ricordato ai senatori come esistano anche le normative che prevedono il confronto prima di qualunque decisione. In particolare il Codice degli appalti. Il 18 aprile scorso, con il decreto legislativo numero 50, è stato introdotto nell’ordinamento dei Lavori pubblici lo strumento del dibattito pubblico. Una svolta rispetto alle decisioni sulle grandi opere del passato, calate dall’alto e poi spesso rivelatesi sbagliate. Per le alternative alle navi si discute di alcuni progetti. Il canale Tresse Nuovo, per far arrivare le navi in Marittima passando dal Lido, sostenuto dall’Autorità portuale e dal sindaco Brugnaro, Il terminal al Lido di De Piccoli-Duferco, la nuova stazione passeggeri a Marghera. E l’avamporto galleggiante, presentato adesso al Senato. Ipotesi che i proponenti hanno chiesto e ottenuto siano confrontate prima di ogni decisione.

Critiche severe agli eccessi del turismo sregolato di massa. Lievi rimbrotti a chi quel turismo ha provocato. E silenzio plumbeo su chi ha consentito la privatizzazione di tutto il possibile per favorire il turismo di lusso. Al quale, ovviamente il turismo straccione dà fastidio. Corriere della Sera, 20 agosto 2016

Maiali, no grazie. Certo che era una provocazione, il manifestino affisso sui muri di Venezia da un gruppo venetista con un suino in mutande che buttava pattume per terra sotto la scritta «No welcome!» Una sfida offensiva verso tutti i turisti rispettosi del decoro delle calli. È solo l’ennesimo segnale, però, che i veneziani non ne possono più dell’aggressione di un turismo di massa devastante.

E il video su YouTube dei ragazzi decisi a tuffarsi nel Canal Grande come fossero a Torvajanica è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.

Sono passati trent’anni da quell’estate del 1986 in cui l’allora assessore al Turismo Augusto Salvadori scatenò l’iradiddio sui giornali internazionali e sulla Cbs («Tre minuti tutti per me. Mi hanno detto: assessore, questo è il microfono, parli. E mi go parlà. Asciutto, incisivo, brillante: tutti i mali di Venezia. Il tappeto umano di sacchi a pelo davanti alla stazione, i picnic a San Marco, la gente che orina sulle saracinesche, i turisti che attraversano la città in gommone senza neanche la canottiera, i gondolieri che ai clienti non cantano le canzoni nostre»).

Tre decenni e molti sindaci dopo, i problemi non solo non sono stati risolti ma si sono aggravati. Gente che fa pipì sui muri senza nemmeno cercare più gli angoli nascosti. Giovanotti in bicicletta per le calli. Tende canadesi piantate qua e là nei giardini o nei campielli. Tovaglie stese sulle rive da famigliole che fanno il picnic manco se si trovassero in un’area di sosta sull’autostrada. Avvinazzati stesi nei sotoporteghi sfatti dall’alcol e completamente nudi. Bottiglie ammucchiate all’ingresso della basilica di San Marco perché con le nuove disposizioni antiterrorismo da qualche parte devono lasciarle e gli spazzini non ce la fanno a stare dietro ai cestini della zona dai quali, come ha scritto il Corriere del Veneto vengono rimossi 30 metri cubi al giorno di immondizie. Borseggiatori a tempo pieno sui vaporetti, a dispetto dei controlli che in questo solo mese di agosto hanno visto il fermo di 120 ladri. Sequestri quotidiani di paccottiglia «italian style» falsa sfornata da laboratori cinesi o napoletani.

Per non dire, appunto, del quotidiano bagno nei canali di visitatori italiani e stranieri, giovani e meno giovani che mai oserebbero mettersi in slip o bikini in altre città del mondo. Come i «foresti» di campo San Vio che, svergognati sul web da una veneziana, guardano la signora che dice loro in inglese e tedesco che «non è permesso tuffarsi nei canali» e che «Venezia non è Disneyland», con aria stupefatta. Come pensassero: che storia è questa, Venezia non è Disneyland? Non appartiene forse a chi paga sganciando euro e dollari, sterline e yen? È o non è un «divertimentificio»?

Ha scritto in un tweet il sindaco Luigi Brugnaro dopo il tuffo dal ponte di Rialto di quell’ubriaco schiantatosi su una barca che passava di sotto: «Insisto: poteri speciali alla città per l’ordine pubblico. Borseggiatori, imbrattatori, ubriachi! Una notte in cella». Minaccia ripetuta ieri: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Che dopo anni di lassismo occorra dare una stretta sulle regole per fermare il traumatico degrado di Venezia è vero. Che si possano mettere in riga i turisti (soprattutto quelli che «sporcano di più e spendono di meno») senza mettere in riga anche i veneziani che sfruttano in modo indecente l’alluvione turistica di chi visita Venezia come Las Vegas, però, pare difficile.

Basti leggere il comunicato di ieri della Guardia di Finanza sui risultati della campagna contro i B&B abusivi: «Nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”, mentre alla data odierna ne risultano inserite circa 1.900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1.600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale».

Topaie vere e proprie trasformate in ostelli da 20 euro a notte ed edifici deluxe: «“Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti Internet», spiega la Finanza, «la locazione della magione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, interessata a servizi aggiuntivi di lusso quali vasca idromassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale.

Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea: servizi aggiuntivi richiesti dal cliente di turno, evidentemente molto esigente. Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al Fisco ed al Comune di Venezia». «Tutto regolare, i soldi finivano sul nostro conto corrente, forse non abbiamo pagato la tassa di soggiorno...», dicono i proprietari Giorgio e Ilaria Miani. Ci torneremo domani.

Fatto sta che in quell’estate della prima campagna dell’assessore «al decoro», i giornali stranieri si concentrarono soprattutto sulla più «pittoresca» delle iniziative, l’attacco ai gondolieri che intonavano «’O sole mio» invece che con «Nineta monta in gondola» e un quotidiano locale pubblicò la classifica delle canzoni più gettonate: 1° posto «’O sole mio», 2° «Torna a Surriento», 3° «Santa Lucia», 4° «Funiculì funiculà».

Oggi leggiamo reportage allarmatissimi come quello sul National Geographic di Lisa Gerard-Sharp: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril». Di più: «Chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?».

Domanda scomodissima. Ma giusta. Recentemente il sindaco di Barcellona Ada Colau è tornata a ribadire: «Non vogliamo fare la fine di Venezia». E ha rilanciato la battaglia contro i B&B abusivi: «Noi vogliamo una città bella, ma anche sostenibile. Fra il 2008 e il 2013 il turismo è aumentato del 18% ed è troppo per noi. Barcellona non è Parigi».

Immaginatevi Venezia, che sta per scendere sotto i 55.000 abitanti. Meno di Carpi o Vigevano. Paolo Costa, il presidente dell’autorità portuale che difende il business delle spropositate navi da crociera, sosteneva anni fa in un libro scritto con Jan van der Borg che la città di San Marco poteva accogliere al massimo 12 milioni di turisti l’anno. Nel 2015 sono stati trenta. E ci vogliamo meravigliare se non sono tutti baronetti di buona educazione?

L'opinione del vicepresidente Italia Nostra -sezione di Venezia- sull'abnorme trasformazione della città in "case-albergo". La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)

Il pericolo vero, di fronte al moltiplicarsi di appartamenti trasformati in strutture per turisti, è che l'amministrazione sia disposta a chiudere un occhio, come ha fatto finora, purché i proprietari paghino al Comune la tassa di soggiorno imposta per ogni cliente. Per quelle strutture si tratta di un euro e mezzo al giorno a persona. A nostro avviso i posti letto non dichiarati nel Comune sono circa diecimila (sui 27mila dell’intero Comune). Calcolando una media di occupazione di 200 notti all'anno, parliamo di circa due milioni di persone, che pagherebbero una tassa di tre milioni di euro.

