Domani ci sarà la manifestazione contro le grandi navi alle Zattere, a Venezia. E ieri il sottosegretario allo sviluppo economico, Antonello Giacomelli ha risposto ad una interpellanza presentata per l’occasione dal sottoscritto per sapere cosa si sta facendo per risolvere lo sconcio del passaggio dei «mostri del mare» per il canale della Giudecca e il bacino di San Marco.
Giacomelli ha risposto assai male. Ha detto che non è escluso lo scavo di nuovi canali in laguna (sarebbe un disastro per l’ecosistema lagunare: comitati e ambientalisti sono contrari). Poi ha detto che i traghetti (che sono spesso sotto le 40mila tonnellate) e le navi merce non passano più per il canale della Giudecca, ma si è dimenticato di dire che quasi 600 navi da crociera (che hanno più del doppio delle tonnellate di un traghetto, numero di navi aumentato dell’80% negli ultimi anni) fanno invece su e giù ogni anno per lo stesso canale. Infine il vice ministro – di fronte alla richiesta – di fare qualcosa presto, urgentemente, ha promesso un incontro tra l’Unesco e i ministeri competenti. Addirittura.
Infatti proprio l’Unesco il 13 luglio scorso nel suo vertice in Turchia ha minacciato di togliere Venezia dal catalogo dei siti «patrimonio dell’umanità» se il governo italiano non interverrà entro il 1 febbraio del 2017 su alcune questioni centrali della città: la salvaguardia dell’ecosistema lagunare, la gestione dei flussi turistici, la questione delle grandi navi. Che fa il governo? Convoca una riunione non si sa quando.
E Renzi che parla tanto di Olimpiadi a Roma e ieri di Expo a Milano, su Venezia – che merita almeno eguale rispetto – non spende nemmeno una parola.
Governo che in questi anni ha assicurato attraverso i suoi ministri (Franceschini, Galletti, Orlando) che mai più le navi da crociera sarebbero circolate per la laguna. È successo qualcosa? Niente. Nel 2012 (c’era il governo Monti) con il decreto Clini-Passera si stabiliva il divieto per la navigazione per le navi sopra le 40mila tonnellate, divieto che però veniva sospeso per trovare delle vie alternative alle navi-grattacielo. Decreto che poi è stato integrato da un provvedimento del governo Letta (nel 2013) che riduceva il numero di passaggi e stabiliva comunque a 96mila tonnellate il limite per le navi. Ma sono state trovate queste vie alternative? No. E le proposte presentate (scavo del canale Contorta, Tresse, ecc.) sono un pericolo enorme per la laguna. Qualsiasi via alternativa non deve manomettere l’ecosistema lagunare e non deve avere impatto sulle emissioni (acustiche ed atmosferiche). Ma intanto il governo latita e la giunta veneziana capitanata da Brugnaro non è da meno.
Allora c’è da fare una sola cosa oggi. Nell’attesa di trovare queste vie alternative (ancora da individuare e poi da realizzare e chissà quanti anni passeranno) bisogna imporre il divieto delle 40mila tonnellate «senza se e senza ma» e stabilire un numero chiuso per le navi. Questa è la strada da percorrere se si vuole salvare Venezia.
Domenica alle Zattere. Un solo no contro le grandi navi, ma tanti sì per una vita a Venezia, per le case per gli abitanti, per fermare il moto ondoso e, infine, un grande sì per “la difesa e il ripristino ambientale della Laguna”». La Nuova Venezia, 23 settembre 2016 (m.p.r.)
Venezia: Un palco galleggiante di venti metri per otto sarà allestito per la “Festa granda” del Comitato No Grandi Navi. La manifestazione per ribadire che le grandi navi devono passare fuori dalla laguna sarà domenica, alle Zattere dalle 15 alle 21; giornata in cui è previsto il passaggio di sei navi, due oltre le 90 mila tonnellate.
Una volta all'anno le porte del carcere si aprono, e si scopre un luogo bellissimo e una umanità che non si immagina. Il segreto è nella solidarietà di generee nella collaborazione tra le ristrette, la dirigenza, le associazioni e il territorio. ilPost.it, 19 settembre 2016 (m.p.r.)
La porta d’entrata, verde scuro, pesante, è all’interno di un ingresso come gli altri. Superata la guardiola (un ufficio, qualche calendario della polizia appeso a un chiodo, delle agenti penitenziarie che sbrigano le nostre pratiche e ci fanno lasciare le borse in un armadietto) si entra in un corridoio. Siamo “dentro”, come si dice, anche se non sembra.
Il carcere femminile della Giudecca a Venezia è un posto diverso da come ci si immagina una prigione: più volte ci si ritrova a pensare che è un posto bello e poi subito dopo a pensare che un posto così, bello non può essere. È diverso perché quasi tutte le detenute lavorano, perché c’è una sezione speciale per le madri - anche se la legge le prevede, non è facile trovarne di attive in Italia – ed è diverso perché è solo per donne. Questo significa molte cose, ma due in particolare, dicono le persone che ci lavorano: i reati commessi dalle persone qui dentro hanno una fortissima componente affettiva e molte delle condanne più lunghe nascono da uno strano incastro «tra chi usa la legge e chi invece la applica».
La Casa di reclusione si trova in un antico monastero fondato nel XII secolo. Poco dopo il 1600 divenne un ospizio gestito dalle suore per prostitute “redente” e diede il nome alla calle dove ancora oggi si trova l’entrata principale: calle delle Convertite. Se ci si passa davanti non la si vede subito: poco prima ci sono un campo con una vigna e delle reti da pesca, un piccolo ponte e poi un edificio tra gli altri, solo un po’ più alto, di cui fa parte anche una chiesa. Sulla facciata c’è una targa in latino in cui si parla di Santa Maria Maddalena penitente, delle «donne convertitesi a Dio dalla bassezza dei vizi» e delle suore che «con uno straordinario esempio di pietà» ricevettero nel 1859 dal governo austriaco l’incarico di gestire le carceri. All’epoca, la Madre superiora era anche la direttrice.
Le donne detenute sono una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale: in Italia circa il 96 per cento dei carcerati sono maschi e le donne sono circa il 4 per cento. I dati ufficiali più aggiornati (dicembre 2015) dicono che su quasi 54 mila persone recluse, le detenute sono 2.107: di queste 1.267 hanno condanne definitive e 790 sono straniere. La maggior parte delle donne carcerate si trova in 52 reparti isolati dentro penitenziari maschili e vive una realtà che è stata progettata e costruita «da uomini per contenere uomini»: in molti casi le detenute «sono lontane dalle loro famiglie», hanno necessità di salute particolari e «i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi». Questo lo scrive il ministero della Giustizia nel suo rapporto del 2015 sulla detenzione femminile. Anche l’ordinamento penitenziario le considera poco e disciplina la carcerazione delle donne solo in due commi all’articolo 11 che fanno riferimento, però, alla sola condizione della maternità.
Rispetto agli uomini, le detenute hanno anche minore possibilità di accesso alle attività lavorative: è una «discriminazione involontaria», dice sempre il ministero, causata dal numero limitato di carcerate e dall’impossibilità di condividere gli spazi con gli altri uomini per evitare situazioni di promiscuità: alle detenute, negli istituti di pena, è quindi spesso negato l’accesso alle strutture comuni per fare sport, per studiare o fare dei corsi e soprattutto per lavorare. Sono più carcerate degli altri.
Questo è come le cose funzionano in generale: poi ci sono alcune eccezioni. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne in Italia sono cinque: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e appunto la Giudecca. L’istituto di Venezia è costituito da vari edifici intorno al nucleo originale, formato dalla chiesa e dal convento. Al piano terra ci sono degli uffici, la sala colloqui, il magazzino e la cucina. Al primo piano la sezione detentiva con le aule scolastiche, la biblioteca, quella che chiamano “sala ricreativa”, gli uffici del personale e la cappella. Al secondo piano c’è l’infermeria con una sezione detentiva e due sale. Al terzo piano c’è la “sezione semi-libere”. Altre parti dell’edificio, non utilizzate e un po’ fatiscenti, si affacciano su un grande piazzale interno: è il “cortile dell’aria” con un pozzo chiuso, una vecchia rete da pallavolo e una panchina. Qui “le donne” (così le chiamano le persone che ci lavorano) possono uscire un’ora e mezza la mattina e due ore il pomeriggio.
Il lavoro
Alla Giudecca ci sono 78 donne, il carcere ne può accogliere poco più di un centinaio: 42 sono italiane, 36 straniere di 14 nazionalità differenti. Tra tutte e 78, 57 (cioè il 73 per cento) ha condanne definitive e, in forte controtendenza con la media nazionale, quasi tutte lavorano. Le due o tre che non lo fanno hanno problemi di salute. Ci sono i lavori interni gestiti dall’amministrazione, i lavori di manutenzione ordinaria e poi ci sono una lavanderia, una sartoria, un laboratorio di cosmetica e un posto speciale, che in molti (giornalisti, fotografi, registi) vengono a visitare: l’orto.
All’orto si arriva attraverso un piccolo corridoio dal cortile dell’aria: misura 6 mila metri quadri e ci sono diverse serre. Si coltiva un po’ di tutto, compresi gli ortaggi tipici locali: i radicchi di Treviso (e c’è una vasca per l’imbianchimento), il broccolo padovano, quello di Creazzo, il carciofo violetto di Sant’Erasmo. Girano dei gatti, ci sono anche un frutteto e una sezione “aromatica” dedicata alle erbe officinali e ai peperoncini. Ci fermiamo a parlare sotto agli alberi, è fine estate e l’orto è rigoglioso.
Liri Longo, presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri che gestisce l’orto, e Vania, che ne fa parte da quindici anni, ci spiegano che la produzione è abbondante e che i frutti e gli ortaggi raccolti vengono venduti al mercatino che due detenute allestiscono fuori dal carcere ogni giovedì mattina. Parte della produzione finisce invece nelle borse distribuite dai gruppi di acquisto solidale della zona o rifornisce alcuni ristoranti di Venezia, mentre le erbe aromatiche e medicinali vengono usate dal laboratorio di cosmetica per la preparazione dei prodotti da bagno di alcuni alberghi: detergenti, balsami, creme. Le cose che si coltivano nell’orto non finiscono nella mensa della prigione ma le donne possono acquistarle, se vogliono: lo fanno soprattutto d’estate. Molte, ci spiegano, non mangiano in mensa, ma hanno dei fornelli da campeggio nelle stanze e con quello che possono acquistare cercano di cucinare i piatti delle loro tradizioni («e riescono a fare delle cose incredibili»).
Nell’orto lavorano sette donne e tutte hanno fatto un apposito corso di formazione. Questa è l’occupazione più ambita, ma la convalida delle richieste e la selezione dipende dal fine pena e dalla situazione di ciascuna. Quello dell’orto, che si trova vicino al perimetro dell’edificio, è infatti considerato un lavoro esterno ed è regolato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Chi sta qui lavora tutto il giorno, dal lunedì al venerdì, non ci sono attrezzi complicati o particolarmente moderni e tutto viene fatto a mano: c’è un piccolo trattore parcheggiato all’interno di una serra che però può essere usato solo dall’agronomo. Insieme al tecnico di laboratorio di cosmetica, è uno dei due uomini che incontriamo dentro la prigione.
Le finestre del laboratorio di cosmetica si affacciano sull’orto. Maggie lavora al laboratorio: è rom, ha 28 anni e tre figli: «La cosa migliore che ho fatto», dice. Tra macchinari e barattoli di creme ci racconta che durante i tre anni di carcere preventivo scontati altrove non ha mai lavorato e che il lavoro in carcere viene considerato un privilegio: «Per buona parte della giornata ho una vita normale, le ore in laboratorio passano veloci, i pensieri restano in cella e poi mi posso mantenere: questo è importante per la mia dignità». Dice che quando stava nell’orto era più bello e intanto guarda sorridendo la sua responsabile: «Non mi sentivo in prigione, mi sembrava di essere fuori da qualche parte e poi la sera quando finivo, mi sembrava di rientrare. I lavori esterni sono i migliori perché non sei a contatto tutto il giorno con le persone con cui già devi vivere». Quello nel laboratorio è comunque un lavoro “qualificato”: servono competenze e determinati requisiti. Un’altra donna che ci lavora ci spiega con orgoglio che è necessario un minimo di istruzione: «Bisogna almeno saper leggere e scrivere per seguire le ricette e poi si ha a che fare con dei prodotti chimici, non tutte possono farlo».
La cosa più bella che è successa a Maggie negli ultimi anni, dice, è stata quella di poter vedere i suoi figli su Skype. Oltre alle telefonate, che sono di soli dieci minuti la settimana, frazionabili, da quest’anno per alcune detenute che non hanno la possibilità di fare colloqui e che hanno figli minori lontani c’è l’opportunità di usare Skype. Non è ancora diventata una prassi, però, e Maggie è stata la prima.
Vania, l’operatrice, ci racconta che per il loro lavoro le donne vengono retribuite, come stabilisce la legge. Ci sono una “borsa lavoro” messa a disposizione dal comune di Venezia che è fissa e poi ci sono i ricavati delle vendite che vengono suddivisi dalla cooperativa tra le lavoratrici. Con la «bella stagione» chi lavora nell’orto arriva anche a un totale di 500 euro mensili, compreso il contributo fisso. Il salario in carcere non si chiama così ma “mercede”, che è una specie di residuo linguistico: la retribuzione non è ancora intesa come un corrispettivo per il lavoro svolto, quanto piuttosto come una concessione accordata dallo Stato. Le buste paga vengono gestite da un ufficio interno. Le donne non maneggiano direttamente i soldi, ma possono disporne: mandarne una parte a casa e usare l’altra per comprarsi quello di cui hanno bisogno. «Sigarette, e poi c’è un elenco di cose che possono acquistare al magazzino interno in base a una lista che compilano una volta la settimana».
Oltre a Rio Terà dei Pensieri, all’interno del carcere lavora anche la cooperativa Il Cerchio che gestisce la lavanderia e la sartoria in cui lavorano sette detenute, una con contratto di formazione e sei con una “borsa lavoro” erogata dal comune. Il lavoro proviene da commissioni di ditte esterne tra cui il teatro La Fenice; parte dei vestiti sono in vendita al “Banco Lotto N° 10″, dove lavora una ex detenuta e che è stato inserito in molte guide turistiche.
La convivenza
Alcune agenti penitenziarie ci raccontano che, in generale, le celle e gli spazi individuali del carcere vengono curati con particolare attenzione: le stanze sono ordinate e pulite e si tende a replicare nella stanza l’ambiente della propria casa. Le donne della Giudecca dormono in 22 camere. Il problema principale sono proprio le stanze che sono molto ampie e ospitano più o meno 5-6 detenute ciascuna: ricordano delle camerate e non permettono momenti di intimità e isolamento: «L’essere sempre in collettività viene vissuto come vincolo e limitazione. Non ci sono spazi per la solitudine», ci raccontano le operatrici. «Allora molte donne, anche non credenti, vanno in chiesa per stare da sole o per piangere».
Alla Giudecca lo stare insieme ha creato però qualcosa di buono: un sistema molto particolare per risolvere i conflitti. Quando c’è un problema le donne si riuniscono in assemblea, se ne assumono la responsabilità e cercano di trovare, insieme e autonomamente, una mediazione. Questo meccanismo funziona. Le assemblee sono molto animate, ma le decisioni prese (senza l’intervento delle agenti o di altre mediazioni “esterne”, se non è necessario) convivono o rendono più semplici quelle dell’amministrazione e della direzione in una relazione tra i due livelli «molto particolare e collaborativa». Il merito di questa situazione è attribuito all’attuale direttrice, Gabriella Straffi, che tra poco andrà in pensione. Tutte le persone con cui parliamo sono molto preoccupate da quello che succederà dopo. Il timore è che la Casa di reclusione della Giudecca possa essere associata alla direzione del carcere maschile: «E invece è solo una direzione autonoma che potrà mantenere viva quella sensibilità di genere che qui è indispensabile».
Donne che sono anche madri
Le donne incarcerate hanno mediamente condanne più brevi rispetto a quelle degli uomini, e hanno minori probabilità di avere qualcuno a cui affidare la casa e la famiglia. A Venezia dalla fine del 2013 è attivo un ICAM, un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute. Ci vivono 9 donne e 5 bambini (alcune di loro sono incinte). Due mamme lavorano nell’orto, mentre una volta non potevano: all’interno del carcere le madri erano solo madri, e non erano inserite nelle attività lavorative.
E. A. preferisce che il suo nome non venga scritto per esteso, ha 32 anni che si faticano a ritrovare nell’espressione del viso, ha qualche tatuaggio ed è arrivata alla Giudecca nel febbraio del 2012. Resterà qui fino al febbraio del prossimo anno «e sembra manchi poco, ma qui il tempo non passa mai». E. è rom, lavora nell’orto dal 2014 e tiene il banchetto esterno del giovedì. Dorme nell’ICAM e il bambino più grande qui alla Giudecca, che ha quasi sei anni, è suo; ha altri 5 figli che non vede e non sente da moltissimo tempo. Le chiediamo che spiegazioni ha dato al figlio quando è cresciuto e ha cominciato a fare delle domande. Dice che non gli ha detto che vive in una prigione: «Forse lui se ne rende conto, ma gli ho raccontato di dover stare qui perché ci devo lavorare». In un tema fatto a scuola il bambino di E. ha scritto di avere una macchina blu e una barca, sempre blu, che sono la macchina e la barca che la polizia usa per i vari trasferimenti. Nel cortile dell’ICAM il figlio di E. ha anche festeggiato un compleanno invitando «da fuori» i compagni di scuola. Quando usciranno, tra qualche mese, E. e suo figlio andranno insieme in una casa famiglia.
Ogni giorno al carcere della Giudecca arrivano dei volontari che vengono a prendere i bambini per portarli all’asilo, a scuola, o ai campi estivi. L’ICAM è un ambiente creato per loro. Lo si intravede poco dopo il corridoio d’entrata: c’è un giardino verde con un’altalena e qualche gioco, le stanze e i corridoi sono colorati, le camere da letto hanno lettini o culle. Ci sono passeggini, seggioloni e quello che a una madre e a un bambino può servire. Ma l’ICAM di Venezia è solo uno dei pochi che avrebbero dovuto essere aperti dopo l’approvazione della legge, nel 2011.