Per un comune in perpetuo deficit di cassa, si può capire che la somma faccia gola. Forse per questo il sindaco Brugnaro, di fronte alle recenti scoperte di veri e finti bed and breakfast in nero ha dichiarato: dovranno mettersi in regola. Non ha detto: sono troppi, stravolgono il vivere cittadino, trasformano la città in un albergo. Ha parlato come se per lui la cosa più importante non fosse l'effetto che tutte quelle case-albergo provocano sulla vita veneziana. Ha parlato come se per lui contasse solo che gli occupanti pagassero il dovuto euro e cinquanta di tasse. Ma non è così.
Le case-albergo provocano una grave diminuzione di residenti. Le persone che lavorano a Venezia sono costrette (o spesso spinte dai loro stessi interessi) ad andare ad abitare in terraferma per lasciar posto ai turisti, che possono pagare molto di più. La città si svuota di residenti e non è più il luogo diverso e speciale in cui vivere. Le scuole non hanno più bambini, i luoghi di ritrovo cominciano a chiudere, le società di voga non hanno più iscritti, la cantieristica tradizionale scompare, gli spettacoli pubblici sono sempre diretti al turismo di massa (non si sente parlare di altro che di Casanova, magari spingendosi qualche volta fino a Vivaldi), le piccole aziende nuove si stabiliscono in terraferma, i palazzi diventano alberghi. Nelle stagioni morte la città si svuota, nelle altre diventa gremita di folla.
Io stesso ho ripreso delle "nostalgiche" foto di via Garibaldi in novembre, a fine gennaio o in febbraio, con i residui abitanti fermi in qualche crocicchio a scambiarsi un saluto, con la borse della spesa e con i bambini sui loro tricicli. Ma forse ho fatto male a usare l'aggettivo "nostalgiche". Non si tratta di far rivivere il passato, si tratta solo di potersi aspettare un futuro. Un futuro che non sia nella pur apprezzabilissima terraferma ma nella città in cui si vive meglio che in qualsiasi altra parte del mondo, pagando magari il prezzo di qualche disagio com'è sempre stato e come tutti facciamo ben volentieri (rinunciamo alla comodità della macchina per vivere qui).
I soldi della tassa di soggiorno aiuterebbero forse a sollevare in (piccolissima) parte il peso del deficit dei conti pubblici. Ma una città ben regolata troverebbe altri e più redditizi cespiti da fonti diverse, senza sacrificare la propria stessa natura ed essenza. Il sindaco precedente, Paolo Costa, era un economista e questo forse non poteva capirlo. Ma da quanto traspare finora sembra che anche il sindaco attuale, per quanto laureato in architettura e non in economia, sia molto più attratto dalle questioni di bilancio che da quelle che riguardano la qualità della vita. Forse perché a Venezia lui non ci ha mai abitato e non vorrebbe neppure abitarci. *

«Venezia: continua l'operazione "Venice Journey" di Finanza e polizia municipale. Ostello con 20 letti ma con una igiene vergognosa. Scoperto anche un affittacamere abusivo. Nel timore dei controlli, ora i cittadini collaborano: incremento di nuove attività emerse dell’800% in un anno». La Nuova Venezia, 19 agosto 2016

Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti internet. La locazione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, stimolata a spendere da servizi di lusso: vasca idomassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale. Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea.Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al fisco ed al Comune di Venezia. Per il proprietario e gestore, oltre all’irrogazione delle sanzioni amministrative per la violazione della normativa regionale e comunale in materia turistica, c’è stata la segnalazione al competente Reparto della Guardia di Finanza per l’esecuzione dei necessari approfondimenti, visto l’irregolare impiego dei lavoratori e l’esiguo reddito dichiarato al fisco.L’operazione “Venice Journey” prosegue e continua a riservare sorprese: oltre a locazioni di

lusso ed affitti turistici “fai da te”, in un caso gli operanti hanno anche individuato un vero e proprio ostello, nel sestiere Cannaregio, nel quale venivano ospitati fino a 20 turisti a notte in condizioni igieniche disastrose e con scarsa sicurezza.
In un altro caso, invece, un controllo documentale ha portato a denunciare un affittacamere abusivo. Scoperto dalle Fiamme Gialle che aveva controllato un cittadino pachistano mentre faceva alcune foto nei pressi del Ghetto ebraico a Venezia. Il cittadino straniero, risultato poi un tranquillo turista in visita alla città, ha spiegato di essere alloggiato in una struttura ricettiva trovata via internet: immediati i controlli con la segnalazione dell’affittacamere abusivo alla Procura della Repubblica per la mancata comunicazione degli alloggiati.
Negli ultimi due mesi di attività, sono stati scoperti 29 immobili abusivi gestiti da 24 persone, contestati circa 50.000 euro di sanzioni amministrative e denunciate 10 persone per la mancata comunicazione degli alloggiati alla Questura. L’attività di controllo economico del territorio ha anche permesso di acquisire numerosi elementi di interesse ai fini fiscali. E con i controlli aumenta la collaborazione dei cittadini: nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”. Ad agosto 2016 ne risultano inserite circa 1900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale.

L’operazione "Venice Journey" quindi continuerà anche nei prossimi mesi per salvaguardare gli imprenditori che operano nella legalità e che rispettano le regole, oltre che la sicurezza dei cittadini veneziani e dei turisti che soggiornano a Venezia.

Denunciati dai cittadini aspettiminori del massacro che il turismo sregolato di massa, affiancato al rapaceturismo di lusso, sta arrecando alla città nella Laguna ancora formalmente considerata parte rilevante del"patrimonio dell'umanità". La Nuova Venezia 19 agosto 2016

«Ho agito d’impulso, ma non capiscono che possono finire tranciati da un’elica?». A parlare è Roberta Chiarotto, la signora che mercoledì pomeriggio alla vista di un gruppo di ragazzi e ragazze stranieri in mutandoni e bikini, che stavano per tuffarsi in Canal Grande dalla riva di campo San Vio - come fossero in una qualunque spiaggia - ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a riprenderli: ma a differenza dei tanti che riprendono e tacciono, sfogandosi poi solo sui social, la signora Chiarotto ha iniziato a richiamare all’ordine il gruppetto balneare (due ragazze e quattro ragazzi). In italiano, in inglese e anche in tedesco: «È proibito tuffarsi a Venezia. Questa non è Disneyland, è una città». E loro, mogi mogi, son tornati occhi bassi sui loro passi. «Siamo veramente al troppo che stroppia: sembravano sobri», prosegue la signora Chiarotto, «purtroppo temo che sia passato il messaggio che in Italia si possa fare ciò che si vuole».

Il suo video pubblicato sul suo profilo Facebook è diventato subito virale: in 24 ore ha avuto quasi 100 mila visualizzazioni. Anche perché solo poche ore dopo il mancato tuffo a San Vio - mercoledì sera - i piloti Actv in transito davanti alla stazione hanno iniziato a mandare allarmate segnalazioni alla loro centrale operativa: «Ci sono delle persone che stanno attraversando a nuoto il Canal Grande. È pericoloso». Dalla riva di Santa Lucia a quella di San Simeon piccolo, come fossero in una piscina olimpica di Rio. In due sono stati intercettati da alcuni vigilanti, come mostra la foto di Marco Regalini, pubblicata sulla pagina Facebook del “Gabbiotto”.
Un maleducato sfidare la sorte per gusto della bravata che sconfina nell’inciviltà che si fa pericolosa, nel rischio di far male a sé stessi e agli altri, come dimostra il “tuffo” della scorsa settimana dal ponte di Rialto di un marinaio di uno yacht di passaggio a Venezia, che si è schiantato su un taxi di passaggio, finendo lui (il tuffatore) in Rianimazione, denunciato per attentato alla sicurezza della navigazione, dopo aver rischiato di travolgere il taxista. Ora l’amministrazione sta valutando un inasprimento del regolamento, per verificare la possibilità di estendere le denunce anche in caso di nuotate che creino intralcio alla navigazione.
Più turisti in città significa più maleducati, più pic-nic dove capita, più bagnanti nei rii o persone in costume a prendere il sole stesi a terra. E più “ciclisti” per le calli della città. L’ultima protesta arriva da Sant’Elena, dove il comitato dei residenti ha inviato ripetute segnalazioni alle forze dell’ordine, per protestare contro la noncuranza con la quale troppi diportisti che ormeggiano alla nuova darsena, inforcano la bicicletta per girare per Sant’Elena, quasi fossero in qualsiasi strada motorizzata della Croazia: «Ho visto con i miei occhi anche una piccola moto, ma non avevo il cellulare con me. Gli stessi dipendenti della marina vanno i bici».
Dalle vacanze, il sindaco Brugnaro si è fatto sentire via Twitter. Così a chi gli chiedeva conto delle troppe bici in città, ha scritto: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Con tanto di “smile” con lo sberleffo. Nei giorni scorsi aveva chiesto poteri speciali al governo, per poter far passare una notte in cella a ubriachi molesti. Ieri alle critiche di chi lo ha accusato di giocare allo sceriffo, ha riservato un altro tweet: «Le opposizioni in @comunevenezia non vogliono la cella di sicurezza per i disturbatori della serenità pubblica. I cittadini devono saperlo!». Fiocchetto rosso. Tant’è, prima della fine dell’estate, c’è da credere che la maleducazione di troppi farà ancora parlare di sé in città.
«Il “sogno” di una rivoluzione industriale permanente, grazie alla chimica italiana, è stato definitivamente sepolto a Porto Marghera e nei siti minori sparsi per l'italia, dalla Sicilia alla Puglia, fino alla Sardegna, lasciando un grande “buco nero”, con un’immane tragedia ambientale e sanitaria». L'intervista di Carlo Mion a Maurizio Don, l'articolo di Gianni Favarato, La Nuova Venezia, 17 agosto 2016 (m.p.r.)