Per amore e per una strana alleanza
Il 26 per cento delle donne che si trovano alla Giudecca è formalmente in carico al Ser.D. (il Servizio per le dipendenze), mentre il 33 per cento è seguito dal servizio di psichiatria. I reati commessi sono i più diversi: si va dai furti più banali a quelli nelle case, fino agli ergastoli per omicidio. In generale alla Giudecca vengono inviate le donne che devono scontare condanne elevate, proprio per la struttura del carcere e per come è organizzato.
Sergio Steffenoni, garante per i diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del comune di Venezia, ci racconta che in molti casi le condanne elevate nelle donne hanno una spiegazione comune che ha a che fare l’articolo 146 del codice penale. L’articolo dice che «l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita se deve aver luogo nei confronti di una donna incinta o se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno».
Spesso le donne incinte o madri nelle carceri italiane sono sinte o rom, sono giovanissime e consapevoli che con l’attuale legislazione in breve tempo saranno messe in libertà: la legge è stata pensata per tutelare i minori, ma si può ritorcere sulle madri che spesso sono spinte dai mariti e dalla “tradizione” a delinquere, a fare figli e poi a delinquere ancora, accumulando insieme condanne e bambini. Ci sono donne di 35 anni con 25 anni da scontare e 8 figli che spesso non hanno avuto tempo di crescere. In un documento fatto dalle donne rom e sinte della Giudecca in occasione degli Stati Generali del ministero della Giustizia c’è scritto che nei loro confronti «non c’è nessuna prevenzione, nessuna tutela, nessuna assistenza». E parlano di una specie di «alleanza» tra magistrati e mariti: i primi rispettano la legge, i secondi la usano. In entrambi i casi, loro sono le vittime: «Consapevoli ma senza strumenti economici, sociali o culturali per ribellarsi».
I reati commessi dalla donne in generale, ci raccontano Steffenoni e Marina Zoppello, l’educatrice, hanno una componente “affettiva” molto alta: cosa che non avviene invece per gli uomini. Questo comporta, tra le altre cose, che le donne tendano a giustificarsi più degli uomini e quindi trovino più difficoltà nella presa di coscienza di quel che si è fatto: «C’è una specie di rivendicazione del reato», anche nella fase di esecuzione della pena. La componente emotiva crea una maggiore difficoltà nell’accettazione della detenzione; i tempi di elaborazione, del pentimento e della cosiddetta “revisione critica” sono molto complessi e dolorosi. «Il reato è stato compiuto per amore dei figli o del compagno: diventa così un incidente di percorso e non una scelta pienamente consapevole. Il sentimento prevalente è la preoccupazione per il dopo, legato non soltanto alla possibilità di un reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale: spesso molte di queste donne, prima, hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle».
Marina Zoppello ci parla di persone molto complesse «che hanno lottato tanto nella vita, che hanno tenuto insieme la famiglia con un’altissima spinta protettiva, che hanno sopportato violenze e abusi e che a un certo punto sono esplose». Nei maschi, ci spiega l’educatrice con molta delicatezza e cercando di non essere fraintesa, prevale la progettualità del reato, mentre dalle donne «il reato è in un certo senso subìto». Chiediamo se intervenendo sul prima, sulle situazioni di violenza domestica o di sfruttamento per il mantenimento della famiglia, per esempio, si possa in qualche modo evitare che al reato ci si arrivi: «Sì, molto probabilmente e nella maggior parte dei casi sì».
Manifestazione promossa da Generazione 90. «A centinaia con carretti e borse della spesa per ponti e calli: "Per riprenderci Venezia. Diamo un segnale di normalità perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi"». Veneziatoday.it, 10 settembre 2016 (m.p.r.)
Sono partiti alle 10 da Rio Terà San Leonardo a Cannaregio, con destinazione il mercato di Rialto, armati di borse della spesa, carrelli e passeggini. E a giudicare dalla partecipazione attiva, almeno qualche centinaia tra ponti e calli, non si può certo dire che la manifestazione "Ocio ae gambe, che go el careo!" sia stato un insuccesso. Un corteo per dire "no" alla morte di Venezia, per resistere e impegnarsi per difendere la vivibilità e la residenzialità della città.
L'iniziativa è stata promossa dai ragazzi di "Generazione 90", il gruppo trasversale di ragazzi ventenni e trentenni nato tre mesi fa per tutelare il diritto di vivere Venezia. "Diamo un segnale di normalità, - avevano spiegato qualche giorno prima del corteo - perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi. Tutti sono invitati a partecipare, portando carrelli della spesa e passeggini: il senso dell'iniziativa è proprio quello di guardare al futuro con coraggio. Ci teniamo a sottolineare che il corteo è apartitico e preghiamo quanti vorranno partecipare di non portare simboli di alcun tipo". Al termine della manifestazione, attorno alle 11.30, non è previsto alcun tipo di intervento, "perché il tempo delle parole è finito ed è invece il momento per i cittadini di mostrarsi uniti in difesa di Venezia".
Moltissime le associazioni che hanno aderito all'iniziativa, da Masegni e Nizioleti a Italia Nostra - Venezia e VeneziadeiBambini, dall'Associazione San Francesco della Vigna a Evenice e Venezia360. Queste si sono aggiunte a quante precedentemente avevano aderito, da Mamme con le Rampe a Rialto Novo, da Venessia.com ai Cerchidonda, da Garanzia Civica al Circolo Ricreativo 3 Agosto, dal Gruppo 25 Aprile ai Giovani Veneziani.
Si delinea il fronte degli operatori economici, artigiani ed albergatori, e di associazioni di cittadini che chiedono un freno all'invasione turistica. Non decolla il dibattito su quale Venezia, diversa da quella turistica, si vuole realizzare. La Nuova Venezia, 7 settembre 2016 (m.p.r.)
«L’analisi di Gherardo Ortalli, a capo dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti. "È mancata qualsiasi politica di programmazione, superato il limite massimo"». La Nuova Venezia, 4 settembre 2016 (m.p.r.)
Venezia. Trenta milioni di turisti l’anno, di cui i due terzi escursionisti giornalieri. Palazzi ed ex conventi che diventano alberghi, appartamenti trasformati in affittacamere e bed and breakfast, posti letto moltiplicati e diventati oltre 50 mila, come gli abitanti della città. B&B passati da pochi anni da 96 a 2727, mentre gli alberghi a quattro stelle sono diventati 116, il doppio del 2010, quelli a cinque stelle 21 (quando erano soltanto 5). Senza contare gli appartamenti affittati «in nero». Una valanga che rischia di travolgere il fragile equilibrio della città storica.
Ad esempio? «La ricerca di Paolo Costa e Jan van der Borg alla fine degli anni Ottanta. Si fissava un limite preciso al numero dei turisti. Ventimila giornalieri, sette milioni l’anno che la città poteva sopportare senza esserne snaturata. Ma l’asticella è stata sempre alzata. Risultato, oggi siamo a 30 milioni: evidentemente il parere degli esperti e degli studiosi non interessa nessuno».
Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato...(segue)
Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato mentre stende la mano benedicente verso le prime capanne ed i primi abitanti della laguna. Ora gli abitanti della laguna sono stati cacciati, e ognuna di quelle isole benedette è diventata, o si avvia a diventare, un albergo di lusso.
Periodicamente appaiono articoli di stampa nei quali si dà conto, spesso compiacendosene, che “a Venezia è caccia ai resort sulle isole…. il fenomeno si sta intensificando… le isole stanno vivendo un vero e proprio boom di gradimento e attirano investimenti esteri (Sole 24 Ore, 15 maggio 2015). Non si dice, però, che il “fenomeno” è il risultato del piano messo a punto e accuratamente attuato dagli amministratori locali a servizio degli investitori, per cedere ai privati la proprietà non solo di singoli edifici, ma di intere isole.
Le decisioni del comune che, come “bombe intelligenti” sono state usate per “neutralizzare” gli abitanti e salvare le pietre, hanno colpito tutto il territorio lagunare. Ma è nella serie di isole che si snoda a sud della Giudecca e di San Giorgio: la Grazia, San Clemente, Sacca Sessola, Santo Spirito, Poveglia, che il progetto, avviato vent’anni fa, con l’intento di trasformare la laguna in un contenitore di villaggi per le vacanze dei ricchi è stato portato a termine nel modo più completo e sistematico.
San Clemente e Sacca Sessola.
Nel 1997, subito dopo la rielezione a sindaco di Massimo Cacciari, il comune inizia le procedure per la vendita di San Clemente, già sede di un ospedale psichiatrico, nella cui proprietà era subentrato alla provincia, nel 1992, in seguito alla chiusura delle strutture manicomiali imposta dalla legge 180 del 1978, fermo restando il vincolo di utilizzo a favore delle attività della ULSS, l’azienda sanitaria locale.
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| San Clemente |
Il primo atto è un accordo di programma con l’azienda sanitaria e con la regione (ai tempi presieduta da Giancarlo Galan), accordo che viene sottoscritto in tempi rapidissimi, perché tutte le istituzioni coinvolte sono favorevoli all’operazione. Scrive, ad esempio, Carlo Crepas direttore della ULSS in una lettera al sindaco: “caro Cacciari, come ti ho più volte illustrato, stiamo seguendo le vie più opportune per addivenire alla alienazione dell’isola di san Clemente, cui l’amministrazione comunale è molto interessata al parimenti di noi.. il ritorno per il servizio sanitario nazionale e l’utenza sarebbe positivo e incontrovertibile… inoltre… in questo momento vi sono buone possibilità di reperire sul mercato potenziali acquirenti tenuto conto della carenza di posti letto alberghieri nel centro storico veneziano, in relazione anche al periodo concomitante con il prossimo Giubileo”.
Nel mentre lavora per consentirne la vendita, il comune si attiva anche per rendere più appetibile l’acquisto dell’isola, modificandone le destinazioni d’uso che, secondo il piano regolatore, erano: ospedali per la parte edificata e rurale a cultura estensiva per quella non edificata. La variante al piano regolatore, predisposta nello stesso 1997 dall’assessorato all’urbanistica, di cui è titolare l’architetto Roberto d’Agostino, si pone come obiettivo quello di “determinare le condizioni reali per l’utilizzo del bene” e indica tra le destinazioni ammesse: abitazioni collettive, attività ricettive, espositive, di istruzione, uffici, attività ricreative e culturali. In alcuni edifici, inoltre, autorizza l’inserimento di nuovi solai per aumentare il numero dei piani.
Dopo di che, l’isola, che ha una superficie di 6,7 ettari, va all’asta e, nel 1999, viene acquistata, per l’equivalente di circa 10 milioni di euro, dalla Compagnia Finanziaria di Investimento spa di cui è principale azionista Gilberto Benetton.
Si conclude, così, la prima parte di una vicenda che è un caso da manuale della saldatura tra privatizzazione della sanità pubblica e privatizzazione del territorio. A nulla sono valse le proteste, peraltro isolate, di cittadini e associazioni, tant’é che, nel 2004, il Tar respinge il ricorso dell’Associazione italiana per la tutela della sanità mentale, che aveva denunciato lo sviamento di fondi pubblici da parte dell’azienda sanitaria locale perché aveva ignorato il vincolo d’obbligo dei proventi della alienazione a favore di attività e servizi per la salute mentale e “aveva deportato i ricoverati per liberare l’isola e farne una perla del turismo lagunare”.
La successiva realizzazione del complesso alberghiero vede alterne vicende e cambi di proprietà, che non inficiano, però, il successo complessivo dell’operazione. Ora San Clemente appartiene alla società turca Permak che l’ha data in gestione al gruppo Kempinski. Nel marzo 2016, l’albergo è stato riaperto con il nome di San Clemente Palace Kempinski Venezia. “Il Palace è perfetto per il portafoglio Kempinski” ha detto l’amministratore delegato della società. “Offre relax totale.. su un’isola privata che si sviluppa su più di sette ettari e con splendidi giardini, gli edifici storici del monastero e una chiesa risalente al XII secolo ”.
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| Sacca Sessola |
Simili, e pressoché contemporanee le tappe che hanno consentito la trasformazione di Sacca Sessola, già sede di un ospedale per malattie polmonari, in albergo gestito da una multinazionale del turismo di lusso.
Nel 1997, il comune adotta una variante al piano regolatore che modifica le destinazioni d‘uso della grande isola, 16 ettari di superficie, che l’azienda sanitaria locale intende vendere per 13 milioni di euro. In questo caso l’acquirente non è un “imprenditore mecenate”, ma la CIT Compagnia italiana del turismo che, nel 1998, è stata privatizzata dal governo Prodi e usando soldi pubblici si è lanciata in speculazioni nei settori più vari. Prima di fallire, la CIT realizza un albergo al grezzo il cui completamento si prolunga per una decina d’anni. Nel 2012, l’amministrazione del sindaco Giorgio Orsoni elimina la previsione di attrezzature sportive, che secondo gli strumenti urbanistici avrebbero dovuto essere create nella parte nord ovest, perché “non vi è alcun interesse da parte dell’amministrazione comunale all’uso di impianti sportivi in quell’ambito” e approva il progetto di riqualificazione unitaria predisposto dai proprietari.
Ora l’isola appartiene a una finanziaria tedesca la Aareal Bank, che l’ha data in gestione al gruppo americano Marriott. A sancire la conquista, i nuovi padroni hanno cambiato il nome di Sacca Sessola, battezzandola Isola delle Rose.
Oltre alle 250 camere della parte propriamente alberghiera, il Marriott Venice Resort ha al suo interno una chiesetta che verrà ristrutturata per i matrimoni e un “centro benessere” con tre piscine, di cui una coperta, “la spa più grande di Venezia.. . un paradiso a portata di turista dove il relax non è più un semplice lusso” (La Stampa, 29 giugno 2015).
Nei messaggi pubblicitari dell’albergo, che per Marriott rappresenta “la prima proprietà 5 stelle de luxe in Italia”, l’isola è descritta come “un luogo unico per rigenerarsi… carico di energia positiva, vi spira una brezza, già mediterranea nel gioco delle correnti, fresca e benefica”. Non a caso era un sanatorio!
La Variante al Piano regolatore generale
per la Laguna e le isole minori
Soddisfatti per l’esito delle varianti di San Clemente e Sacca Sessola, gli amministratori comunali decidono di non procedere più caso per caso, ma di predisporre una Variante al Piano regolatore generale per la Laguna e le isole minori. Il documento, redatto tra il 1999 e il 2001, è adottato dal comune nel 2004, quando è sindaco Paolo Costa, ma l’assessore competente è ancora l’architetto D’Agostino.
Bisogna “approntare un quadro urbanistico che consenta il riuso e sia già pronto quando si presentino i potenziali investitori”, si legge nella relazione che illustra la filosofia del comune nei confronti dei beni pubblici e descrive i criteri e le modalità di intervento più idonei per renderli attraenti ai privati.
Secondo gli estensori, infatti:
- se molte isole sono state abbandonate è perche le loro destinazioni non erano più appropriate, “si trattava di usi poveri che sfruttavano l’insularità per creare condizioni di segregazione rispetto al contesto urbano”,
- essendo abbandonate, le isole sono soggette ad usi predatori… è la “tragedia dei commons” per cui i beni pubblici vengono sfruttati in maniera non sostenibile,
- il piano regolatore generale del 1962 vincola molte isole della laguna a destinazioni d’uso obsolete, militari e ospedaliere, da tempo cessate e non più opportune, il che ne ostacola seriamente l’uso.
Ne deriva l’obiettivo primario di “favorire il riuso delle isole con attività che generino flussi di persone tali da giustificare nuove linee di trasporto pubblico, anche a chiamata, cosicché gli usi controllati aiutino a combattere quelli predatori”.
Dal punto di vista operativo, e tenuto conto che il recupero è possibile “solo per funzioni che diano agli immobili un valore tale da rendere economicamente sostenibili i costi, la variante indica una “gamma realistica di destinazioni compatibili con la valorizzazione di ogni isola e della porzione di laguna limitrofa”. Fra gli usi ammessi ci sono sempre attrezzature collettive “non necessariamente di proprietà pubblica” e, siccome per alcune isole “il recupero all’uso può essere ostacolato dall’insufficiente capienza degli edifici esistenti”, è ammessa la realizzazione di strutture necessarie all’efficiente esplicazione delle funzioni previste dallo strumento urbanistico” (cioè nuovi edifici).
Per i cittadini (i “predatori” secondo l’amministrazione comunale) poco resta. La variante dice solo che “onde evitare che il recupero all’uso da parte dei privati si traduca nella impossibilità di accedere alle isole da parte della generalità dei cittadini, laddove ciò appariva ragionevole è stata ricavata una porzione da destinare a spazio d’uso pubblico… che sarà regolato da convenzione tra privati proprietari e comune e ne stabilisca orari e modalità compatibili con l’uso principale dell’isola”.
Santa Maria della Grazia
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| Santa Maria della Grazia |
Per attirare i compratori, oltre ad un quadro normativo sempre più “business friendly” , le amministrazioni pubbliche fanno a gara nell’abbassare i prezzi delle isole a valori fuori mercato. Nel 2001, ad esempio, la regione autorizza l’azienda sanitaria locale che intende alienare l’isola della Grazia, di quasi 4 ettari, “al fine di ricavare risorse necessarie al miglioramento delle strutture sanitarie al servizio dei cittadini veneziani”, a venderla per 20 milioni di euro. Ma l’anno successivo, nel 2002, una nuova delibera ne dimezza il prezzo a 10 milioni.
Quindi, il comune si attiva per “offrire una corsia preferenziale” per la Grazia e, nel 2003, adotta una variante (stralcio della variante per tutte le isole non ancora adottata) che ne modifica le destinazioni e consente la costruzione di due nuovi edifici.
Nel 2007 l‘isola è venduta, per 8,7 milioni di euro, alla GS Investment di Giovanna Stefanel, sorella dell’imprenditore trevigiano, “entrata nel mondo degli affari immobiliari con il marito tedesco”.
Oltre che da vertenze giudiziarie per presunte irregolarità nella vendita e dalla pretesa dei proprietari di accollare i costi di bonifica dei terreni ai contribuenti, la trasformazione è rallentata anche dalla insoddisfazione della signora Stefanel che amerebbe farne una sua residenza - “l’isola è entrata nel mio cuore!”- per i vincoli che ne impongono un pur minimo accesso pubblico.