«PORTO MARGHERA
ULTIMA OCCASIONE»
di Carlo Mion

Marghera. Del Petrolchimico di Porto Marghera che fu il più grande d'Europa, restano vecchi tubi arrugginiti, stabili dismessi e terreni da bonificare. La natura, come testimonia il reportage pubblicato sulla “Nuova” di lunedì, si sta riprendendo lo spazio che le era stato strappato un secolo fa. In occasione dei cento anni di vita, errori del passato, agonia del presente e speranze per il futuro nel botta e risposta con Maurizio Don, sindacalista nazionale della Uiltec e per decenni sindacalista al Petrolchimico.
A cento anni dalla nascita della grande area industriale di Porto Marghera cosa resta?
«I primi insediamenti furono quelli della zona industriale vicini al ponte della Libertà che comprendevano i fertilizzanti e l'alluminio della Sava. Oggi dell' industria a ridosso di Mestre e Marghera non è rimasto più nulla o quasi. È sparita Montedison Agricoltura e prima ancora la Sava, non c'è più la Vidal e nemmeno il Feltrificio Veneto. Sono state chiuse le vecchie centrali elettriche dell'Enel, Vinyls, il Clorosoda e la Pilkington è da tempo in brutte acque. Nella seconda zona industriale la chimica costruita dalla Montecatini in poi è in fase di trasformazione e quello che rimane lo stiamo difendendo con i denti».

In questo anniversario c'è il rischio delle celebrazioni permeate di retorica?
«Sono stati tanti anni di progresso e di emancipazione sociale per il territorio veneziano, e non solo, che hanno valorizzato fortemente l'economia di questi paesi e della sua gente. Quanto fatto, nel bene e nel male, va ricordato e va studiato con il raffronto fra la visione di sviluppo del primo dopoguerra e la coscienza ambientale di oggi. Se non vogliamo che sia soltanto una passerella di rappresentanza occorrerà che si lavori per una nuova ripartenza che non getti via il bambino con l'acqua sporca».

Nell'ultimo quarto di secolo sul Petrolchimico quali sono stati gli errori maggiori?
«Il più grande petrolchimico d'Europa ha avuto il merito di essere stata una grande realtà industriale, pur con tutte le sue storture, ed il demerito di non essersi adeguato nel tempo ai cambiamenti richiesti dall'evoluzione produttiva e di mercato. La discussione dei primi anni '90 era basata su una questione: la chimica italiana deve restare privata in mano a Montedison o diventare pubblica dentro Eni? Questa diatriba con contorno di tangenti ha sviato l'attenzione dall'evoluzione di processo verso un interminabile balletto di posizioni politiche e istituzionali che hanno contribuito a soffocare ogni iniziativa di rilancio industriale».
E chi ha sbagliato maggiormente in questo senso?
«Hanno sbagliato tutti: le imprese che non hanno avuto il coraggio o la forza di fare quadrato a difendere le potenzialità enormi di un tessuto industrializzato senza pari. Ha sbagliato la politica nel trasformare la discussione sul recupero ed il rilancio di Porto Marghera in un ring elettorale inconcludente e forse, qualcosa ha sbagliato anche il sindacato che ha potuto solo difendere i posti di lavoro che si perdevano. Noi abbiamo cercato di rallentare le dismissioni per ridurre il disagio occupazionale di migliaia di lavoratori. In questo contesto abbiamo sbagliato, eccedendo con la fiducia verso imprenditori che hanno, tradendo le nostre aspettative, tentato di fare solo speculazione sui cadaveri delle imprese».
Solo errori o la volontà (politica?) di smantellare una realtà industriale che non poteva essere competitiva nel luogo dove era nata?
«La perdita di competitività delle produzioni chimiche di Marghera è figlia della mancanza di capacità di reazione alle evoluzioni del mercato. Ma era difficile farlo se la burocrazia ha soffocato ogni tentativo di riconversione, se una autorizzazione ambientale ha tempi straordinariamente lunghi rispetto ai nostri competitors mondiali. Alla fine degli anni 90 si fece il primo Accordo di Programma su Porto Marghera e già allora governatore Giancarlo Galan sosteneva che nel 2015 non ci sarebbe stato più un polo chimico. Nulla è stato fatto nella logica della programmazione alternativa, ma tutto è servito ad acuire lo scontro fra i sostenitori, pochi, del cambiamento accompagnato, e coloro, molti, che pensavano che il non fare nulla era già una decisione».

Nel momento in cui iniziò il declino, al posto di arroccarsi nella strenua difesa dei posti di lavoro, non si poteva pensare a reinventare quei posti pensando al recupero delle aree?
«Porto Marghera aveva e ha in sé tutte le condizioni esogene per essere un'area molto appetibile per le imprese: servizi, logistica, portualità ed enormi professionalità nelle sue maestranze, ma una gestione politica ignava ed imprese poco coraggiose non hanno voluto pensare ad una trasformazione di accompagno. I sindacati hanno sempre chiesto non lo status quo, ma un processo di trasformazione che creasse nuova occupazione prima di una dismissione. Ma questo non è mai avvenuto. La logica dell'occupazione attraverso le bonifiche è sempre stata effimera perché per bonificare dove lavoravano centinaia di persone stabilmente, bastano poche unità e a breve termine ed è per questo che è stata osteggiata dal sindacato».
Si sta perdendo ancora tempo in discussioni infinite?
«Le celebrazioni del centenario della nascita di Porto Marghera hanno questa responsabilità: analizzare gli errori, quali - quanti e perché sono stati fatti, valorizzare quanto ancora esiste, seguendo l'esempio della trasformazione della raffineria e sostenendo come detto la strada della chimica verde, non buttando cioè alle ortiche cento anni di storia perché non si ha il coraggio di ammettere che, anche se oggi nessuno farebbe un petrolchimico a bordo laguna, è solo per mancanza di senso di responsabilità che si preferisce lasciare tutto fermo. C'e un problema, lo stato non pagherà perché per bonificare Porto Marghera serve un finanziaria, e di conseguenza se non favoriamo un nuovo sviluppo produttivo, attraverso la chimica verde, avremo una nuova Bagnoli in laguna».


LA PARABOLA MORTALE DELLA CHIMICA ITALIANA AI BORDI DELLA LAGUNA
di Gianni Favarato
Cinquant’anni di storia, dall’Eni di Mattei e la Montedison di Raul Gardini alla nuova chimica verde promessa dall’Eni

Marghera. Le grandi fonderie e fabbriche siderurgiche nate all’inizio del seconolo scorso (dalla Sava, all’Alumix fino all’Alcoa) ormai è stata praticamente azzerata, lasciando capannoni vuoti e fatiscenti in aree abbandonate a se stesse e piene di veleni. Anche la parabola della chimica di base italiana che ha fatto la storia di Porto Marghera, qui è cominciata occupando decine di migliaia di lavoratori ai bordi della laguna e qui ora sta sparendo quasi del tutto, ancor prima della possibile rinascita in una nuova versione “green” che utilizza oli vegetali al posto deo derivati del petrolio. “E mo', e mo', Moplen!” diceva con il suo faccione da clown l'indenticabile Gino Bramieri pubblicizzando in televisione la rivoluzionaria plastica di propilene prodotta per dalla Montecatini sulla scia della scoperta di una nuova sostanza plastica polimerica fatta dal premio Nobel Giulio Natta.