Secondo lo schema di convenzione per il progetto unitario per la riqualificazione della Grazia approvato nel 2012 (sindaco Giorgio Orsoni, assessore Ezio Micelli), tali vincoli consistono nella “apertura della piazzetta e la possibilità di passaggio lungo un percorso prestabilito, per tre giorni alla settimana, più le festività, dalle 10 alle 11 e 30”. La piazzetta, peraltro, per 60 giorni all’anno rimane ad uso esclusivo della struttura ricettiva.
Secondo il Gazzettino “la Grazia è una storia emblematica delle complicazioni in cui si può impantanare la vendita di un bene pubblico… di come un piccolo gioiello possa finire nel dimenticatoio nella rovina”, ma tutto è bene quel che finisce bene, e ora pare che la signora Stefanel possa procedere. I suoi architetti, ha dichiarato, stanno lavorando a “un progetto mondiale, una struttura unica”, e finalmente “sarà garantito il recupero dell’isola nel rispetto della sua storia”.
Santo Spirito e Poveglia
Assieme all’azienda sanitaria locale, il grande venditore di isole è il Demanio dello Stato, le cui offerte sono sicuramente le più vantaggiose. Nel 2004, ad esempio, vende, per 350 mila euro, i 2,4 ettari di Santo Spirito ad un gruppo di imprenditori padovani facenti capo alla Poveglia srl.
Il relativo “piano di recupero di iniziativa privata”, strumento sufficiente, dopo l’approvazione da parte della regione, nel 2010, della variante per la laguna e le isole, per le trasformazioni fisiche nel territorio lagunare, è approvato nel 2014 dal commissario straordinario Vittorio Zappalorto.
La destinazione dichiarata è residenziale, una scelta determinata dalla volontà di “creare un luogo dove si può godere del vivere in mezzo all’acqua abbandonandosi alla quiete e al silenzio… assaporare l’estasi di vivere tra mare e cielo, tra acqua e stelle, e l’attrazione di raggiungere in pochi minuti il salotto più emozionante al mondo piazza san Marco”. Alla residenza sarà annessa una piscina e il tetto potrà essere coperto con una struttura che non “costituisce volume”. Ci saranno anche un certo numero di case- albero, strutture aperte e staccate dal suolo, dedicate a chi desidera godersi la vista della laguna meditando”. In definitiva, concludono gli autori, si tratta di un progetto di “ri-antropizzazione dell’isola saccheggiata e distrutta dopo secoli di splendore residenziale”.
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| Santo Spirito |
“Case per 144 nuovi veneziani. La sfida è ripopolare la città storica col recupero di beni dismessi” titola con entusiasmo il Gazzettino (15 marzo 2014); “Quartiere residenziale per 150 persone” esulta la Nuova Venezia (30 luglio 2014). Più sobriamente, le agenzie immobiliari parlano di villaggio nautico (si sta infatti progettando una darsena) con alloggi e relativi posti barca.
Oltre che per il linguaggio ingannevole, il piano di recupero di iniziativa privata per Santo Spirito merita attenzione per il modo in cui perfino modeste previsioni di spazi pubblici vengono stravolte a danno dei cittadini. Per i 144 abitanti teorici insediabili sull’isola, infatti, gli standards prescriverebbero una dotazione di 3456 metri quadri. La prevista area verde pubblico con possibilità di ormeggio ne misura 1581, meno della metà. Gli altri 1875 “non sono stati trovati”, recita la delibera con cui è stato approvato il piano, e quindi il loro valore “sarà” monetizzato. L’area pubblica, inoltre, sarà recintata e alcuni cancelli vi permetteranno l’accesso dalla parte privata.
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| Poveglia |
Il Demanio dello stato ha messo all’asta anche Poveglia che è stata aggiudicata, per 513 mila euro, all’attuale sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, intenzionato a crearvi un centro di “cura per i disturbi alimentari”. L’associazione “Poveglia per tutti” è riuscita a portare all’attenzione mondiale lo scandalo di un paese dove i cittadini sono costretti ad organizzare collette per pagare il riscatto dei beni di loro proprietà, che le pubbliche istituzioni sequestrano a vantaggio di interessi privati.
La vendita di Poveglia è momentaneamente ferma, ma altre isole sono sul mercato. Come dichiara Claudio Scarpa, direttore dell’associazione degli albergatori di Venezia, “il business alberghiero si sta progressivamente spostando sulle isole… Venezia soffoca di turismo, così i big player dell'hotellerie guardano alle isole….luoghi in grado di garantire riservatezza e fornire ambienti ideali per resort e strutture di lusso dotati di ogni comfort”.
Tutti questi “ambienti ideali”, che secondo la variante dell’assessore D’Agostino erano stati abbandonati perché occupati da funzioni povere come gli ospedali, sono ora reclamizzati come oasi di benessere psichico e fisico: relax totale a San Clemente (ex manicomio), aria buona a Sacca Sessola (ex sanatorio); splendido isolamento alla Grazia (ex malattie infettive). Forse il loro “problema” non erano le funzioni povere, ma i clienti poveri. In sé le isole sono perfettamente adatte al benessere e alla salute, ma solo per i ricchi investitori che le salvano dalla “tragedia dei commons”.
Nota. Tutte le foto delle isole sono tratte dal programma Mappe di Apple inc.
«Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori». Il manifesto, 23 agosto 2016, con postilla
I manifesti contro gli stranieri “maleducati” affissi a San Zaccaria, a due passi dalla Basilica di San Marco. Non si parla d’altro in questi giorni a Venezia, dopo che l’associazione venetista Wsm (Viva San Marco) si è spesa assieme ad altre in inviti perentori di dubbio stile, allo scopo di liberarsi del “foresto”.
Sono certi, i firmatari dei manifesti, di interpretare il pensiero e la volontà di quei veneziani che si sentono aggrediti dalla folla dei turisti. Rigorosi e brutali i messaggi accompagnati talvolta da immagini suine offensive corredate da scritte tradotte in inglese che dovrebbero “ripulire” la città dagli ospiti sgraditi.
Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori. Se ce la fa ad offrire accoglienza e servizi capaci di stemperare l’impatto estivo, se vaporetti, motoscafi, sono sufficienti alla domanda, se i cestini di rifiuti, sempre straripanti vengono svuotati puntualmente. Nel contempo aumentano le offerte sul web, che invitano, invogliano a realizzare il sogno di visitare Venezia: appartamenti e bed and breakfast in questi giorni presi di mira e dalla pentola scoperchiata sono uscite situazioni intollerabili di evasione fiscale, di degrado, di prenotazioni in nero di luoghi fantasma scoperti per caso, come un appartamento di lusso a San Pietro di Castello che fruttava ai proprietari 25mila euro alla settimana.
Sullo sfondo le cause e gli effetti: Venezia nel 1951 contava 175mila abitanti, oggi arriva a stento a 56mila. Ne è scaturito uno sradicamento sociale ed umano e la città d’acqua e di pietra è diventata un polo turistico commerciale prezioso per l’economia e per tutte le attività che godono della presenza del turista (oggi con 34milioni di visitatori all’anno la laguna è in ginocchio). La città, sommersa e ferita, non ha sufficiente forza e voce per rivendicare la sua vocazione culturale e sono in molti ormai a pensare che sia necessario un ripensamento, un progetto capace di offrire una alternativa al turismo.
Quel progetto non può che nascere dal suo resistente e storico centro culturale e come suggerisce il Rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliari, dovrebbero essere le Fondazioni culturali, la Biennale, l’Università, la Fondazione Cini e le diverse e differenti anime della cultura ad offrire nuove opportunità in grado di diversificare la domanda (ambiti informatici e scientifici… ), ridurre le presenze estive per invogliare a visitare Venezia d’inverno e nei posti meno frequentati come il Lido, l’Arsenale e Santa Marta. Il Sindaco dal canto suo promette la linea dura nei confronti di chi offende la città, ma la Giunta di Luigi Brugnaro nel suo complesso è cauta, sa che i proventi del turismo sono fondamentali alla sua economia e conta su cartelli e mezzi informativi per educare alla civiltà. Tant’è.
Spiace scomodare Simone Weil e la pietas che si dovrebbe riservare alla bellezza quando si sente che la stiamo perdendo, ma che direbbe Jaffier, l’eroe puro di Venezia Salva che pur in vesti e armi spagnole, non ha voluto contribuire alla distruzione della città. E per questo ha tradito, per non infrangere il sogno di tanta, troppa, incontenibile bellezza. La città di Carlo Goldoni che ha incantato e incanta artisti di ogni dove, la Venezia invernale di Josif Brodskij, con le sue tinte cupe, sembra non esserci più.
Eppure resiste ad ogni provocazione, di sua natura è aperta e ospitale, apprezza chi la ama, chi visita i suoi monumenti e le sue chiese. E anche chi semplicemente vuole capire il senso dell’incontro con questa città singolare stretta dai troppi problemi che l’assillano, per primo lo spopolamento e che risente di un tessuto sociale frammentato, oggi più che mai disorientato e incapace di leggerne la complessità.
C’è chi visita Venezia dopo averla molto pensata e immagina di trovare una Venezia classica, legata al mondo antico, con questi sentimenti sono arrivati in Piazza San Marco, Dostoevskij, Goethe è arrivato in barca da Padova, e poi Proust, Lord Byron, Ruskin e tanti altri viaggiatori illustri, sapendo che le loro aspettative non sarebbero state deluse.
Oggi emerge una vita “altra” che i masegni sopportano a stento, il caos infonde disarmonia e diffidenza, mentre le Grandi Navi attraversano beate il Canale della Giudecca e il Bacino di San Marco e i passeggeri fanno ciao ciao con la mano.
postilla
Diciamola tutta. È più di vent'anni che i cittadini del comune di Venezia (della Terraferma e della città lagunare) votano per i sindaci e i partiti che puntano tutte le carte su quel turismo che distrugge la città antica con le due ganasce della sua tenaglia: il turismo sgovernato di massa e il
rapace turismo di lusso, privatizzatore di ogni bene pubblico e stupratore d'ogni monumento. E sono decenni che le istituzioni culturali disprezzano il gigantesco patrimonio culturale costruito in un millennio di storia, facilitando la pseudo modernizzazione della città modernissima.
Per la prima volta si promette di mettere a confronto le diverse proposte presentate par garantire l'accesso a Venezia ai flussi di turisti che l'invadono. La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)
«Una valutazione comparata e partecipata di tutte le soluzioni progettuali alternative per le grandi navi fin qui formalizzate». È l’invito contenuto nel documento finale approvato dalla commissione Ambiente del Senato al termine dell'audizione con i firmatari del progetto di avamporto galleggiante al Lido. Un'ora di domande e risposte davanti al presidente della commissione di Palazzo Madama, Francesco Maria Marinello, con i progettisti Stefano Boato, Vincenzo Di Tella e Carlo Giacomini che hanno risposto alle domande dei senatori.
Critiche severe agli eccessi del turismo sregolato di massa. Lievi rimbrotti a chi quel turismo ha provocato. E silenzio plumbeo su chi ha consentito la privatizzazione di tutto il possibile per favorire il turismo di lusso. Al quale, ovviamente il turismo straccione dà fastidio. Corriere della Sera, 20 agosto 2016
Maiali, no grazie. Certo che era una provocazione, il manifestino affisso sui muri di Venezia da un gruppo venetista con un suino in mutande che buttava pattume per terra sotto la scritta «No welcome!» Una sfida offensiva verso tutti i turisti rispettosi del decoro delle calli. È solo l’ennesimo segnale, però, che i veneziani non ne possono più dell’aggressione di un turismo di massa devastante.
E il video su YouTube dei ragazzi decisi a tuffarsi nel Canal Grande come fossero a Torvajanica è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.
Sono passati trent’anni da quell’estate del 1986 in cui l’allora assessore al Turismo Augusto Salvadori scatenò l’iradiddio sui giornali internazionali e sulla Cbs («Tre minuti tutti per me. Mi hanno detto: assessore, questo è il microfono, parli. E mi go parlà. Asciutto, incisivo, brillante: tutti i mali di Venezia. Il tappeto umano di sacchi a pelo davanti alla stazione, i picnic a San Marco, la gente che orina sulle saracinesche, i turisti che attraversano la città in gommone senza neanche la canottiera, i gondolieri che ai clienti non cantano le canzoni nostre»).
Tre decenni e molti sindaci dopo, i problemi non solo non sono stati risolti ma si sono aggravati. Gente che fa pipì sui muri senza nemmeno cercare più gli angoli nascosti. Giovanotti in bicicletta per le calli. Tende canadesi piantate qua e là nei giardini o nei campielli. Tovaglie stese sulle rive da famigliole che fanno il picnic manco se si trovassero in un’area di sosta sull’autostrada. Avvinazzati stesi nei sotoporteghi sfatti dall’alcol e completamente nudi. Bottiglie ammucchiate all’ingresso della basilica di San Marco perché con le nuove disposizioni antiterrorismo da qualche parte devono lasciarle e gli spazzini non ce la fanno a stare dietro ai cestini della zona dai quali, come ha scritto il Corriere del Veneto vengono rimossi 30 metri cubi al giorno di immondizie. Borseggiatori a tempo pieno sui vaporetti, a dispetto dei controlli che in questo solo mese di agosto hanno visto il fermo di 120 ladri. Sequestri quotidiani di paccottiglia «italian style» falsa sfornata da laboratori cinesi o napoletani.
Per non dire, appunto, del quotidiano bagno nei canali di visitatori italiani e stranieri, giovani e meno giovani che mai oserebbero mettersi in slip o bikini in altre città del mondo. Come i «foresti» di campo San Vio che, svergognati sul web da una veneziana, guardano la signora che dice loro in inglese e tedesco che «non è permesso tuffarsi nei canali» e che «Venezia non è Disneyland», con aria stupefatta. Come pensassero: che storia è questa, Venezia non è Disneyland? Non appartiene forse a chi paga sganciando euro e dollari, sterline e yen? È o non è un «divertimentificio»?
Ha scritto in un tweet il sindaco Luigi Brugnaro dopo il tuffo dal ponte di Rialto di quell’ubriaco schiantatosi su una barca che passava di sotto: «Insisto: poteri speciali alla città per l’ordine pubblico. Borseggiatori, imbrattatori, ubriachi! Una notte in cella». Minaccia ripetuta ieri: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Che dopo anni di lassismo occorra dare una stretta sulle regole per fermare il traumatico degrado di Venezia è vero. Che si possano mettere in riga i turisti (soprattutto quelli che «sporcano di più e spendono di meno») senza mettere in riga anche i veneziani che sfruttano in modo indecente l’alluvione turistica di chi visita Venezia come Las Vegas, però, pare difficile.
Basti leggere il comunicato di ieri della Guardia di Finanza sui risultati della campagna contro i B&B abusivi: «Nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”, mentre alla data odierna ne risultano inserite circa 1.900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1.600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale».
Topaie vere e proprie trasformate in ostelli da 20 euro a notte ed edifici deluxe: «“Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti Internet», spiega la Finanza, «la locazione della magione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, interessata a servizi aggiuntivi di lusso quali vasca idromassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale.
Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea: servizi aggiuntivi richiesti dal cliente di turno, evidentemente molto esigente. Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al Fisco ed al Comune di Venezia». «Tutto regolare, i soldi finivano sul nostro conto corrente, forse non abbiamo pagato la tassa di soggiorno...», dicono i proprietari Giorgio e Ilaria Miani. Ci torneremo domani.
Fatto sta che in quell’estate della prima campagna dell’assessore «al decoro», i giornali stranieri si concentrarono soprattutto sulla più «pittoresca» delle iniziative, l’attacco ai gondolieri che intonavano «’O sole mio» invece che con «Nineta monta in gondola» e un quotidiano locale pubblicò la classifica delle canzoni più gettonate: 1° posto «’O sole mio», 2° «Torna a Surriento», 3° «Santa Lucia», 4° «Funiculì funiculà».
Oggi leggiamo reportage allarmatissimi come quello sul National Geographic di Lisa Gerard-Sharp: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril». Di più: «Chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?».
Domanda scomodissima. Ma giusta. Recentemente il sindaco di Barcellona Ada Colau è tornata a ribadire: «Non vogliamo fare la fine di Venezia». E ha rilanciato la battaglia contro i B&B abusivi: «Noi vogliamo una città bella, ma anche sostenibile. Fra il 2008 e il 2013 il turismo è aumentato del 18% ed è troppo per noi. Barcellona non è Parigi».
Immaginatevi Venezia, che sta per scendere sotto i 55.000 abitanti. Meno di Carpi o Vigevano. Paolo Costa, il presidente dell’autorità portuale che difende il business delle spropositate navi da crociera, sosteneva anni fa in un libro scritto con Jan van der Borg che la città di San Marco poteva accogliere al massimo 12 milioni di turisti l’anno. Nel 2015 sono stati trenta. E ci vogliamo meravigliare se non sono tutti baronetti di buona educazione?
Il pericolo vero, di fronte al moltiplicarsi di appartamenti trasformati in strutture per turisti, è che l'amministrazione sia disposta a chiudere un occhio, come ha fatto finora, purché i proprietari paghino al Comune la tassa di soggiorno imposta per ogni cliente. Per quelle strutture si tratta di un euro e mezzo al giorno a persona. A nostro avviso i posti letto non dichiarati nel Comune sono circa diecimila (sui 27mila dell’intero Comune). Calcolando una media di occupazione di 200 notti all'anno, parliamo di circa due milioni di persone, che pagherebbero una tassa di tre milioni di euro.
«Venezia: continua l'operazione "Venice Journey" di Finanza e polizia municipale. Ostello con 20 letti ma con una igiene vergognosa. Scoperto anche un affittacamere abusivo. Nel timore dei controlli, ora i cittadini collaborano: incremento di nuove attività emerse dell’800% in un anno». La Nuova Venezia, 19 agosto 2016
L’operazione "Venice Journey" quindi continuerà anche nei prossimi mesi per salvaguardare gli imprenditori che operano nella legalità e che rispettano le regole, oltre che la sicurezza dei cittadini veneziani e dei turisti che soggiornano a Venezia.