Erano gli anni Sessanta e nell’Italia in pieno boom economico e in Italia nascevano due grandi società, il nascente Ente nazionale idrocarburi fondato da Enrico Mattei e la Montedison di Cuccia che poi passò alla famiglia Ferruzzi e infine a Raul Gardini e Gabriele Cagliari che si sono suicidati alla vigilia del primo interrogatorio dei magistrati di Mani Pulite. Eni e Montendison decisero di sancire un grande matrimonio per da vita ad Enimont, un sogno di grandezza industriale nazionale durato ben poco, per poi lasciare il terreno a multinazionali - come Dow Chemical, Evc, Ineos, Elf Atochem e Solvay - che negli ultimi anni, una dietro l'altra, dopo aver “spremuto” tutti i profitti possibili, l'hanno abbandonata chiudendo le produzioni o vendendole a improbabili imprenditori come il trevigiano Fiorenzo Sartor che ha rilevato la produzione di cvm e plastica in pvc della Ineos nel 2009 per poi portare i libri contabili in tribunale e decretare così la chiusura definitiva del ciclo del cloro.
Il “sogno” di una rivoluzione industriale permanente, grazie alla chimica italiana, è stato definitivamente sepolto a Porto Marghera e nei siti minori sparsi per l'italia, dalla Sicilia alla Puglia, fino alla Sardegna, lasciando un grande “buco nero”, con un’immane tragedia ambientale e sanitaria ancora da risanare, migliaia di posti di lavoro persi, per l'immane inquinamento di acque, suoli e falde ancora ben lungi dall'essere ripulito con le attese e ormai sempre più improbabili bonifiche e ha ingoiato migliaia di miliardi delle vecchie lire, finiti nelle tasche dei “boss” delle Partecipazioni Statali italiane e delle multinazionali chimiche. Oggi a Porto Marghera a tirare la ripresa è rimasto il porto passeggeri e commerciale con le connesse attività logistiche e industriali che piano piano stanno occupando parte delle aree abbandonate. Sono rimaste in esercizio solo due grandi stabilimenti chimici (oltre a quelli più modesti di Atochem, Sapio e Solvay) che fanno capo all’Eni e sono la raffineria di petrolio ai bordi della laguna, ora riconvertita al biodiesel e il vecchio impianto del cracking dell’etilene che doveva essere chiuso o venduto ma ora, stando alle ultime promesse - da verificare nei fatti - dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, dovrebbe veder rinascere la chimica italiana in versione “verde”.

«Automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città con gli sfratti e con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni. Occorre attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua». La Nuova Venezia, 12 agosto 2016 (m.p.r.)

Ormai da oltre vent’anni anni continuano le dichiarazioni che non vogliono farsi carico dell’esodo che sta portando alla morte la città d’acqua di Venezia e le isole minori della laguna. Hanno cominciato le giunte Cacciari-D’Agostino revocando e cambiando le norme in vigore del Piano regolatore della città storica adottato precedentemente, norme che hanno bloccato fino alla fine degli anni ’90 i cambi d’uso degli appartamenti. Le concessioni dei cambi d’uso sono poi sempre continuate fino all’attuale giunta Brugnaro che ha subito prontamente contraddetto gli impegni elettorali.

Dall’inizio degli anni Duemila sono state presentate numerosissime domande e progetti per i cambi d’uso, e così sono cresciuti molto velocemente gli alberghi, le pensioni e le loro espansioni negli appartamenti vicini. Contemporaneamente non solo le attività private ma persino anche le funzioni pubbliche hanno cominciato a essere spostate in terraferma e al Tronchetto per vendere le loro sedi in centro “valorizzate” con il cambio a funzione ricettiva. E prima si sono sempre più inglobati nel bilancio ordinario per le spese correnti gli oneri di urbanizzazione che dovrebbero finanziare la realizzazione dei servizi pubblici, poi è seguita la svendita del patrimonio pubblico, che continua con la nuova giunta, per far quadrare in questo modo il bilancio delle spese ordinarie; e ogni volta si attua il cambio d’uso preliminarmente alla vendita.
Nel frattempo dilagano i B&B e l’affitto turistico degli appartamenti, cosa conosciutissima da tutti ma senza alcun controllo pubblico da sempre. Da anni, con la semplice ricerca diretta sul campo di poche decine di studenti di urbanistica, quasi ogni porta del centro città risultava impegnata dalla ricezione turistica; questa situazione sempre più dilagante solo recentemente è stata denunciata grazie a ricerche private su Internet compiute con mezzi semplicissimi. Tutto questo è stato ulteriormente favorito e incentivato dai decreti emergenziali degli ultimi governi e dalle leggi regionali (che hanno devastato le normative urbanistiche) e dalla connivenza e omertà delle amministrazioni locali.
Da una decina d’anni ogni richiamo alla gravità della situazione viene eluso con la falsa o ignorante scusa che “succede in tutti i centri storici”, ignorando volutamente che Venezia non è un centro storico ma una città storica con molte aree centrali, altre periferiche e molte aree di servizio e produttive che con l’insieme delle isole minori della laguna costituisce un sistema urbano d’acqua, diverso dalla terraferma, che è sempre stato e ancora può essere per molte funzioni autonomo e autosufficiente. E si vuole ignorare che gran parte dei 90 mila pendolari giornalieri sono lavoratori, ma anche studenti e operatori culturali, che abitavano e ancora abiterebbero in città se la disponibilità e il mercato degli alloggi non fosse impraticabile e li spingesse all’esodo e al pendolarismo.
Anche senza fare nulla, automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città sia direttamente con gli sfratti sia indirettamente con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente quindi non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni che pur mancano e devono essere ripristinati e attivati. Occorre anche attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua. Politiche che rendano innanzitutto usabile tutto il patrimonio pubblico oggi non disponibile: con la riqualificazione pubblica (con risorse europee, nazionali e per le città metropolitane), con la locazione in cambio di restauri autogestiti, con lo scambio degli oneri degli interventi privati, con incentivi e contributi, ecc.
E se l’amministrazione pubblica non funziona correttamente o addirittura è connivente con l’operatore immobiliare privato anche le poche operazioni che dovevano rendere disponibili alcune decine di appartamenti (come i casi della Giudecca) sono andate a finire nel mercato dell’acquisto privato o si sono arenate. E comunque senza norme, controlli e politiche efficienti ed efficaci mentre si rendono disponibili poche decine di appartamenti il mercato ne fa perdere molte centinaia. Poco a poco in città anche la consapevolezza della necessità di non lasciar dilagare la monocultura turistica è venuta a mancare, anche gli amministratori si sono arresi alla comoda rendita di posizione: l’attività turistica rende più delle altre senza particolari capacità.
Anche per incentivare l’arrivo di nuove attività occorrono politiche attive per ridare incentivi, opportunità, forza ad attività innovative sia private che pubbliche non turistiche. Ricordo ad esempio che nel 1988/’90 con la giunta Casellati eravamo arrivati a un buon punto nella disponibilità dichiarata ad insediare a Venezia gli uffici e i laboratori sia dell’Agenzia europea dell’ambiente sia dell’Agenzia mondiale delle acque (l’Amministrazione aveva formalmente offerto la disponibilità degli spazi ed edifici necessari per le attività e per le abitazioni). Ma poi tutto è stato lasciato cadere. E molti spazi in disuso ai margini della città, per poter allocare nuove attività, sono sempre disponibili ma senza politiche attive ed efficienti non può succedere nulla. Anche per gli spazi dell’Arsenale occorre predisporre un progetto complessivo e unitario (chiesto e proposto inutilmente da anni dal Forum Arsenale), senza limitarsi a subire passivamente le iniziative della Biennale e del Consorzio Venezia Nuova, magari limitandosi a rendere disponibili singoli spazi al miglior offerente o per eventi unici a pagamento.
Nei secoli Venezia è stata ripopolata più volte dopo eventi calamitosi. Ma occorre ricostruire una fortissima convinzione e volontà politica sia livello nazionale sia a livello locale che costruisca piani, programmi, progetti e strumenti e sappia reperire risorse per poter contrastare le tendenze automatiche del “libero mercato”. Per questo, sapendosi muovere, potrebbero essere di stimolo e di aiuto anche le risoluzioni dell’Unesco, ma bisogna saperle riconoscere e valorizzare anziché denigrare.
* Già assessore all’Urbanistica, membro della Commissione di Salvaguardia, Venezia