«Ho agito d’impulso, ma non capiscono che possono finire tranciati da un’elica?». A parlare è Roberta Chiarotto, la signora che mercoledì pomeriggio alla vista di un gruppo di ragazzi e ragazze stranieri in mutandoni e bikini, che stavano per tuffarsi in Canal Grande dalla riva di campo San Vio - come fossero in una qualunque spiaggia - ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a riprenderli: ma a differenza dei tanti che riprendono e tacciono, sfogandosi poi solo sui social, la signora Chiarotto ha iniziato a richiamare all’ordine il gruppetto balneare (due ragazze e quattro ragazzi). In italiano, in inglese e anche in tedesco: «È proibito tuffarsi a Venezia. Questa non è Disneyland, è una città». E loro, mogi mogi, son tornati occhi bassi sui loro passi. «Siamo veramente al troppo che stroppia: sembravano sobri», prosegue la signora Chiarotto, «purtroppo temo che sia passato il messaggio che in Italia si possa fare ciò che si vuole».
«PORTO MARGHERA
ULTIMA OCCASIONE»
di Carlo Mion
Marghera. Le grandi fonderie e fabbriche siderurgiche nate all’inizio del seconolo scorso (dalla Sava, all’Alumix fino all’Alcoa) ormai è stata praticamente azzerata, lasciando capannoni vuoti e fatiscenti in aree abbandonate a se stesse e piene di veleni. Anche la parabola della chimica di base italiana che ha fatto la storia di Porto Marghera, qui è cominciata occupando decine di migliaia di lavoratori ai bordi della laguna e qui ora sta sparendo quasi del tutto, ancor prima della possibile rinascita in una nuova versione “green” che utilizza oli vegetali al posto deo derivati del petrolio. “E mo', e mo', Moplen!” diceva con il suo faccione da clown l'indenticabile Gino Bramieri pubblicizzando in televisione la rivoluzionaria plastica di propilene prodotta per dalla Montecatini sulla scia della scoperta di una nuova sostanza plastica polimerica fatta dal premio Nobel Giulio Natta.
«Automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città con gli sfratti e con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni. Occorre attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua». La Nuova Venezia, 12 agosto 2016 (m.p.r.)
Ormai da oltre vent’anni anni continuano le dichiarazioni che non vogliono farsi carico dell’esodo che sta portando alla morte la città d’acqua di Venezia e le isole minori della laguna. Hanno cominciato le giunte Cacciari-D’Agostino revocando e cambiando le norme in vigore del Piano regolatore della città storica adottato precedentemente, norme che hanno bloccato fino alla fine degli anni ’90 i cambi d’uso degli appartamenti. Le concessioni dei cambi d’uso sono poi sempre continuate fino all’attuale giunta Brugnaro che ha subito prontamente contraddetto gli impegni elettorali.
«L’architetto D’Agostino interviene sullo spopolamento “Ho favorito gli alloggi turistici? No, il piano si poteva cambiare. Più controlli sui B&B”». Le responsabilità dell'ex assessore sono in verità considerevoli. La Nuova Venezia, 11 agosto 2016 , con postilla
Per qualcuno è uno dei «responsabili» della deriva turistica del patrimonio immobiliare veneziano, perché il suo piano regolatore del 2005, favorì l’accorpamento degli alloggi, le trasformazioni alberghiere e il proliferare dei bed & breakfast, ma l’architetto Roberto D’Agostino - per molti anni assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia e poi presidente di Arsenale Venezia spa, la società di gestione del complesso, poi disciolta dalla Giunta Orsoni - respinge l’accusa e rilancia, spiegando perché, a suo avviso, le politiche pubbliche sulla residenza negli ultimi dieci anni almeno sono fallite, accelerando lo spopolamento.
postilla
L'architetto D'Agostino è uno dei maggiori responsabili del degrado della città negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda le scelte della pianificazione urbanistica. In questa intervista ha riesposto sue tesi già espresse in passato. Segnaliamo qualche documento in proposito. Sulla questione della "liberalizzazione" in favore delle utilizzazioni turistiche si veda su eddyburg la puntuale risposta che gli diede a suo tempo Luigi Scano, nell'articolo "Prg di Venezia. e proliferazione di alberghi e affittacamere". Si veda anche di Edoardo Salzano Il piano D’Agostino-Benevolo per la città storica di Venezia, e di Alberto Vitucci. Osservatorio casa mandato a casa. Altri articoli ad abundantiam nelle cartelle dedicate a Venezia, nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg.
È da qualche decennio che chi governa Venezia (e il Veneto) fa ponti d'oro a chi lavora alacremente per aumentare la presenza dei turisti a Venezia. Turismo di lusso e turismo di massa tutto fa brodo. E anche la maggioranza dei veneziani acconsente: infatti, vota per loro. La Repubblica, 10 agosto 2016
Lo spopolamento è stato graduale ed è iniziato dopo la grande alluvione del 1966, quando moltissimi veneziani si sono spostati verso la terraferma. Nel 1861 Venezia aveva 128.787 residenti. All’epoca i numeri erano in crescita, tanto da arrivare nel 1901 a 146.682 cittadini residenti e nel 1951 a 167.069, il massimo storico. Poi, il lento ma progressivo svuotamento della città, mentre cresceva il turismo di massa, che oggi si attesta attorno ai 22 milioni di arrivi all’anno.
Una situazione paradossale, perché se la città è un sogno per il turista che ne rimane stregato, dall’altro lato è sempre più un incubo per chi vuole mettere radici nella laguna e si ritrova alle prese con affitti altissimi, botteghe di quartiere che chiudono, negozi di paccottiglia e di souvenir a un euro che proliferano e palazzi che si trasformano in un baleno in hotel di lusso. Se a questo si aggiunge che l’età media è di 47 anni e che la popolazione anziana è in continuo aumento, si capirà che per un veneziano restare a Venezia è diventata una vera battaglia.
Il risultato è un business selvaggio che ricade per primo sui veneziani e su quelle associazioni che chiedono una città a misura di residente e non del turismo di massa, come fa il Gruppo25Aprile con la campagna #Veneziaèilmiofuturo, o l’Associazione Poveglia, che chiede che l’omonima isola non sia ceduta ai privati, o ancora Venessia.com che denuncia da anni il calo degli abitanti.
Se al numero dei cittadini della laguna si somma quello degli degli abitanti delle isole, il calo non si arresta, perché si passa da 84.666 a 83.398 abitanti. «Lo spopolamento non si può risolvere in pochi mesi — dice Lucia Colle, vice sindaco e assessora al Patrimonio — Quello che sta facendo la nostra amministrazione è cercare di attirare gli under 40 con alcuni bandi per case a prezzi privilegiati. Vogliamo anche provare a portare lavoro in città, perché è quello che poi aumenta la residenzialità. Per quanto riguarda le strutture abusive, invece, stiamo aumentando i controlli».
Nonostante le università Ca’ Foscari e Iuav pullulino di giovani, dopo la laurea quasi tutti imboccano il Ponte della Libertà e tornano nella terraferma, dissuasi a restare dagli affitti da capogiro. Uffici e magazzini si trasformano in stanze da affittare e giorno dopo giorno si chiudono i palazzi. E in tutto questo a rimetterci sono quei residenti che non vogliono diventare comparse costrette a vivere in un luna park. Il luna park Venezia che, quando cala la sera, viene dimenticato da tutti.
Prosegue il cammino della privatizzazione del complesso delle isole di Sant'Andrea e Certosa, concesse in uso cinquantennale a una S.r.l dedita allo sviluppo del turismo di lusso. I cittadini tacciono, i loro rappresentanti e i media plaudono. Ora si aggiunge il peso di uno sponsor potente. La Nuova Venezia, 9 agosto 2016
Veicoli elettrici e stazioni per la ricarica, sistemi Ict per l’illuminazione pubblica e connettività a banda larga, interventi di efficienza energetica, impianti fotovoltaici, mini-eolici e batterie per l’accumulo dell’elettricità: grazie alla sperimentazione di una serie di soluzioni innovative, frutto dell’accordo firmato tra Vento di Venezia, società che persegue la riqualificazione dell’isola della Certosa in partenariato con il Comune di Venezia , e Terna Plus, la società del gruppo Terna che sviluppa e gestisce le Attività Non Regolate, l’Isola della Certosa diventa un laboratorio per le energie smart.
Il progetto, della durata triennale, si inserisce all’interno di un programma più ampio che ha come obiettivo il recupero, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico, dei 24 ettari di territorio dell’isola della Certosa. Grazie all’intervento di Terna Plus si innalzeranno gli obiettivi del progetto di rigenerazione urbana e l’Isola, che vanta un notevole patrimonio storico e paesaggistico, diventerà un modello di “Smart Energy Island” sostenibile e all’avanguardia a livello internazionale. Con la diffusione delle energie pulite e la loro integrazione in rete, lo sviluppo della mobilità elettrica e una più intelligente gestione dei consumi, l’Isola della Certosa - che attualmente è collegata elettricamente alla rete in terraferma – si orienta alla gestione energetica localizzata e, al contempo, alla riduzione delle emissioni inquinanti, grazie a un minor impiego di fonti di produzione tradizionale, con evidenti ricadute positive per il territorio e per le attività che verranno sviluppate sull’isola.
Per contenere gli impatti dell’intervento di riqualificazione ambientale,tutte le soluzioni individuate saranno studiate per coniugare le esigenze del servizio elettrico con quelle paesaggistiche, con strutture che occupino la minor porzione possibile di territorio, minimizzando l’interferenza con le zone di pregio naturalistico, storico e archeologico presenti sull’isola.