«L’architetto D’Agostino interviene sullo spopolamento “Ho favorito gli alloggi turistici? No, il piano si poteva cambiare. Più controlli sui B&B”». Le responsabilità dell'ex assessore sono in verità considerevoli. La Nuova Venezia, 11 agosto 2016 , con postilla

Per qualcuno è uno dei «responsabili» della deriva turistica del patrimonio immobiliare veneziano, perché il suo piano regolatore del 2005, favorì l’accorpamento degli alloggi, le trasformazioni alberghiere e il proliferare dei bed & breakfast, ma l’architetto Roberto D’Agostino - per molti anni assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia e poi presidente di Arsenale Venezia spa, la società di gestione del complesso, poi disciolta dalla Giunta Orsoni - respinge l’accusa e rilancia, spiegando perché, a suo avviso, le politiche pubbliche sulla residenza negli ultimi dieci anni almeno sono fallite, accelerando lo spopolamento.

Architetto D’Agostino, si è sbagliato sul cambio di destinazioni d’uso favorendo gli alloggi turisti?
«Premesso che quel piano è di più di vent’anni fa e volendo c’era tutto il tempo di cambiarlo, esso prevedeva la destinazione a residenza, sono state le leggi regionali e nazionali a favorire poi l’arrivo e la proliferazione di bed & breakfast, affittacamere e ora alloggi turistici. E lì che si dovrebbe intervenire, fermo restando che sono stati gli stessi veneziani a favorire queste trasformazioni, purtroppo, guardando ciascuno al proprio interesse».

Troppo tardi ora per invertire la tendenza?
«Secondo me no. Per i bed & breakfast basterebbe una squadra di vigili e tecnici dedicata che vada in perlustrazione costante per scoprire facilmente che la metà di quelli aperti non rispetta l’obbligo di un residente nell’esercizio e farli chiudere. E per gli alloggi turistici basterebbe rispettare il limite del soggiorno di almeno una settimana - anche qui con relativi controlli - per ridurre molto la tendenza».
Perché è fallita in questi anni la politica sulla residenza, a cominciare dai 5 mila alloggi promessi dalla Giunta Orsoni e mai realizzati?
«Perché dopo l’inizio degli anni Duemila non si è più “progettato”. Proprio gli interventi alla Giudecca sono una prova degli effetti positivi di un intervento pubblico. E molti progetti sono rimasti inspiegabilmente nel cassetto».

Quali?
«Penso al progetto per creare 70 alloggi in social housing alla Celestia, con il sì dell’Agenzia del demanio, a costo zero per l’amministrazione perché i fondi della Cassa Depositi e Prestiti per costruirli si sarebbero pagati con parte degli affitti. O ai 400 che avrebbero dovuto sorgere a Sant’Elena nell’area ex Actv. O ai 40 previsti nell’ex Caserma Sanguinetti all’Arsenale. Interventi pronti sulla carta, finanziabili appunto attraverso gli affitti, ma rimasti sulla carta».
Perché?
«Perché nessuna amministrazione ha voluto seriamente occuparsi, si è attrezzata per questo. Sull’Arsenale c’era poi il veto del Consorzio Venezia Nuova e il tacito accordo tra l’allora sindaco Giorgio Orsoni e l’allora presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati per lasciare che solo le imprese si occupassero di quelle aree. Così è stato per quelle lasciate alla Biennale, che almeno hanno una parziale ricaduta sul territorio. Non ci sono né idee né volontà e non a caso l’Arsenale è usato dal Comune per le feste di Vela. Senza una struttura dedicata che se ne occupi con autonomia gestionale - sia pure sotto lo stretto controllo del Comune - è difficile mandare avanti progetti, anche quando, come era avvenuto, i soldi erano stati trovati».
Intanto i prezzi delle case sul mercato libero sono diventati proibitivi per i residenti.
«I prezzi sono alti per le possibilità dei residenti attuali, ma non più alti di quelli di altre grandi città italiane, penso a Milano o a Roma. Il problema è che là c’è una potenziale base di acquirenti di milioni di persone, qui di poco più di 50 mila ed è anche per questo che gli alloggi sono venduti come seconde case o sono utilizzati a fini turistici dagli stessi veneziani che li possiedono, e che preferiscono guadagnarci sopra. Se non si riparte con gli alloggi in social housing, non può esserci ripresa demografica».

postilla

L'architetto D'Agostino è uno dei maggiori responsabili del degrado della città negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda le scelte della pianificazione urbanistica. In questa intervista ha riesposto sue tesi già espresse in passato. Segnaliamo qualche documento in proposito. Sulla questione della "liberalizzazione" in favore delle utilizzazioni turistiche si veda su eddyburg la puntuale risposta che gli diede a suo tempo Luigi Scano, nell'articolo "Prg di Venezia. e proliferazione di alberghi e affittacamere". Si veda anche di Edoardo Salzano Il piano D’Agostino-Benevolo per la città storica di Venezia, e di Alberto Vitucci. Osservatorio casa mandato a casa. Altri articoli ad abundantiam nelle cartelle dedicate a Venezia, nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg.

È da qualche decennio che chi governa Venezia (e il Veneto) fa ponti d'oro a chi lavora alacremente per aumentare la presenza dei turisti a Venezia. Turismo di lusso e turismo di massa tutto fa brodo. E anche la maggioranza dei veneziani acconsente: infatti, vota per loro. La Repubblica, 10 agosto 2016

La Venezia da cartolina attira sempre più turisti, ma quella dei veneziani rischia di sparire. Gli ultimi dati del Comune sul numero dei residenti rimasti in città sono preoccupanti. A oggi sarebbero soltanto 55.075 i cittadini che resistono allo spopolamento, ma il numero è destinato a scendere a 54 mila già dai primi di settembre, secondo le proiezioni. Un calo a picco che sembra irrefrenabile. Dal 2000, quando gli abitanti erano 66.386, Venezia ha perso in maniera sistematica mille abitanti all’anno, arrivando nel 2016 ai minimi storici con una media di 2,6 residenti in meno al giorno, 956 da gennaio.

Lo spopolamento è stato graduale ed è iniziato dopo la grande alluvione del 1966, quando moltissimi veneziani si sono spostati verso la terraferma. Nel 1861 Venezia aveva 128.787 residenti. All’epoca i numeri erano in crescita, tanto da arrivare nel 1901 a 146.682 cittadini residenti e nel 1951 a 167.069, il massimo storico. Poi, il lento ma progressivo svuotamento della città, mentre cresceva il turismo di massa, che oggi si attesta attorno ai 22 milioni di arrivi all’anno.

Una situazione paradossale, perché se la città è un sogno per il turista che ne rimane stregato, dall’altro lato è sempre più un incubo per chi vuole mettere radici nella laguna e si ritrova alle prese con affitti altissimi, botteghe di quartiere che chiudono, negozi di paccottiglia e di souvenir a un euro che proliferano e palazzi che si trasformano in un baleno in hotel di lusso. Se a questo si aggiunge che l’età media è di 47 anni e che la popolazione anziana è in continuo aumento, si capirà che per un veneziano restare a Venezia è diventata una vera battaglia.

Eppure, nonostante la Guardia di finanza abbia stanato nell’ultimo periodo circa duecento strutture ricettive abusive, il problema di Venezia sembra sia proprio rappresentato da una parte di veneziani. Quelli, sempre più numerosi, che hanno trasformato la propria città in un business di acchiappaturisti scegliendo di dare in affitto la propria abitazione. Affitti spesso irregolari, con una durata dichiarata di un mese che poi diventano quattro.

Il risultato è un business selvaggio che ricade per primo sui veneziani e su quelle associazioni che chiedono una città a misura di residente e non del turismo di massa, come fa il Gruppo25Aprile con la campagna #Veneziaèilmiofuturo, o l’Associazione Poveglia, che chiede che l’omonima isola non sia ceduta ai privati, o ancora Venessia.com che denuncia da anni il calo degli abitanti.

Se al numero dei cittadini della laguna si somma quello degli degli abitanti delle isole, il calo non si arresta, perché si passa da 84.666 a 83.398 abitanti. «Lo spopolamento non si può risolvere in pochi mesi — dice Lucia Colle, vice sindaco e assessora al Patrimonio — Quello che sta facendo la nostra amministrazione è cercare di attirare gli under 40 con alcuni bandi per case a prezzi privilegiati. Vogliamo anche provare a portare lavoro in città, perché è quello che poi aumenta la residenzialità. Per quanto riguarda le strutture abusive, invece, stiamo aumentando i controlli».

Nonostante le università Ca’ Foscari e Iuav pullulino di giovani, dopo la laurea quasi tutti imboccano il Ponte della Libertà e tornano nella terraferma, dissuasi a restare dagli affitti da capogiro. Uffici e magazzini si trasformano in stanze da affittare e giorno dopo giorno si chiudono i palazzi. E in tutto questo a rimetterci sono quei residenti che non vogliono diventare comparse costrette a vivere in un luna park. Il luna park Venezia che, quando cala la sera, viene dimenticato da tutti.

Prosegue il cammino della privatizzazione del complesso delle isole di Sant'Andrea e Certosa, concesse in uso cinquantennale a una S.r.l dedita allo sviluppo del turismo di lusso. I cittadini tacciono, i loro rappresentanti e i media plaudono. Ora si aggiunge il peso di uno sponsor potente. La Nuova Venezia, 9 agosto 2016

Veicoli elettrici e stazioni per la ricarica, sistemi Ict per l’illuminazione pubblica e connettività a banda larga, interventi di efficienza energetica, impianti fotovoltaici, mini-eolici e batterie per l’accumulo dell’elettricità: grazie alla sperimentazione di una serie di soluzioni innovative, frutto dell’accordo firmato tra Vento di Venezia, società che persegue la riqualificazione dell’isola della Certosa in partenariato con il Comune di Venezia , e Terna Plus, la società del gruppo Terna che sviluppa e gestisce le Attività Non Regolate, l’Isola della Certosa diventa un laboratorio per le energie smart.


Il progetto, della durata triennale, si inserisce all’interno di un programma più ampio che ha come obiettivo il recupero, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico, dei 24 ettari di territorio dell’isola della Certosa. Grazie all’intervento di Terna Plus si innalzeranno gli obiettivi del progetto di rigenerazione urbana e l’Isola, che vanta un notevole patrimonio storico e paesaggistico, diventerà un modello di “Smart Energy Island” sostenibile e all’avanguardia a livello internazionale. Con la diffusione delle energie pulite e la loro integrazione in rete, lo sviluppo della mobilità elettrica e una più intelligente gestione dei consumi, l’Isola della Certosa - che attualmente è collegata elettricamente alla rete in terraferma – si orienta alla gestione energetica localizzata e, al contempo, alla riduzione delle emissioni inquinanti, grazie a un minor impiego di fonti di produzione tradizionale, con evidenti ricadute positive per il territorio e per le attività che verranno sviluppate sull’isola.

Per contenere gli impatti dell’intervento di riqualificazione ambientale,tutte le soluzioni individuate saranno studiate per coniugare le esigenze del servizio elettrico con quelle paesaggistiche, con strutture che occupino la minor porzione possibile di territorio, minimizzando l’interferenza con le zone di pregio naturalistico, storico e archeologico presenti sull’isola.

Il progetto per rendere Certosa un’isola a vocazione rinnovabile, smart, sostenibile, più autosufficiente dal punto di vista energetico e a basse emissioni, fa parte della più ampia strategia di Terna per l’ammodernamento delle reti elettriche delle isole minori, che si estende anche ad altri territori italiani: iniziative simili sono, infatti, già state avviate per le isole del Giglio e Giannutri, in Toscana, e Pantelleria, in Sicilia.

Riferimenti

Vedi sull'argomento l'articolo di Lidia Fersuoch, presidente di Italia nostra -Venezia, a proposito del complesso Sant'Andrea-Certosa
Un mercato immobiliare in mano ai ricchi stranieri (ovviamente del Primo mondo), che in maggioranza investono per far quattrini affittando ai turisti. Sempre meno spazio per i veneziani, nella loro riserva indiana. La Nuova Venezia, 2 agosto 2016

Il mercato immobiliare del lusso a Venezia è ormai in mano agli stranieri - il 70 per cento degli acquirenti - e a livello di prezzi non conosce cali particolari, nonostante il momento ancora delicato in Italia per il settore. È la fotografia scattata dal Market Report Venezia 2016 elaborata da Engel & Völkers, gruppo tedesco leader a livello mondiale nel settore dell’intermediazione di immobili di pregio. I prezzi degli immobili più esclusivi, particolarmente i palazzi che si affacciano sul Canal Grande, vanno dai 12 mila ai 20 mila euro a metro quadrato. In particolare, le zone più richieste per la compravendita di proprietà residenziali di lusso sono San Marco e San Polo e Dorsoduro.

I prezzi degli immobili, a Venezia, hanno subito variazioni di prezzo decisamente inferiori rispetto alla media nazionale, appunto a causa della forte domanda da parte della clientela estera. Il 25 per cento dei nuovi acquirenti sono britannici - anche se l’effetto Brexit sulla sterlina potrebbe in futuro farsi sentire - seguiti da francesi (20 per cento) e tedeschi (10 per cento). Il 15 per cento di tutte le compravendite infine riguarda compratori che arrivano da Olanda, Belgio, Stati Uniti e Svizzera.

L’85 per cento delle compravendite riguarda appartamenti, mentre il 15 per cento ville o case indipendenti. Il 14 per cento delle transazioni si riferisce a immobili sotto i 250 mila euro, il 60 per cento a proprietà con prezzo compreso tra 250 e 500 mila, il 3 per cento a immobili tra 501 mila e un milione di euro e ben il 23 per cento a immobili sopra il milione di euro, quasi un quarto del totale.

Il 75 per cento degli acquirenti compra per investimento, garantendosi un’ottima rendita economica derivante spesso da un affitto turistico che si attesta all’8-10 per cento lordo. Solo un quarto decide di comprare per uso privato. Esiste quindi già una speculazione esterna anche per quanto riguarda lo sfruttamento degli appartamenti a fini turistici

Una delle aree più richieste è Dorsoduro, dove i prezzi variano da circa 5.500 a 7 mila euro a metri quadrati fino ad arrivare a picchi di 12 mila per proprietà esclusive sul Canal Grande. Anche l’area di San Polo, pur essendo la meno estesa, è una delle più interessanti vista la sua centralità. I prezzi variano da circa 4 mila a 5.500 euro a metri quadrati, fino ad arrivare anche a 9 mila euro a metro quadro.

A San Marco, invece, il vero cuore della città, i prezzi oscillano tra 4.500 a 6 mila euro a metro quadro fino a un massimo di 10 mila euro per le proprietà più esclusive.

I prezzi sono leggermente più bassi nella zona di Cannaregio dove si possono trovare alcuni dei piani nobili più prestigiosi della città ma anche graziosi pied-a-terre. La zona dei Santi Apostoli viene apprezzata invece per la maggiore tranquillità. Qui i costi variano dai 4 mila ai 5 mila euro a metro fino a 9 mila per gli immobili più grandi affacciati sul Canal Grande.

Prosegue a Venezia l'eliminazione di spazi pubblici a vantaggio degli alberghi di lusso. Questa volta si tratta di un Istituto pubblico di assistenza e beneficenza «che ha confermato l’intenzione di mettere a reddito l’edificio - non vendendolo - ma affittandolo alla società che lo trasformerà in albergo». La Nuova Venezia, 29 luglio 2016 (m.p.r.)