Il progetto per rendere Certosa un’isola a vocazione rinnovabile, smart, sostenibile, più autosufficiente dal punto di vista energetico e a basse emissioni, fa parte della più ampia strategia di Terna per l’ammodernamento delle reti elettriche delle isole minori, che si estende anche ad altri territori italiani: iniziative simili sono, infatti, già state avviate per le isole del Giglio e Giannutri, in Toscana, e Pantelleria, in Sicilia.
Il mercato immobiliare del lusso a Venezia è ormai in mano agli stranieri - il 70 per cento degli acquirenti - e a livello di prezzi non conosce cali particolari, nonostante il momento ancora delicato in Italia per il settore. È la fotografia scattata dal Market Report Venezia 2016 elaborata da Engel & Völkers, gruppo tedesco leader a livello mondiale nel settore dell’intermediazione di immobili di pregio. I prezzi degli immobili più esclusivi, particolarmente i palazzi che si affacciano sul Canal Grande, vanno dai 12 mila ai 20 mila euro a metro quadrato. In particolare, le zone più richieste per la compravendita di proprietà residenziali di lusso sono San Marco e San Polo e Dorsoduro.
L’85 per cento delle compravendite riguarda appartamenti, mentre il 15 per cento ville o case indipendenti. Il 14 per cento delle transazioni si riferisce a immobili sotto i 250 mila euro, il 60 per cento a proprietà con prezzo compreso tra 250 e 500 mila, il 3 per cento a immobili tra 501 mila e un milione di euro e ben il 23 per cento a immobili sopra il milione di euro, quasi un quarto del totale.
Il 75 per cento degli acquirenti compra per investimento, garantendosi un’ottima rendita economica derivante spesso da un affitto turistico che si attesta all’8-10 per cento lordo. Solo un quarto decide di comprare per uso privato. Esiste quindi già una speculazione esterna anche per quanto riguarda lo sfruttamento degli appartamenti a fini turistici
Una delle aree più richieste è Dorsoduro, dove i prezzi variano da circa 5.500 a 7 mila euro a metri quadrati fino ad arrivare a picchi di 12 mila per proprietà esclusive sul Canal Grande. Anche l’area di San Polo, pur essendo la meno estesa, è una delle più interessanti vista la sua centralità. I prezzi variano da circa 4 mila a 5.500 euro a metri quadrati, fino ad arrivare anche a 9 mila euro a metro quadro.
A San Marco, invece, il vero cuore della città, i prezzi oscillano tra 4.500 a 6 mila euro a metro quadro fino a un massimo di 10 mila euro per le proprietà più esclusive.
I prezzi sono leggermente più bassi nella zona di Cannaregio dove si possono trovare alcuni dei piani nobili più prestigiosi della città ma anche graziosi pied-a-terre. La zona dei Santi Apostoli viene apprezzata invece per la maggiore tranquillità. Qui i costi variano dai 4 mila ai 5 mila euro a metro fino a 9 mila per gli immobili più grandi affacciati sul Canal Grande.
Prosegue a Venezia l'eliminazione di spazi pubblici a vantaggio degli alberghi di lusso. Questa volta si tratta di un Istituto pubblico di assistenza e beneficenza «che ha confermato l’intenzione di mettere a reddito l’edificio - non vendendolo - ma affittandolo alla società che lo trasformerà in albergo». La Nuova Venezia, 29 luglio 2016 (m.p.r.)
La casa di riposo Ca’ di Dio sarà trasformata in un albergo di lusso anziché continuare a ospitare - come è stato da sempre - una residenze per anziani autosufficienti gestita dall’Ire, l’Istituto per il ricovero e l’educazione. Ieri in Commissione consiliare a Ca’ Farsetti si è discusso infatti della Variante al Prg che consentirà la trasformazione dopo che già il commissario straordinario Vittorio Zappalorto aveva approvato una delibera che elimina lo standard pubblico attuale che vincolava l’uso dell’edificio di origine duecentesca che si affaccia sulla riva dell’Arsenale e apre la strada, dunque alla trasformazione alberghiera. In cambio, saranno rafforzati gli standard delle altre due case di riposo dell’Ire alle Penitenti e alla Giudecca.
La richiesta di un intervento dell’Unesco risale al 2011 e fu avanzata da Italia Nostra veneziana, presieduta da Lidia Fersuoch. I cui rilievi sono in gran parte accolti nel rapporto. In questi anni l’organismo delle Nazioni Unite ha avviato tutte le procedure istruttorie per verificare se esistessero ancora le condizioni perché la città e la laguna potessero far parte dei 51 siti italiani patrimonio dell’umanità.
L’Italia è il paese con il più alto numero di siti, che nel mondo sono 1031. Negli ultimi anni hanno rischiato di essere esclusi, senza poi conseguenze, anche Villa Adriana a Tivoli, minacciata prima da una discarica, poi da un insediamento residenziale, e l’area archeologica di Pompei. Una procedura di verifica l’Unesco l’ha avviata qualche mese fa per Vicenza e il paesaggio palladiano: qui un gigantesco complesso edilizio è sorto a qualche centinaio di metri dalla Villa La Rotonda, mentre incalzano preoccupanti progetti per l’Alta Velocità.
Secondo Italia Nostra e altre associazioni, i presupposti sono venuti meno anche a Venezia. Le Grandi Navi transitano regolarmente nel canale della Giudecca per raggiungere la Stazione marittima. Ne arrivano ogni anno, dicono alcune stime, più di 700, il che vuol dire 1400 passaggi davanti a piazza San Marco. Gravissimi, stando sempre alle denunce, sono i danni da inquinamento e da moto ondoso, oltre all’impatto visivo. L’Unesco, nel rapporto, chiede che questi giganti del mare non entrino più in laguna.
Ma le Grandi Navi sono anche l’estremo simbolo di una città consegnata al turismo, 30 milioni di presenze l’anno, il che vuol dire che dalla primavera all’autunno i visitatori ogni giorno sono in numero di gran lunga superiore ai residenti nella città storica, scesi ormai a 56mila (sono 260mila se si comprende Mestre e la terraferma). Tutto, a Venezia, si va piegando alle esigenze turistiche, che sostituiscono i tratti essenziali di una dimensione urbana.
E poi fioccano i progetti alternativi al passaggio delle Grandi Navi. Alcuni prevedono lo scavo di altri canali in laguna per farvi passare le navi tenendole lontane da San Marco: prima il Contorta, più recentemente il Tresse. Su questi progetti il rapporto dell’Unesco esprime molte preoccupazioni per gli effetti di stravolgimento che potrebbero generare sui fondali della laguna stessa, deformandone la natura e trasformandola completamente in un braccio di mare. Il che avrebbe conseguenze drammatiche sulla città di Venezia, il cui benessere dipende molto dallo stato di salute della laguna. Non a caso l’Unesco dichiara patrimonio dell’umanità inscindibilmente città e laguna, raccomandando la tutela di quest’ultima «al pari dei palazzi e delle chiese».
La visione fallocratica della città, conveniente per gli affari, trova facili sponde nel governo della gronda lagunare di Venezia. La Nuova Venezia, 27 giugno 2016
Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione».
Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione.
Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness.
L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco nonc ambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre quattro di Metroter (Aev Terraglio).
Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. La Confesercenti si è già pronunciata contro.
«La proposta del personale? Prima i mezzi pubblici, poi tutti gli altri. «Stabilire la centralità di tutto è quella di considerare il servizio pubblico di trasporto essenziale e prioritario. Come è previsto in tutte le città in Europa». La Nuova Venezia, 23 giugno 2016 (m.p.r.)
Le parolacce non si contano, come pure gli insulti diretti ai comandanti e talvolta il rischio di passare dalle parole alle mani: di perdere il battello una, due volte, per far salire a bordo prima i “veneziani” non ne vogliono sapere quanti - tra turisti e visitatori occasionali - restano in attesa a bordo dei pontili dove si sta sperimentando l’accesso prioritario per i titolari di tessera unica. A calmare gli animi sopperisce Actv con un’iniezione di corse bis, ma se ne salta una, gli animi si accendono. A suonare la sveglia sono i piloti del Comitato lavoratori Actv, pronti a saltare la fermata di Rialto se seguiranno le intemperanze. «Accade spesso a Rialto nella seconda metà del pomeriggio, a piazzale Roma la mattina, al Lido la sera», racconta Nevio Oselladore, comandante Actv e presidente del Comitato.
«“Serve un monitoraggio sugli effetti dei lavori alle bocche”. Un no deciso allo scavo di nuovi canali come il Tresse per le grandi navi». La Nuova Venezia, 21 giugno 2016 (m.p.r.)
I lavori del Mose hanno trasformato la laguna e cambiato le correnti. Aumentando la velocità dell’acqua e l’erosione, a volte modificando la direzione della marea. Uno stravolgimento che da tempo pescatori ed esperti segnalano inascoltati. Ora reso ufficiale da una delle maggiori autorità idrauliche del mondo scientifico. Luigi D’Alpaos, professore emerito di Idraulica dell’Università di Padova, ha illustrato ieri sera a San Leonardo il risultato dei suoi studi. Lanciando l’allarme alle autorità che i occupano di acque e laguna con una rivelazione clamorosa.