La casa di riposo Ca’ di Dio sarà trasformata in un albergo di lusso anziché continuare a ospitare - come è stato da sempre - una residenze per anziani autosufficienti gestita dall’Ire, l’Istituto per il ricovero e l’educazione. Ieri in Commissione consiliare a Ca’ Farsetti si è discusso infatti della Variante al Prg che consentirà la trasformazione dopo che già il commissario straordinario Vittorio Zappalorto aveva approvato una delibera che elimina lo standard pubblico attuale che vincolava l’uso dell’edificio di origine duecentesca che si affaccia sulla riva dell’Arsenale e apre la strada, dunque alla trasformazione alberghiera. In cambio, saranno rafforzati gli standard delle altre due case di riposo dell’Ire alle Penitenti e alla Giudecca.

La residenza dispone di 78 stanze a un letto con bagno e 6 a due letti, per una ricettività complessiva di 90 posti-letti, ma attualmente sono ancora una dozzina gli anziani autosufficienti ospitati e che pagano rette abbastanza elevate, intorno ai duemila euro mensili. Per l’Ire, quella degli anziani autosufficienti è una categoria ormai residuali [sic! -ndr], visto che la maggior parte degli anziani ospitati nei circa 460 posti disponibili tra le sedi di San Lorenzo, Zitelle e San Giovanni e Paolo - che chiuderà tra pochi mesi per lasciare spazio alla nuova residenza di San Giobbe - non lo sono. Di qui la dismissione della Ca’ di Dio, già attrezzata per la trasformazione alberghiera.
L’Ire ha confermato infatti anche ieri l’intenzione di mettere a reddito l’edificio - non vendendolo -, però, ma affittandolo per circa 850 mila euro all’anno alla società che lo trasformerà in albergo - anche per finanziare altre operazioni immobiliari in corso, ma per cui mancano anche fondi come il complesso di appartamenti che dovrebbero essere realizzati al posto della casa di San Giovanni e Paolo. Proprio il fatto di non vendere l’edificio è una delle condizioni poste dal Comune per dare il via alla Variante. La nuova strumentazione urbanistica sancirà anche la trasformazione d’uso in Cittadella della Giustizia dell’ex Manifattura Tabacchi e proprio ieri nel corso del Consiglio Metropolitano il sindaco Luigi Brugnaro ha annunciato che il Comune cercherà di ottenere i fondi per il secondo lotto dei lavori da quelli che il Governo ha riservato ai progetti per le periferie.
Il giorno in cui l'Unesco prendeva la durissima e giustificata decisione il sindaco della disgraziata città concionava alla Biennale proclamando "Via l'Unesco da Venezia, la città sarà salvata dai suoi abitanti. La Repubblica, 15 luglio 2016
Rapporto shock dell’organismo delle Nazioni Unite: “Basta passaggio delle grandi navi e limite al numero di turisti entro febbraio 2017. In caso contrario non sarà più considerata patrimonio dell’umanità”. L’indagine è nata da un esposto di Italia Nostra
L’ultimatum è perentorio. Se entro il primo febbraio del 2017 non verranno prese misure urgenti, Venezia finirà in una lista nera dell’Unesco, la List of the World Heritage in Danger. Un passaggio che può provocare l’uscita della città e della laguna dai siti patrimonio dell’umanità (Venezia si era guadagnata il riconoscimento nel 1987). Lo ha deciso l’Unesco stesso, ieri a Istanbul, durante la quarantesima sessione del World Heritage Committee.
Con un voto all’unanimità è stato infatti approvato il rapporto che tre ispettori avevano redatto dopo la visita di una settimana compiuta a Venezia nell’ottobre scorso. Al rapporto, 78 densissime pagine, seguiva uno stringente elenco di criticità. Fra le questioni più roventi agli occhi dell’Unesco spicca il passaggio di Grandi Navi davanti al bacino di San Marco e in generale il transito sregolato e caotico di imbarcazioni a motore che alterano pericolosamente il moto ondoso. Altrettanto preoccupanti sono gli interventi in laguna, in particolare gli ipotizzati scavi o allargamenti di canali che sconvolgerebbero definitivamente l’equilibrio di quel pregiato specchio d’acqua. Infine desta allarme l’assenza di politiche turistiche, un settore nient’affatto governato, con flussi di visitatori incompatibili con la fragilità di Venezia, dove è consentita quasi senza limiti la possibilità di trasformare le abitazioni in residenze temporanee, per lo più bed & breakfast.

La richiesta di un intervento dell’Unesco risale al 2011 e fu avanzata da Italia Nostra veneziana, presieduta da Lidia Fersuoch. I cui rilievi sono in gran parte accolti nel rapporto. In questi anni l’organismo delle Nazioni Unite ha avviato tutte le procedure istruttorie per verificare se esistessero ancora le condizioni perché la città e la laguna potessero far parte dei 51 siti italiani patrimonio dell’umanità.

L’Italia è il paese con il più alto numero di siti, che nel mondo sono 1031. Negli ultimi anni hanno rischiato di essere esclusi, senza poi conseguenze, anche Villa Adriana a Tivoli, minacciata prima da una discarica, poi da un insediamento residenziale, e l’area archeologica di Pompei. Una procedura di verifica l’Unesco l’ha avviata qualche mese fa per Vicenza e il paesaggio palladiano: qui un gigantesco complesso edilizio è sorto a qualche centinaio di metri dalla Villa La Rotonda, mentre incalzano preoccupanti progetti per l’Alta Velocità.

Secondo Italia Nostra e altre associazioni, i presupposti sono venuti meno anche a Venezia. Le Grandi Navi transitano regolarmente nel canale della Giudecca per raggiungere la Stazione marittima. Ne arrivano ogni anno, dicono alcune stime, più di 700, il che vuol dire 1400 passaggi davanti a piazza San Marco. Gravissimi, stando sempre alle denunce, sono i danni da inquinamento e da moto ondoso, oltre all’impatto visivo. L’Unesco, nel rapporto, chiede che questi giganti del mare non entrino più in laguna.

Ma le Grandi Navi sono anche l’estremo simbolo di una città consegnata al turismo, 30 milioni di presenze l’anno, il che vuol dire che dalla primavera all’autunno i visitatori ogni giorno sono in numero di gran lunga superiore ai residenti nella città storica, scesi ormai a 56mila (sono 260mila se si comprende Mestre e la terraferma). Tutto, a Venezia, si va piegando alle esigenze turistiche, che sostituiscono i tratti essenziali di una dimensione urbana.

E poi fioccano i progetti alternativi al passaggio delle Grandi Navi. Alcuni prevedono lo scavo di altri canali in laguna per farvi passare le navi tenendole lontane da San Marco: prima il Contorta, più recentemente il Tresse. Su questi progetti il rapporto dell’Unesco esprime molte preoccupazioni per gli effetti di stravolgimento che potrebbero generare sui fondali della laguna stessa, deformandone la natura e trasformandola completamente in un braccio di mare. Il che avrebbe conseguenze drammatiche sulla città di Venezia, il cui benessere dipende molto dallo stato di salute della laguna. Non a caso l’Unesco dichiara patrimonio dell’umanità inscindibilmente città e laguna, raccomandando la tutela di quest’ultima «al pari dei palazzi e delle chiese».

La visione fallocratica della città, conveniente per gli affari, trova facili sponde nel governo della gronda lagunare di Venezia. La Nuova Venezia, 27 giugno 2016

Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione».

Riparte il dibattito. Un tema, quello della cittàche cresce in altezza, che affascina anche se non è nuovo: già nel 2008 con lademolizione dell’ex ospedale di Mestre l’aveva lanciato l’allora sindacoCacciari. In gioco è la città che vogliamo.

Le aree indicate. Brugnaro, laureato in architettura,nel suo piano indica un futuro di densificazione e incremento volumetrico peril centro di Mestre. Dove? Si fa generico riferimento al centro (piazzaFerretto verso via Piave, via Cappuccina e la stazione ferroviaria), poil’ambito di via Torino e via Ca’ Marcello e la prima zona industriale di PortoMarghera, quella più vicina a Mestre alla Città Giardino.

Il Quadrante cambia confini? Rientra nellosviluppo in altezza anche il Quadrante di Tessera, l’area per il divertimento ei nuovi impianti sportivi (leggi stadio). Pare di intuire che la giuntaBrugnaro andrà a modificarne confini e previsioni visto che nel piano si leggeche «le previsioni localizzate del precedente accordo di programma potrannoessere riviste, interessando anche le aree poste in adiacenza o alternative alperimetro iniziale». Vedremo se il piano si rivelerà decisivo per rilanciare lacittà o rimarrà un libro dei sogni: intanto in Consiglio comunale è scontropolitico sui "terreni d'oro".

Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione.

Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness.

L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco nonc ambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre quattro di Metroter (Aev Terraglio).

Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. La Confesercenti si è già pronunciata contro.

postilla
Chissà quando hanno smarrito la capacità di ragionare le persone che propongono, discutono e raccontano i demenziali progetti che questo articolo diligentemente allinea. Chissà come mai a tutti sfugge che, per ogni metro quadrato di superficie calpestabile che si aggiunge a quelli esistenti, bisognerebbe averne una quantità considerevole (almeno doppia) di spazi liberi a terra. Ma la vivibilità è qualcosa che serve solo alla retorica che si adopera per imbellettare gli affari immobiliati.

«La proposta del personale? Prima i mezzi pubblici, poi tutti gli altri. «Stabilire la centralità di tutto è quella di considerare il servizio pubblico di trasporto essenziale e prioritario. Come è previsto in tutte le città in Europa». La Nuova Venezia, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Le parolacce non si contano, come pure gli insulti diretti ai comandanti e talvolta il rischio di passare dalle parole alle mani: di perdere il battello una, due volte, per far salire a bordo prima i “veneziani” non ne vogliono sapere quanti - tra turisti e visitatori occasionali - restano in attesa a bordo dei pontili dove si sta sperimentando l’accesso prioritario per i titolari di tessera unica. A calmare gli animi sopperisce Actv con un’iniezione di corse bis, ma se ne salta una, gli animi si accendono. A suonare la sveglia sono i piloti del Comitato lavoratori Actv, pronti a saltare la fermata di Rialto se seguiranno le intemperanze. «Accade spesso a Rialto nella seconda metà del pomeriggio, a piazzale Roma la mattina, al Lido la sera», racconta Nevio Oselladore, comandante Actv e presidente del Comitato.

«Le telefonate dei colleghi alla centrate operativa sono continue e c’è chi ha già annunciato che per motivi di sicurezza non ormeggerà più al pontile della Linea 2 di Rialto se si ripeteranno queste intemperanze, sempre più accese e, per altro, del tutto prevedibili: questo sistema di priorità non funziona». «Mi spiace dover contraddire chi pensa il contrario», prosegue Oselladore, «ma a piazzale Roma, Rialto, Lido i lavoratori in prima linea rischiano di essere oggetto di aggressioni. Le offese rivolte al personale Actv nei pontili ed a bordo dei battelli non si contano più. I preposti al comando continuano a manifestare estreme situazioni di pericolo e chiedono alla stazione radio di inviare nei pontili gli agenti della forza pubblica e nel contempo di tamponare la situazione con unità in corse bis. Alcuni piloti hanno anche avvisato che in caso di pericolo, non approderanno più a Rialto linea 2, ma effettueranno fermata straordinaria a Rialto linea 1. Tutto questo accade nelle ore di maggior afflusso nelle rispettive direttrici». Actv-Avm hanno aumentato il numero del personale ai pontili, ma non basta a placare gli animi, come non basta l’aver inserito corse bis tra Rialto e Piazzale Roma.
«C’è un grande, caotico dispendio di uomini e mezzi», conclude Oselladore, «perché non iniziare rimettendo i battelli ogni 10 minuti, su linea 1 e 2, invece dei 12 che si sono mangiati una corsa l’ora? Quanto costa alla collettività quest’operazione? Eppoi già viene mal sopportato la differenza del prezzo dei biglietti tra veneziani e turisti, se aggiungiamo anche la forte discriminazione per accedere ai mezzi pubblici, non potremmo nasconderci di fronte alle critiche che ci pioveranno addosso». La proposta del personale? Prima i mezzi pubblici, poi tutti gli altri. «Stabilire la centralità di tutto è quella di considerare il servizio pubblico di trasporto essenziale e prioritario. Come è previsto in tutte le città in Europa».

«“Serve un monitoraggio sugli effetti dei lavori alle bocche”. Un no deciso allo scavo di nuovi canali come il Tresse per le grandi navi». La Nuova Venezia, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

I lavori del Mose hanno trasformato la laguna e cambiato le correnti. Aumentando la velocità dell’acqua e l’erosione, a volte modificando la direzione della marea. Uno stravolgimento che da tempo pescatori ed esperti segnalano inascoltati. Ora reso ufficiale da una delle maggiori autorità idrauliche del mondo scientifico. Luigi D’Alpaos, professore emerito di Idraulica dell’Università di Padova, ha illustrato ieri sera a San Leonardo il risultato dei suoi studi. Lanciando l’allarme alle autorità che i occupano di acque e laguna con una rivelazione clamorosa.

«Siamo in possesso di dati», ha detto alla platea riunita per il convegno della Municipalità sullo scavo dei canali in laguna, «che dimostrano le modifiche apportate dai lavori del Mose alle bocche di porto. Ritardi di fase, ampiezza di marea, fenomeni eccezionali come le acque alte di questi giorni. L’elaborazione di questi dati ci fornisce una spiegazione scientifica a fenomeni segnalati da pescatori e frequentatori della laguna. Purtroppo non controllati e mai monitorati. Almeno si sarebbero potuti prendere provvedimenti per provare a rimediare». Tra i fenomeni osservati e adesso scientificamente testati, ha detto D’Alpaos, «il cambio di direzione della corrente in alcuni rii interni della città; l’aumento della velocità dell’acqua in entrata e in uscita; le correnti sotto il ponte translagunare, da sempre zona di spartiacque e dunque di acque ferme».
«Non si è fatto il monitoraggio, e gli unici studi portati a termine dal concessionario dello Stato», ha accusato D’Alpaos, sono quelli che riguardano la biologia. Ma è un errore, perché prima viene l’idraulica e l’idrodinamica. Così si possono spiegare i nuovi fenomeni biologici».
Pubblico numeroso e attento, quello riunito ieri sera a San Leonardo. Il presidente della Municipalità Andrea Martini ha deciso di convocare gli esperti per dare una risposta scientifica a chi – come il presidente di Confindustria Zoppas – chiede di accelerare lo scavo del canale Tresse in nome del rilancio della crocieristica. «La portualità e i canali navigabili non sempre sono compatibili con la salvaguardia della laguna», ha detto D’Alpaos. Che ha ribadito il suo «no» allo scavo di nuovi grandi canali. «Gli effetti locali vanno monitorati e fermati», ha detto l’ingegnere, «altrimenti faremo una replica esatta del canale dei Petroli. Nel 1979 con il professor Ghetti avevamo lanciato l’allarme sugli effetti di quell’autostrada in laguna. Nessuno ci ha ascoltato, e gli effetti li abbiamo visti, soprattutto sul fronte dell’erosione. Adesso siamo daccapo. Scavando un nuovo canale si distrugge la laguna. Meglio sarebbe stato fare arrivare in fondo le navi, scavare un bacino di evoluzione e poi far passare le navi per il già esistente canale Vittorio Emanuele».
Il Porto sostiene che D’Alpaos, qualche anno fa, aveva dato il via libera al Contorta. «Non è vero», in uno studio avevo detto che non ci sarebbero stati effetti generali sulle maree. Ma a livello locale sì, l’erosione aumenta». Per rendere concreto il concetto, il professore ha proiettato simulazioni su cosa succede in laguna al passaggio di una grande nave da 100 mila tonnellate. Spostamenti d’acqua, erosione, sedimenti che se ne vanno dalla laguna al mare. E difese che diminuiscono. «Bisogna fare scelte che non compromettano ancora di più l’equilibrio della laguna», ha concluso D’Alpaos. «Offriamo questo contributo scientifico», ha detto il presidente Martini, «alle autorità che devono decidere sui futuri scenari. Occorre aprire un dibattito sulle conseguenze che gli interventi in laguna possono avere sull’ecosistema»
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